Capitolo settimo
La significazione
È difficile credere che qualcuno – e in particolare dei sociologi – abbia potuto scrivere come se l’aspetto autoritario del bando fosse di importanza secondaria nel processo in cui si diventa devianti. Ignorare la pressione esercitata dal bando equivale a supporre che il Leviatano sia irrilevante nelle vite degli uomini comuni che vengono a trovarsi entro i confini del suo dominio oppressivo. Naturalmente lo si può supporre e, tacitamente, la maggior parte dei sociologi lo ha fatto ma non senza essere di conseguenza diventati, in misura maggiore o minore, ciechi.
Il modo in cui uno studioso o uno scienziato, forse involontariamente, diventa parzialmente cieco, consiste nello strutturare il campo della ricerca in modo da nascondere connessioni ovvie, o nel ritenerle scontate senza quindi approfondire la questione. Toccò alla scuola positivista di criminologia il grave compito di attuare la separazione, un compito difficile, che richiese molto tempo. Fra i loro successi più considerevoli i criminologi positivisti riuscirono in ciò che sembrerebbe impossibile. Essi separarono lo studio del crimine dall’attività e dalla teoria dello stato. Fatto questo, ed estesa l’operazione alla devianza in generale, il programma di ricerca e l’orientamento culturale per i successivi cinquant’anni erano relativamente chiari, soprattutto riguardo a ciò che non sarebbe stato studiato. Scienziati di diverse convinzioni da quel momento in poi vagarono in ogni direzione, trascurandone solo alcune, interrogandosi sul modo in cui si generava la devianza. In ogni caso, il regista rimase sempre nascosto fra le quinte, grazie al modo in cui i campi della ricerca erano stati opportunamente divisi. Il ruolo del sovrano e, per estensione, dell’autorità costituita non veniva affatto considerato nello studio del comportamento deviante. Quella nobile figura, priva di ogni relazione con una questione così spiacevole come la devianza, doveva essere studiata dalla scienza politica. Lì, come nei programmi di studio della sociologia politica o sul governo, il Leviatano aveva scarsi rapporti con i criminali comuni. E in criminologia, il processo attraverso cui si diventa un criminale comune non era messo in relazione con le attività dello stato. Fu così attuata – lo si deve ammettere – una divisione molto abile.
Anche più tardi, quando i produttori della devianza precedentemente trascurati cominciarono a essere presi in considerazione nei primi contributi di Tannenbaum e nell’opera di Lemert, Goffman, Becker, Erikson e altri, questi tentativi sembravano apparentemente diretti contro l’organizzazione complessiva della ricerca. I loro contributi furono così riassorbiti in una tradizione di ricerca che aveva come prima premessa la separazione tra crimine e stato; e questo riassorbimento, per così dire, non poteva verificarsi senza un certo grado di deformazione e di mancata corrispondenza. Non essendo stata contestata, l’errata concezione storica della scuola positivista – ovverosia la separazione tra crimine e stato – poteva rimanere la pietra miliare di uno studio sociologico della devianza che prestava attenzione alla possibilità che gli effetti del sistema correzionale potessero talvolta agire da boomerang. Ma fino a che questo concetto errato fu conservato, tale possibilità poteva essere ritenuta facilmente rimediabile, invece di essere vista come una profonda ironia insita nella natura stessa dell’intima relazione che esiste fra crimine e stato. Quindi, anche se sostanzialmente ancora lasciati al di fuori del contesto, la legge, la libertà d’azione della polizia, le istituzioni totali e il labeling, potrebbero essere presi in considerazione da quei sociologi che leggono e spesso approvano il lavoro dei neochicagoani.
Fino a che il rapporto fra autorità organizzata e crimine non diventò oggetto di ipotesi e di ricerca, rimase esclusa una parte cruciale del processo del divenire devianti. Al di fuori del contesto del ruolo centrale dello stato nel concetto stesso di crimine e di devianza, del suo ruolo chiave nella selezione di coloro che sono destinati a continuare a divenire devianti, e della sua dedizione, antica ma sorprendentemente piena di risorse, al metodo della “penalizzazione”, era facile concepire la relazione tra stato e la devianza come correzione, tenuto debito conto delle deficienze di informazione, dell’inefficienza, della corruzione o degli errori. All’interno del contesto, come è prevedibile, il suo ruolo è stato un po’ più complesso e persino in teoria non così benemerito. Un apparato così potente come il Leviatano può manifestare i suoi effetti in modi molteplici e anche su coloro non ancora palesemente presi nella sua morsa. Non occorre essere in prigione per sentire gli effetti del Leviatano, né è indispensabile che il Leviatano sia uno stato poliziesco per intimorire i suoi sudditi.
Questa connessione fra l’autorità dello stato – organizzata seppure diversificata – e il divenire deviante è il senso più ampio della significazione che io intendo esaminare. Anche persone che non hanno relazione con l’autorità organizzata possono significare, ma non in modo così potente o così significativo. Inoltre, i membri della società che non dispongono di autorità e che scelgono di collaborare al controllo del comportamento deviante, possono essere tenuti in poco conto o messi da parte in altra maniera, almeno in teoria. In senso stretto, non sono affari loro e tanto più è così in quanto la significazione della devianza sta diventando una funzione specializzata e protetta dello stato moderno. Questa funzione dello stato consiste principalmente nel decretare per mezzo di leggi quali siano le attività e le persone da definire devianti, rendendole così opportunamente oggetto di sorveglianza e di controllo. Per quanto imponente sia l’apparato statale e per quanto attivi possano essere quelli dei suoi agenti che operano sulla devianza, resta valido anche in questo caso lo stesso principio generale discusso a proposito dell’affiliazione: il processo del divenire. Messo però a confronto con un’autorità più potente – cioè quella del Leviatano e non l’autorità di altri a lui pari – l’autorità del soggetto rispetto al processo può essere ridotta. Questa stessa diminuzione di autorità fa parte del processo, quando questo funziona bene. Perciò non serve anticipare la conclusione dell’intero processo e mettere il soggetto in catene prematuramente. È molto più logico cominciare da dove il soggetto è stato lasciato, alla fine dell’ultimo capitolo, mentre presiede al processo con cui si è affiliato a un’attività deviante. Però la sua affiliazione all’uso della marijuana, come è stata descritta, era più o meno innocente. Prima di fare altre considerazioni devo aggiungere qualcosa perché, in verità, chi usa la marijuana è già colpevole, ma solo in un certo senso. A questo scopo occorre trattare il primo elemento della significazione, il bando, e quindi il suo significato. Successivamente possiamo considerare l’arresto, che ne è la conseguenza più palese.
Il bando: essere demonizzati
Anche se l’uso della marijuana non esemplifica in modo perfetto il processo di affiliazione, dovrebbe essere chiaro che poche deviazioni forniscono una verifica più rigorosa del significato del bando. Benché si riconosca sempre di più che la marijuana non fa male e aumenti al tempo stesso il dissenso sull’opportunità della proibizione, benché il suo uso venga appoggiato e difeso, perfino facendone un’apologia romantica, il bando autoritario getta un’ombra inequivocabile sull’aspetto morale dell’uso della marijuana. Se il bando rende losco perfino l’uso della marijuana, è presumibile che abbia lo stesso effetto su altre deviazioni meno controverse. Perciò il compito di elaborare le conseguenze del primo elemento della significazione, il bando, ne è notevolmente semplificato: possiamo servirci della marijuana per significare o esemplificare la devianza in generale.
Che il bando abbia l’effetto di attribuire a una data attività carattere di colpa, non è sorprendente né inintenzionale. Scopo del bando è di trasformare l’aspetto morale dell’attività; il modo più semplice per riassumere l’intenzione legislativa e sedicentemente pubblica, è prevedere che col tempo quell’attività esisterà come attività colpevolizzata. Ciò non significa che la colpevolezza dell’attività bandita marchi inevitabilmente i soggetti, o che essi alla fine superino l’ansia e l’inquietudine iniziale; ma indica un certo numero di tendenze manifeste e quindi di questioni che devono essere considerate dal soggetto attento. Che la colpevolezza dell’attività bandita possa essere gestita o forse anche neutralizzata, dà prova di eventuali capacità del soggetto e non di mancanza di consequenzialità nell’intenzione del sovrano. Le conseguenze del bando possono essere molteplici ed eterogenee, ma per esaminarle seriamente è necessario cominciare a considerare il fenomeno sotto il suo aspetto morale: colpevole. Solo quando sia ammesso questo, possono essere individuate le reazioni sociali dei soggetti partecipanti.
La conseguenza del bando su coloro che si astengono dal partecipare a ...