Le arti dello spazio
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Le arti dello spazio

Scritti e interventi sull'architettura

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Le arti dello spazio

Scritti e interventi sull'architettura

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Nel 1985 Bernard Tschumi, vincitore del concorso per il Parc de la Villette a Parigi, chiede a Jacques Derrida di collaborare con Peter Eisenman su un progetto riguardante uno dei giardini del parco. La collaborazione con Eisenman non troverà mai una effettiva realizzazione, ma darà vita a un libro straordinario come Chora L Works. Le arti dello spazioriunisce tutti gli scritti di Derrida – molti dei quali ancora inediti in italiano – a proposito dell'architettura. Una raccolta di recensioni, lettere, relazioni a convegni, incontri con teorici, architetti e studenti di architettura, interviste, discussioni, testi pubblicati da autorevoli riviste specializzate come "Architectural Design", "Assemblage", "Domus". Testimonianze dell'interesse tutt'altro che marginale di Derrida per l'architettura, ma anche dell'attenzione che l'architettura ha rivolto all'opera del filosofo franco- algerino.

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Information

Faxtestura121




Ecc. Da dove? Woher? Pou tes choras?
Quaere, unde domo (sit).
Where are you from?
Where do you came from?
Ecc.

1 – Whence: Simulacro di prolegomeni e falsa partenza

Non meno dell’architettura, tanto quanto l’urbanistica, la retorica si presenta come una teoria dei luoghi: topologia e tropologia. I tropi sono dei giri [tours], dei cambiamenti di luogo, from somewhere to somewhere else [da qualche parte a qualche altra parte]: spostamento, viaggio, transfert o trasposizione, metonimia o metafora, traduzione o transumanza. La citazione, da parte sua, come la transumanza, e più che mai la traduzione e più che mai la citazione in traduzione, equivale, l’etimologia lo attesta, a mettere in movimento, per trasferire, deportare, esportare da un luogo a un altro. Promettendo sempre un qualche ritorno all’origine. Una transumanza consiste nel migrare, nel cambiare terra o terreno, nel portarsi da una terra all’altra, al di là (trans) di un luogo terrestre o terreno (humus) verso un altro – e questo si dice innanzitutto di una popolazione animale in migrazione, più precisamente di un gregge accompagnato o guidato da un pastore. Presa alla lettera, la parola transumanza designò per lungo tempo un nomadismo regolare, regolato dal corso delle stagioni, che organizzava l’habitat dell’uomo in armonia con la phýsis, la vita della natura, l’allevamento, e cioè la vita e la morte degli animali, la cultura costruita su di un certo rapporto (pre-industriale o industriale ma sempre economico-sacrificale) all’animalità: tra una certa naturalità e la cultura umana, tra la “vita” supposta selvaggia e l’allevamento senza addomesticamento, ma anche tra il nomade e il sedentario. Tra questi due poli, in mezzo ad essi e dunque toccando ai due bordi dell’opposizione. Abbandonato qui all’economia della sua ellissi, questa sola parola animalità potrebbe posizionare in riserva, cioè fare posto ad una questione che non avrò il tempo di porre ai nostri amici architetti o “urban designers”: che ne farete dell’animale?
In principio, la citazione-traduzione, che per il momento comparo ad una transumanza, sembra sempre possibile, e da ogni luogo verso qualsiasi altro luogo, from anywhere to anywhere.122 Una citazione-transumanza sembra sempre possibile. A partire dalla traduzione, dalla recezione e dal riciclaggio di un pensiero, il movimento della citazione, come l’incitazione alla citazione, può sembrare provenire da qualsiasi luogo (from anywhere) e sfidare così il suo essere indigeno, perfino la sua autoctonia, il luogo della sua origine, del suo habitat, della sua archiviazione, della sua biblioteca. Insomma il suo idioma e la proprietà in generale. E gli architetti oggi qui riuniti non per caso sono dei grandi artisti dell’innesto citazionale o degli esperti di retorica. Il luogo stesso, e tra tutti i luoghi, il luogo di un habitat o di una residenza possibile, la (il) fine di una transumanza si definisce a cose fatte [après coup], come questo anywhere che viene a determinarsi, a sospendere la sua erranza o la sua migrazione organizzata, a partire da ciò che vi si importa o da ciò che se ne esporta. Il luogo diventa allora un raggio d’azione [portée] o un porto, il che, nell’idioma francese, ci conduce tanto verso il pentagramma musicale [portée]123 quanto verso il porto di mare – o il portamento della testa, detto altrimenti verso il capo (caput), il luogo del capitale o di ciò che nella mia lingua si chiama anche il capo-luogo, oppure la capitale: il sito privilegiato della decisione, della ricchezza accumulata, dell’autorità o del potere, un focolare centripeto e centrifugo allo stesso tempo. Il porto è a volte un capo, e noi siamo qui, su quest’isola, non lontano da un luogo in cui il porto e il capo sono una cosa sola. Navigo lentamente verso la questione politica della capitale e della mutazione (io non dico la sparizione) che l’avrà colpita incancellabilmente nel XXI secolo.
Dopo simili preliminari, dei quali non saprò mai dire se sono calcolati o aleatori, farò finta di partire da due citazioni. Una citazione è sempre spostata, deportata, dicevamo, trascinata da un movimento di import-export lontano dalla sua biblioteca, almeno se si conserva alla parola citazione il suo senso dominante, che le viene dal linguaggio e dai libri.
Perché la biblioteca? L’anno scorso, a Los Angeles, avevo suggerito che si facesse del cimitero uno dei nostri temi: si può pensare alle sepolture monumentali, tali quelle dei templi, fuori o dentro la città, ma anche a dei cimiteri che non sono più “sotto la luna”, come si dice, né intra muros extra muros. Si inuma sempre meno, sempre meno si portano i corpi alla terra, si incenerisce sempre di più e il Giappone resta a questo proposito esemplare. Alcuni possono anche desiderare, e tra questi, alcuni possono perfino pagarsi la spedizione “nello spazio” delle ceneri amate. Nella serie dei luoghi di morte, in quanto sono così spesso dei luoghi circoscritti e dissociati, inclusi-esclusi, in una volta dentro e fuori lo spazio sociale, si citeranno tanto i mattatoi che le prigioni, i campi di internamento o di sterminio, i campi di deportazione o i campi della morte, con o senza fossa comune, con o senza inumazione. Che ne sarà nel XXI secolo? Privilegiando così il lessico della transumanza e dell’inumazione, vorrei evocare, da molto lontano, una certa politica della terra. Poi, oltre che dei cimiteri e della finitezza dell’architettura, perché non parlare qui di tutti i luoghi anumani dell’animale, perfino dell’animalità nello spazio della cultura umana, ma anche delle biblioteche, come aveva cominciato a fare l’anno scorso Rem Koolhaas? La dis-locazione di un certo anywhere le affetta ormai più visibilmente che mai: in primo luogo, le biblioteche in effetti continuano ad ospitare gli archivi dei progetti (non realizzati) o le riproduzioni delle opere di architetti che prendono in conto una certa logica dell’anywhere (una biblioteca è a priori dislocata perché essa ospita la sua propria rappresentazione e contiene sempre ciò che è più grande di se stessa); poi, in ragione del gigantesco processo mondiale di micro-informatizzazione dei libri e della bibliografia, si potrà presto consultare pressappoco qualsiasi documento da qualsiasi parte (from anywhere). E farsene “faxare” la fotocopia. Come la scrittura e la lettura, la transumanza della citazione ne è radicalmente affetta, nel suo spirito come nella sua lettera. Quel che le accade non è assolutamente nuovo, ma permette, a cose fatte, di reinterpretare la storia di ciò che avrà portato questo evento. Senza dubbio bisognerebbe prestare un’attenzione sistematica a questo effetto di boomerang storico per tutto ciò che si può dire o fare in direzione del XX secolo, come del “nuovo” in generale.
Nella storia dell’architettura e della riflessione sullo spazio, che questa fosse implicita o esplicita, il discorso e il soggetto del discorso hanno sempre teso a localizzarsi. Anche se si portavano verso i temi del nomadismo, dell’instabilità, della delocalizzazione, della dislocazione, essi pretendevano procedere da un sito, a partire da un luogo fisso, e conservare per sempre un punto di ancoraggio. Essi volevano sapere da dove venivano e dove andavano, tenevano ad ispezionare l’indefinitezza dell’“anywhere”. Il soggetto del discorso firmava a partire da un luogo di nascita, un habitat, una lingua, un’appartenenza etnica, ecc. Il suo compasso si spostava a partire da un punto inamovibile. La sua punta si conficcava in un luogo invariabile. La nomadizzazione stessa, che fosse discorso o esperienza, operava a partire da un centro o da una capitale, o almeno dal loro miraggio, da un luogo che non fosse in qualsiasi luogo (anywhere). Si può parlare ancora oggi di nomadizzazione? L’opposizione tra nomade e sedentario ha ancora corso? È il caso [Y a-t-il lieu] di riferirsi ad un luogo, ad un’unità di luogo, fosse la terra, dalla quale misurare una determinazione o un’indeterminazione? Come questa interrogazione può ridiventare o restare una questione politica?
Ancora non so in quale lingua queste annotazioni preliminari saranno indirizzate, lette o intese, perfino se lo saranno mai, dove che sia (anywhere) ed in qualunque lingua ciò avvenga. Una volta dispiegato, il titolo stesso, faxtestura, giocherebbe tra gli idiomi greco, latino e inglese: architecture, fac, tele-fax, cioè tele-fac-simile, fact e fake, false, falso, falsa fattura, falsa prefazione, ecc. Ecco dunque per questa specie di prefazione due frasi, o serie di frasi, sulle quali sarei stato tentato di meditare con voi: dal punto di vista dell’architettura nell’anno 2000, certo, e privilegiando una categoria concettuale e grammaticale, cioè anche la parola inglese anywhere, non per sottomettermi ad essa ma per far notare l’autorità imperiale di questo idioma che, venuto tanto tempo fa da una piccola isola al Nord-Ovest dell’Europa, diventa egemone su tutta la superficie della terra, al punto che qui, in questa piccola isola all’altro capo del mondo, ai confini di un altro impero, ci dobbiamo ancora assoggettare ad essa.
Queste frasi, le si può lasciare risuonare come degli enunciati sullo spazio, il luogo, l’habitat, l’architettura e la città. Sono firmate, in tedesco, da due pensatori di questo secolo che, attraverso così tante differenze irriducibili, hanno forse in comune un certo disperato desiderio di fondare, di istituire, di abitare, di radicare il qui dell’origine come humus, come luogo terrestre, e l’abitazione come dimora terrestre dell’uomo, vale a dire, la stabilità di ciò che soggiorna [stays] e sta in piedi [stands], “steht”, “entsteht”, si istituisce, resta e si erige, sta in piedi, permane e domina la vertigine con la verticalità stessa. Insomma con queste due citazioni si tratterebbe di preparare, anche qui da lontano, una serie di questioni che non avrò il tempo di portare al loro termine e che abbandono un po’, che lascio arenare presso le rive di quest’isola («Che accade alla terra?», «Che vuol dire “accadere alla terra”?», «Atterrare?», «Che ne è dell’uomo quale abitante della terra?» e «Quali possono essere le conseguenze architettoniche o urbane, cioè anche politiche, di ciò che ...

Table of contents

  1. Prefazione
  2. L’ultima fortezza della metafisica Dieci anni dopo
  3. Introduzione
  4. Jacques Derrida e l’architettura: “Spaziare ulteriormente”
  5. Prove di scrittura Frammenti estratti da Les Immatériaux
  6. Labirinto e Archi-testura
  7. Maintenant l’architecture
  8. [Sequenza 2 – Scena 2]
  9. Architettura e decostruzione
  10. Il filosofo e gli architetti
  11. Barbarie e fogli di vetro. o La moneta spiccia dell’«attuale»
  12. Cartoline Post/a/li. Risposta a Jacques Derrida
  13. Generazioni di una città: memoria, profezia, responsabilità
  14. Tra le linee. Il Museo ebraico di Berlino
  15. Replica a Daniel Libeskind
  16. Sommario di note estemporanee
  17. Il Forum della città di Berlino
  18. Invito alla discussione
  19. Faxtestura
  20. Eisenman e Derrida: parlare di scrivere
  21. Postfazione a Chora L Works.
  22. DECOSTRUZIONE ARCHITETTURA
  23. Documenti
  24. Eisenman Robertson Architects 40 West 25th Street New York, New York 10010 212/645-1400 410 East Water Street Suite 600 Charlottesville, Virginia 22901 804/971-8464 M. Bernard Tschumi Bernard Tschumi Architects 22 West 17th Street New York, New York 10010 15 giugno 1987 Caro Bernard, mi scuso di dover scrivere questa lettera, così come di aver impiegato tanto tempo a scriverla. Come ne è certamente consapevole in questo momento, sono almeno scioccato e costernato per il fastidioso malinteso che si è venuto a creare a causa dei commenti fortuiti e erronei apparsi nell’articolo di Jayne Merkel a proposito della mia collaborazione con Jacques Derrida relativa al giardino della Villette. Non soltanto questo articolo ha messo inutilmente a dura prova l’amicizia e il rispetto reciproci sui quali riposa la nostra lunga relazione ma, ancora peggio, ha deformato e l’intenzione e il contenuto del lavoro in questione. Lei evoca con precisione i fini che io e Jacques Derrida ci siamo proposti per questo progetto, quando scrive, deplorando questo stato di fatto, che l’architettura di oggi continua a funzionare sotto l’egida di “autorità” non problematizzate la cui validità non è comunque più sostenibile (per esempio l’autore e l’oggetto estetico discreto). Dall’inizio di questo esercizio il nostro obiettivo era di mettere in questione questi temi redigendo un testo architettonico in cui l’idea di autore operasse in modo da destabilizzarli. Siccome Jacques e io stesso ci siamo consacrati, nei nostri rispettivi ambiti, a questo genere di destabilizzazioni, non posso immaginare una collaborazione tra noi che cercasse di realizzare qualcos’altro. Credo si tratti di ciò che lei si aspettava quando ha proposto questa collaborazione e credo che i nostri risultati abbiano risposto a queste attese. Le somiglianze fortuite e superficiali tra il mio progetto Cannareggio e il suo progetto alla Villette sono state generate, come lei dice, soltanto dalla circostanza di una griglia punteggiata (della quale ho riconosciuto l’origine nel progetto dell’ospedale di Venezia di Le Corbusier, che ha fornito un testo ideale a partire dal quale sovvertire non soltanto le “autorità” dell’autore, dell’oggetto […] ma anche altre problematiche, come quella della cornice (la Villette) e del contenuto (il giardino)). Ne abbiamo discusso a più riprese; credo che lei abbia compreso come e perché si sia fatto allusione a Cannareggio nel nostro progetto e penso che lei sarà d’accordo nel dire che l’uso che abbiamo fatto di questo testo è riuscito. Bernard, per quanto riguarda l’articolo di Jayne Merkel, in tutta franchezza, per quanto me l’avesse inviato prima di proporne la pubblicazione in tutt’altro contesto (una piccola esposizione a Cincinnati), gli avevo dato appena un’occhiata. È stato inviato, come le ho detto, a Vaisseau de Pierres a titolo informale. In seguito, l’ho letto con attenzione e credo che lei abbia pienamente ragione di sentirsi indignato. Mi dispiace di non averlo letto con maggiore attenzione prima della sua pubblicazione e la prego di scusarmi per qualsiasi errore o falsa dichiarazione da parte mia. Le assicuro che sarò più vigile rispetto a qualsiasi pubblicazione a venire che riguardi un progetto nel quale sono coinvolto. Inoltre, le invio copia di questa lettera al redattore capo di Vaisseau de Pierres, in cui di conseguenza sconfesso l’insinuazione di Jayne Merkel secondo la quale il suo progetto è inspirato al mio e sottolineo come la nostra collaborazione utilizzi il progetto di Cannareggio attraverso la tematica della destabilizzazione. Non credo che valga ancora la pena continuare a preoccuparsi per questo errore, cosa che manterrebbe attivo un tema minore, è forse il caso di rimettersi alle pubblicazioni del progetto più importanti, che chiuderanno la questione grazie a una discussione approfondita, ma lascio a lei la cura di prendere una tale decisione. Se lei pensa che possano essere utili altre lettere, non esiti a farmelo sapere, le invierò immediatamente. Altrimenti, mi piacerebbe voltare pagina. Ho fretta di lavorare con lei a Parigi; lavoriamo insieme per realizzare i nostri progetti. Per concludere, vorrei ringraziarla dei suoi costanti incoraggiamenti verso i miei contributi architettonici, per il suo invito generoso alla Villette e per avermi concesso l’opportunità così stimolante di incontrare e lavorare con Jacques Derrida. Se per disattenzione, sono stato la causa, mio malgrado, di una animosità tra di noi, spero voglia accettare le mie scuse sincere e che sappia che non era questa la mia intenzione. Cordialmente, Peter Eisenman PD: […] Cc: Jacques Derrida Hal Foster Serge Goldberg Jayne Merkel Hubert Tonka/Isabelle Auricoste Anthony Vidler 164 Cfr. infra, “Sequenza 2 – Scena 2”. 165 In Parc-Ville Villette, Vaisseau de Pierres, 1987 [L’opera, edita a Seyssel per le edizioni Champ Vallon, era curata da Isabelle Auricoste e Hubert Tonka. Jacques Derrida e Peter Eisenman firmano un testo intitolato Oeuvre chorale, “Vaisseau de Pierres” è il nome della collana nella quale apparve l’opera, n. 5 della Série Architecture].
  25. Lettera di Jacques Derrida alla redazione della rivista «Anyone»