Estetica postumanista
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Estetica postumanista

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La tradizione umanista ha mantenuto e consolidato alcune coordinate paradigmatiche di giudizio ben riconoscibili tanto da farci parlare di un canone umanista basato su un preciso orientamento di preferenza sulla rappresentazione del corpo umano. Questo canone esprime inevitabilmente una conseguente definizione estetica della cultura, vista come habitat preferenziale del retaggio prometeico, considerandola al tempo stesso emanazione autarchica dell'ingegno umano, e principio disgiuntivo dell'essere umano da ogni residuo di animalità. La techne assume una configurazione strumentale rispetto alle finalità umane e allo stesso modo l'animalità non è più una dimensione condivisa, ma assume la forma di controlateralità rendendo l'uomo "il non-animale". Questo saggio vuole indagare questa trasformazione, definita con il termine di postumanismo, al fine di mettere in risalto le differenze di orientamento e di sensibilità, ma soprattutto di tracciare una sorta di mappa concettuale circa gli slittamenti che tale metamorfosi estetica sta avendo nel modo corrente di leggere il corpo, l'animalità, la natura e infine la tecnologia, in una concezione della condizione umana che testimonia un'innegabile rivoluzione nei predicati di riconoscibilità e di proiezione.

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Information

Capitolo secondo
Il declino della purezza
Premessa
Per comprendere la differenza tra l’approccio umanista alla dimensione del bello e del sublime e quello postumanista, occorre far riferimento al concetto di purezza, considerato dai primi come requisito fondamentale per conseguire una pienezza e un appagamento estetico, messo, viceversa, in forte discussione dal postumanismo. Già si è detto come l’estetica umanista si basi su una concezione disgiuntiva del contesto umano rispetto a quello naturale, che non significa che non si riconosca una concezione di bellezza in entrambi, ovvero che si debba per forza definire l’uno bello e l’altro brutto, ma che i due contesti facciano riferimento a canoni differenti e per molti versi antinomici. Il vero indicatore estetico per entrambi è il gradiente di purezza o di autenticità che manifestano, in particolare il livello di disgiunzione dell’umano dal naturale e, per converso, l’incontaminato della natura. È come se i due domini si respingessero reciprocamente, per trovare una loro dimensione di equilibrio e di adesione a se stessi, da cui è evidente la matrice essenzialista che caratterizza l’umanismo.
L’umano e il naturale, secondo il pensiero umanista, fanno riferimento a principi e coordinate differenti, per cui ogni meticciamento dei due ambiti provoca deformazioni e allontanamenti dalla coppia bello-vero: presupposto che informa il dettato essenzialista. Possiamo pertanto notare il tentativo alchemico di estrarre l’umano togliendo le residuali scorie naturali, in una prospettiva di purezza primigenia (disvelabile) dell’umano dal tellurico, e parimenti di salvaguardare la natura dalla polluzione dell’uomo, evocandone la dimensione del selvaggio, dell’incontaminato, del preservato, della stabilità. L’umanismo fa riferimento a una condizione originale che presenta una sua perfezione ossia una compiutezza rivelatrice delle possibilità: quanto più estratta nella sua forma originale, tanto più essa è in grado di mostrarci la sua inerenza, la sua verità intrinseca, e tanto più è in linea con i canoni di bellezza. La compiutezza è l’adesione a un connotato principiativo, a un’essenza, e la valutazione sembra far riferimento al raggio di orbitazione che l’ente-evento manifesta rispetto alla sua forma d’origine, nonché al livello di epurazione da ogni forma di contaminante.
Per gli umanisti la natura è perfetta: nelle sue funzioni, negli equilibri, nelle previdenze, nelle sue ciclicità, nei gradienti che sembrano predisposti per offrire all’essere umano il miglior palcoscenico per il suo protagonismo. La natura, come esemplificazione sussuntiva ed essa stessa dotata di un’universalità intrinseca, seppur espressa nella multiformità – gli animali sono differenti tra loro, ma tutti rispondono al medesimo principio epimeteico, ciò che Pico della Mirandola definisce come rango8 e Heidegger nel concetto di “povero di mondo” – è il teatro che consente all’essere umano, unico vero attore, la sua recita a soggetto. La natura è il luogo abitabile, ma direi di più, è il fondale che permette di portare in primo piano le vicende dell’umano; per tale motivo la purezza è il prerequisito che consente non solo la perfetta disgiunzione, ma altresì la stabilità al dinamismo dell’uomo: perché l’essere umano possa esprimere la sua tensionalità, è indispensabile che il non-umano gli dia fondamento, ovvero manifesti una sua intrinseca stabilità. Da qui la trasformazione del movimento della natura in una sorta di moto armonico destinato a ripetersi ciclicamente, a ritornare cioè sempre su se stesso, un assioma che verrà scalzato definitivamente solo con il pensiero darwiniano.
La seconda interpretazione che l’umanismo fa della natura è il suo essere a disposizione dell’uomo, la sua strumentalità, sintetizzabile nel concetto antropologico del “buono-da”, qualunque ne sia la declinazione9. Per poter assolvere a questo dettato, occorre partire da una bontà originale della natura, un suo implicito rendere disponibili ricette utili, potremmo dire vergini nel non essere ancora contaminate dall’hybris prometeica. La natura per gli umanisti è il libro che mostra sempre la soluzione migliore, la strada più breve, la versione più produttiva, la strategia a lunga durata vincente. È un breviario formulato da un’intelligenza superiore, senza reticenze, contraddizioni, errori o ridondanze, all’interno del quale poter leggere-disvelare il divino. Ben prima della teologia naturale di William Paley10, già il genio leonardesco si rivolgeva alle pagine della natura per intravvedere la traccia di dio. Il complesso meccanismo, inarrivabile all’officina umana ma teoricamente formulabile, secondo Descartes, preconizzando così l’assonanza di reale e razionale, non si distanzia da quel principio epimeteico per cui ogni vivente è declinato secondo natura, annichilendo così lo spazio di quell’ambiguità che nell’umano si chiama arbitrio, in lui predicato di ogni libertà e vincolo di responsabilità o di leopardiano rimpianto. La natura è perfetta, risultato del progettista divino, che ha predisposto ogni morfologia per la funzione, ogni prestazione per la sopravvivenza, ogni presenza per l’armonia dell’insieme, ogni tempo per la ciclicità. La natura è un prodotto finito, un cantiere già chiuso a priori, un giardino predisposto per l’uomo.
La natura è per l’uomo ma, in fondo, non ha nulla a che vedere con il battito che regge l’umano. L’uomo si discosta dall’espressione naturale, nel bene come nel male, e perciò ne è responsabile: è un funambolo che oscilla, sempre sul punto di cadere, ma meravigliosamente sospeso nel nulla. Secondo gli umanisti l’essere umano risponde al dettato del declinabile, non del declinato, è compiutamente altro rispetto alla natura. La perfezione dell’umano sta: i) non nell’esplicitazione di virtù inerenti, ma nella costruzione di valori; ii) non nella posizionalità, all’interno di un rango prefissato, ma nella fluttuazione autodeterminante; iii) non nella ciclicità del tempo, che sostiene il sempre, ma nella linearità dell’avvicendarsi verso un orizzonte che parla di qualcosa che verrà; iv) non nella rispondenza passiva a leggi prefissate, ma nella capacità di sfidare lo status quo, di estrarre la regola dal processo e di poterla utilizzare a suo vantaggio; v) non nell’utilizzo performativo della dimensione somatica, ma nella vestibilità del corpo. La distanza tra l’uomo e la natura riguarda una diversa spettanza ontologica, che va fatta risalire all’essenza genealogica, quel tratto primigenio che, non accordando all’uomo il dono di Epimeteo, gli ha aperto le porte alla libertà e all’autopoiesi. All’uomo è dato il regno dell’artificiale, dell’artificio quindi, ciò che è frutto dell’arte e dell’ingegno, ma altresì ciò che parimenti non segue propriamente le regole, che trucca il gioco rispetto all’onesto naturale. L’essere umano è nella vicenda, il suo agire si pone nella dimensione storica del narrabile, a differenza del sempiterno della natura.
La distanza tra i due contesti, dell’umano e del naturale, il riferirsi a una loro perfezione intrinseca che rende manifesta la loro bellezza alla condizione di purezza, influenza profondamente l’estetica umanista, che vede nella contaminazione l’esemplificazione più chiara del brutto. Brutto è ciò che non rispetta il proprio dominio, che si situa in una dimensione incerta, che si allontana dalla purezza. Ovviamente ci sono differenti modalità di rappresentare la purezza della natura e dell’umano, l’importante è mantenere saldo il timone della disgiunzione tra i due termini. Per gli umanisti l’essere umano è un’entità volatile, a differenza della stabilità della natura, la sua dignità sta nella libertà che lo caratterizza e gli consente l’autodeterminazione, a differenza di una natura ove tutto è già determinato e perciò normato e di conseguenza sincero in esso. Nella natura il tempo è un mero ripetersi ciclico, come le lancette all’interno del quadrante dell’orologio. L’adesione alla propria dimensionalità ontica, il declinato della natura e il declinabile dell’umano, nel disgiungere i due termini, suggerisce una perfezione che deve accordarsi con l’autenticità.
La purezza campeggia nelle opere degli umanisti: è un far riferimento a qualcosa di precedente, ma parimenti è una tensione che guida la mano dell’artista e il pensiero del filosofo, la ricerca dello scienziato e lo sforzo dell’esploratore. Differenti sono le metriche del gusto umanista, laddove si esalta la libertà dell’uomo o ci si rivolge all’incontaminato naturale, e tuttavia tale appello alla purezza e all’estetica come estrazione epurativa, rito di purificazione, caratterizza tutta la parabola umanista. Differenti possono essere i modi attraverso cui si rappresenta la disgiunzione ed è evidente la metamorfosi narrativa che l’uomo fa della natura nel tormentato tragitto del pensiero occidentale che va dal classicismo al romanticismo. E tuttavia mai si viene meno a questo presupposto di considerare la natura come altro-da-sé, partecipazione al limite lata o parziale dell’umano che, viceversa, si proietta in un’altra dimensione fino a negare una propria natura. La purezza come adesione all’autenticità e ricerca, spesso nostalgica di un ordine delle cose, sembra essere il principio irrinunciabile, l’operatore artistico che informa ogni poetica.
Poi, nel Novecento, assistiamo a un cambiamento, graduale e confuso all’inizio poi sempre più esplicito, oserei dire chiaro nel suo esibirsi, quando la biologia prende il sopravvento nello spaccio d’immagini ecologiche, genetiche, paleoantropologiche, etologiche, biotecnologiche, procreatiche, immagini che rompono i confini e creano trasversalità nemmeno lontanamente immaginabili pochi decenni prima. L’avvento della tecnologia digitalica non segna semplicemente l’immissione di un nuovo media e il diffondersi di nuovi messaggi, rappresenta una vera e propria cesura antropologica, paragonabile al linguaggio e alla scrittura. Le modificazioni percepite sempre più riguardano i riferimenti cardinali dell’umano e del non-umano; in seguito, l’appello alla purezza viene sempre meno e l’espressione dell’ibrido assume contorni sempre più definiti. La visione umanista è messa fortemente in discussione dagli autori del secondo dopoguerra, quando si comincia a parlare di contesti di ibridazione tra la dimensione umana e quella non-umana e a darne raffigurazioni nelle diverse espressioni artistiche. È un mutamento improvviso, dapprima non compreso e assegnabile alle precedenti figurazioni simboliche: quelle dell’animale metafora o specchio oscuro utilizzato nella zoomorfia, come peraltro quelle del tecnomorfismo, dell’arte ergonomica che assimila il corpo e la tecnologia. Allo stesso modo le performance dell’arte ibridativa sembrano a prima vista nient’altro che continuazioni della body art, nell’esposizione antropocentrica del corpo, quando al contrario rappresentano uno slittamento profondo: dalla centralità del corpo esposto, benché martoriato o sottoposto a pratiche di captivazione, si passa alla somato-landscape dell’incorporazione11.
Cosa sta cambiando nella sensibilità del XX secolo? Be’, indubbiamente svariati sono i fattori che segnano un deciso cambio di passo nell’estetica, a partire dagli anni Sessanta, tra cui: i) l’impatto sempre più invasivo della tecnologia nella vita dell’uomo e la sensazione di essere progressivamente invasi da essa anche sotto il profilo ontologico; ii) la crisi ecologica in atto, che mette in discussione l’ideologia antropocentrica e suggerisce l’importanza di riconsiderare i nessi che legano l’uomo alla natura; iii) le rivoluzioni informatica e biotecnologica che creano da una parte l’emergenza di una realtà parallela, quella digitalica, dall’altra un’orizzontalità del bios; iv) lo sviluppo della bioetica che accresce, non solo la riflessione sulla liceità di certe prassi, ma soprattutto la consapevolezza del rapporto tra corpo e persona e la titolarità individuale sul corpo; v) le conoscenze scientifiche, rispetto alle reti ecologiche, al comportamento animale, alla pluralità degli ominidi comparsi sulla Terra. Tutte queste trasformazioni contribuiscono inevitabilmente a una trasformazione del sentire che si manifesta nella pittura, nella narrativa, nel cinema e in ogni altra arte. Ma c’è un autore la cui influenza più di altri si proietta nel Novecento, mettendo in discussione quella purezza disgiuntiva che è stato il cavallo di battaglia dell’estetica umanista.
La visione postumanista può essere fatta risalire al pensiero darwiniano, non banalmente per l’idea dell’origine condivisa tra umano e non-umano, quan...

Table of contents

  1. Capitolo primo La dimensione estetica del corpo
  2. Capitolo secondo Il declino della purezza
  3. Capitolo terzo L’estasi ibridativa
  4. Capitolo quarto Il sublime eteromorfo