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About this book
La scrittura del filosofo Peter Sloterdijk è una scrittura controversa. I suoi libri hanno animato e continuano ad animare polemiche e discussioni molto accese. Questo libro, che nasce come esercizio di lettura dell'ultima fatica dell'autore tedesco, prova a sondare la logica che guida le costruzioni narrative di una delle più ambiziose filosofie contemporanee. Per farlo, segue i sentieri non sempre collaudati dell'interpretazione. L'esito di questa incursione è un confronto senza remore con una figura intellettuale che, a parere dell'autore, attende ancora di essere pienamente compresa.
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Topic
FilosofiaSubtopic
Storia e teoria della filosofia1.
Distensioni ironiche
Distensioni ironiche
Uno spettro si aggira nel mondo occidentale: lo spettro della religione. Ovunque ci viene assicurato che, dopo una lunga assenza, esso ha fatto ritorno tra gli individui del mondo moderno e che sarebbe bene tener conto seriamente della sua nuova presenza. […] [Ma] un ritorno di interesse per la religione non è certo più probabile di un ritorno della religione stessa, per il semplice motivo che la “religione” non esiste né esistono le “religioni”.15
P. Sloterdijk
Ciò dovrebbe apparire piuttosto stupefacente se, com’è vero, Sloterdijk si è reso responsabile di una delle più chiare ed efficaci liquidazioni mediologiche del mezzo della lettura e della scrittura come veicolo privilegiato di accesso a osservazioni coscienti del mondo. È dai tempi della famigerata conferenza su Heidegger16, costata all’autore una reprimenda pubblica non lontana dal linciaggio mediatico, che Sloterdijk ha richiamato l’attenzione sulla condizione di obsolescenza di un mezzo, quello della scrittura umanizzante, che continua ad essere esercitata con enfasi non priva di pathos da coloro che si presentano come ultimi angeli dell’osservazione teoretica. Cosa dire allora dell’ipotesi di una scrittura divinizzante, o quantomeno intonata alle frequenze del religioso?
Ora, anche dall’angolo prospettico disegnato da questo lavoro, diventa subito chiaro come la prima sfida imposta dalla prospettiva filosofica di Sloterdijk riguardi il nodo dell’espressività, e con esso il carattere improbabile della sua forma: come molti dei suoi personaggi preferiti, Sloterdijk si presenta al lettore come un acrobata dell’improbabile, capace di dispensare voluminose saggistiche risposte alla domanda di chi vuole compiere sforzi di apprendimento in aperto e dichiarato contrasto con le svolte brachilogiche del sapere contemporaneo. In questo frangente la forma del saggio interviene laddove latitano la sistematicità che aspira all’assoluto della grande teoria della tradizione filosofica del passato (anche recente) e la fiducia scientista nella rigorizzazione concettuale senza resti che anima tutte le reincarnazioni epistemiche del positivismo, vecchio, nuovo e nuovissimo. Da tempo, oramai, il saggio lungo e molto lungo sono una forma autonoma di scrittura che viene coltivata dall’ambizione di riunire entro una singola unità di esposizione – plausibile agli occhi del lettore – la frammentarietà infinita dei significati. Per questo, al contempo, la scrittura saggistica, tanto frequentata quanto scarsamente capace di attrarre l’attenzione, è diventata un metodo di espressione dell’intelligenza umana chiamato a sfidare l’improbabilità conseguente del proprio successo. È vero che il saggio rappresenta un genere aperto alle contaminazioni proteiformi delle realtà espressive, la sua estensione però lo rende un prodotto di consumo incomprimibile: perché abbia i suoi effetti occorre apprenderlo, come una lingua, e non è detto che tutto quanto esso contiene possa essere espresso in un inglese di base, come vorrebbe la legge accademica dell’accountability scientifica. L’idea stessa di un progetto filosofico deve suonare a sua volta improbabile: quali mezzi possono sostenerla se non un’improbabilissima disponibilità alla noia? Se è vero che con filosofia si continua a intendere un’attività proposizionale (un’attività, cioè, che inventa, costruisce e concatena frasi con un rigore che permette la comprensione di campi più estesi della realtà rispetto a quelli osservabili con altri mezzi) tra altre attività affini ma con un di più di attenzione alla forma che ne limita fortemente la diffusione, allora, il mezzo con cui questa sfida viene raccolta e pronunciata può lasciare perplessi. Discostandosi dalle formalizzazioni più riuscite e routinizzate dei linguaggi filosofici classici e contemporanei, Sloterdijk sceglie il campo ambivalente della narratività estesa. Se anche si nutrissero dubbi sul buon esito delle sue ricerche teoretiche, nessuno può negare al filosofo tedesco una capacità davvero inconsueta di trasfigurare quesiti classici e contemporanei della teoresi filosofica (e non solo) in trame narrative in cui la suspense gioca lo stesso ruolo dell’acribìa filologica. Può una riflessione su dio e la sua posterità rinunciare a interrogarsi sulle tecniche di nascondimento che costruiscono latenze ricche di senso? Può una riflessione sul religioso rinunciare a interrogarsi sulle possibilità di miglioramento dell’uomo? Dal momento in cui la risposta a queste domande può difficilmente tradursi in una risposta diretta, occorre tracciare un’altra strada. Si tratta a ben vedere di una narratività lunga, talvolta persino estenuata, fatta di linee indirette e percorsi laterali, per la quale i linguaggi esoterici e quelli essoterici s’intrecciano, rendendo la vita del lettore in esercizio (per non dire di quella del traduttore) impervia e complicata, ma potenzialmente gratificata da un genere d’intrattenimento mille miglia lontano dalle stringenti argomentazioni della filosofia accademica. Al contempo, si tratta di una saggistica di secondo ordine, dove i protagonisti non sono più, come nel saggio tradizionale17, determinate persone o situazioni, a partire dalle quali l’autore mette in rilievo i quesiti concettuali che considera sostanziali, bensì il carattere saggistico, ovvero, in questo caso, di azzardo costruttivo, di quelle forme di sapere sistematico distanziandosi dalle quali il saggio è stato inventato in età moderna per dare forma espressiva alle capacità critiche dell’intelligenza umana contingente. Se il saggio supplisce l’intelligenza laddove risultano impossibili o improbabili autentiche “filosofie ben costruite” (l’espressione è di Anceschi), ovvero filosofie capaci di sistematicità, allora esso deve in qualche modo indicare una “filosofia mal costruita”, o almeno una “filosofia poco costruita”, in cui si rivelano semmai le tecniche che pertengono alla logica della costruzione. Adornianamente, “il saggio non crea costruzioni né strutture”18, almeno però rende visibile il cantiere con cui queste vengono create, e lo fa nella forma discorsivamente disinibita di una letteratura sperimentale, fatta di tentativi e prove (appunto, saggi).
Sia detto per inciso: con lo scorrere delle pagine del testo – ma ciò vale anche per gli altri lavori dell’autore – diviene presto evidente al lettore come la sua scrittura filosofico-saggistica sia anche una presa di posizione esplicita contro la prevalenza di quella micro-modularità espressiva caratteristica dell’attività proposizionale “analitica”, la quale ha finito per costituire una modalità neoscolastica di formalizzazione del pensiero filosofico. Sloterdijk rigetta esplicitamente questa opzione, dichiarando che al cuore di quel modello di formalizzazione del pensiero si trova un’idea guida di ascesi esistenziale non dichiarata19. Ma l’ascesi privativa e riduzionista, per quanto forma pratica legittima dello stare al mondo, non è l’unica via che permette la conoscenza, come invece sembrano credere alcuni scholars contemporanei. La crescente predilezione della filosofia per i moduli linguistici di tipo ascetico riduzionista ha prodotto un inevitabile impoverimento delle immagini del mondo, ma soprattutto una crescente impossibilità di prenderne visione. Agli esercizi linguistici di tipo ascetico è possibile opporre esercizi linguistici di tipo estatico, per i quali quell’estraneità al mondo che si trova al cuore di alcune delle più significative immagini del mondo non sfocia necessariamente nella restrizione mistica delle vie della conoscenza.
La forza del progetto, la sua ambizione ma anche i suoi rischi, stanno tutti in questa scommessa: restituire alla filosofia coi mezzi di una scrittura capace d’intrattenimento una disposizione al coinvolgimento che è divenuta del tutto improbabile dal punto di vista di una comunicazione che predilige altri media di diffusione rispetto alla scrittura e al libro (per dirla in modo più elegante: in condizioni largamente postumanistiche)20.
La narratività lunga, o anche “grande narrazione” – ovvero, la capacità di riformulare problemi in una forma coinvolgente e ampia che non annoia –, non è però l’unico ingrediente metodicamente impiegato nel lavoro filosofico: il mezzo sarebbe incompleto, al limite inconcludente, se non fosse condito con una dose davvero fuori dal comune di ironia. Il problema, come sempre quando si ha a che fare con una narrazione, è quello della finzione, oppure, se si preferisce, del rapporto tra realtà e apparenza. Una narrazione estesa non può che associarsi alle logiche finzionali, altrimenti dovrebbe supporre l’inerenza di una coerente narratività nel reale, fare cioè della realtà una sequenza concatenata di passaggi discorsivi sorretti da una trama, secondo la classica tensione costruttivista delle filosofie della storia21. Dal momento in cui le filosofie della storia hanno perduto il loro appeal, ed è andata smarrita la convinzione di poter padroneggiare razionalmente il senso dell’intero percorso delle vicende umane (persino la concepibilità di un percorso), la realtà è divenuta un affare per spiriti orientati alla brevità, alla sinteticità analitica, a una mentalità aforistica, brachilogica, capace di perfezionarsi solo con procedure di controllo di tipo logico, analitico appunto, supportate semmai dalle virtù sintetiche della matematica. Questa svolta brachilogica del pensiero è in grado di salvaguardare dal predominio dell’apparenza, e di garantire alla realtà la sua legittima vigenza? Su questo più avanti: se ne può comunque dubitare. Sloterdijk non fa mistero di condividere con uno dei suoi maestri a sorpresa, il sociologo tedesco Niklas Luhmann, l’idea che l’ironia sia prima che uno strumento retorico di difesa dal mondo, o un’arma per osservatori intimoriti destinati alla compiaciuta inanità, un artif...
Table of contents
- Avvertenza
- Premessa
- 1. Distensioni ironiche
- 3. Pseudomorfismi
- 4. Supplementum datur ovvero il parassitismo metodico
- 5. Variazioni autopoietiche del divino
- 6. Poscritto ludico-architettonico
- Ringraziamenti