Capitolo sesto
Il fascino discreto di Chiamami col tuo nome
e gli spettri della storia universale
Câè un motivo ricorrente nelle recensioni e nei dibattiti che sono emersi attorno a Chiamami col tuo nome. Si tratta di un ritornello che è stato ripetuto in maniera estenuante e che, proprio per questo, merita la nostra attenzione. Il ritornello recita grosso modo cosĂŹ: si informa il lettore che Chiamami col tuo nome è una storia dâamore omosessuale tra due uomini ma che tale dettaglio è poco importante perchĂŠ questa è, in fondo, âuna storia universaleâ. Nella sua recensione sul film, Alissa Wilkinson afferma che âchiunque può identificarsi con i suoi protagonisti e con quello che sentonoâ, mentre sulle pagine de âil Giornaleâ Serena Nannelli scrive che âla storia al centro della scena è tra due uomini ma, nella sostanza, universale e raccontata con delicatezza tale che chiunque possa immedesimarvisiâ. Non è difficile intuire nelle parole di Wilkinson e Nannelli lâimpressione che una storia dâamore omosessuale sia, per definizione, di poco interesse per il grande pubblico, un pubblico che viene di fatto immaginato come generalmente eterosessuale. Secondo Wilkinson e Nannelli, Chiamami col tuo nome trascenderebbe la propria specificitĂ â una specificitĂ che sarebbe normalmente rilevante solo per un pubblico omosessuale â sulla base di un registro di identificazione affettiva universalmente inclusivo (âchiunque [può] immedesimarsiâ).
Che ne resta di questa specificitĂ , ridotta a un grado di irrilevanza universale, e che valore darvi? Si tratta di domande che sembrano pertinenti per un periodo, quale quello attuale, in cui un numero sempre maggiore di storie a tematica omosessuale sembra destinato a trasmigrare dalla periferia al centro, ottenendo accesso a canali di produzione e distribuzione mainstream, e raggiungendo un considerevole successo critico e commerciale: si pensi, per esempio, a film come Moonlight (Barry Jenkins, 2016), vincitore di un Oscar come miglior film, La vita di Adele (La Vie dâAdèle, Abdellatif Kechiche, 2013) o I ragazzi stanno bene (The Kids Are All Right, Lisa Cholodenko, 2010). Lâaccesso al mainstream, come è stato spesso notato, sembrerebbe richiedere dei compromessi, dietro i quali si nasconderebbe il tradimento di una veritĂ â di una âstoria autenticaâ â sulle esperienze delle minoranze che il mainstream tenderebbe inevitabilmente a riappropriare. Nellâaffrontare la questione in questi termini si corre il rischio di partire dalla supposizione (potenzialmente sbagliata) che le storie minoritarie appartengano di diritto alla âperiferiaâ: alla produzione culturale politicamente radicale, dâavanguardia o di nicchia. Lâimportante studio di Alexander Doty sui sotto-testi e sui possibili posizionamenti spettatoriali queer del cinema hollywoodiano sembrerebbe mettere in dubbio una tale supposizione. Il nostro punto di partenza è però quello spazio periferico di resistenza agli assunti eteronormativi del cinema mainstream che una certa tradizione di cinema radicale â da Rainer Fassbinder a Pier Paolo Pasolini, a Barbara Hammer, a Todd Haynes e al New Queer Cinema â ha rivendicato sin dagli anni Settanta. Si tratta di una tradizione che ha re-immaginato le forme del desiderio e la corporeitĂ , spesso in maniera provocatoria e apertamente polemica nei confronti del mainstream. Questa tradizione ha influenzato fortemente la critica queer e rappresenta un imprescindibile punto di riferimento per ogni riflessione sul cinema a tematica omosessuale.
Il riconoscimento diffuso di unâesperienza universale in un film che tratta di amore omosessuale sembrerebbe la prova evidente di una nuova epoca di liberale benevolenza e accettazione nei confronti delle esperienze LGBT sul grande schermo. I proclami universali, però, hanno spesso delle ambizioni âuniversalizzantiâ. Animati dal desiderio di andare oltre il particolarismo, questi proclami non hanno un valore puramente descrittivo, ma producono essi stessi le condizioni che dichiarano di descrivere. In questo caso, lâidea che certe differenze siano irrilevanti e che quello che veramente conta è ciò che gli esseri umani hanno in comune. Sarebbe troppo semplice limitarsi a criticare tali proclami, mostrando le esclusioni e i silenzi che si celano dietro a ciò che ci viene presentato come universale. Vale la pena però chiedersi se Chiamami col mio nome possa essere considerata una storia dal valore universale in un altro senso: non per lâirrilevanza della condizione omosessuale, ma per la funzione centrale che questa condizione sembra avere nel film. Ă lâipotesi che si cercherĂ di sviluppare in questo capitolo, ripensando il concetto di universalitĂ e proponendo una particolare versione di tale concetto che, invece di essere svuotato dellâesperienza della differenza, viene definito proprio da e attraverso questa.
Implicito in tale ipotesi è il sostenimento della validitĂ teorica e politica dellâequivalenza omosessualitĂ -differenza. Si tratta di unâequivalenza potenzialmente problematica, che si trascina dietro gli spettri di quei discorsi scientifici e giuridici che hanno, per lungo tempo, patologizzato il desiderio omosessuale proprio per il suo differenziarsi da una presunta norma di comportamento psico-sessuale. Se, in questa prospettiva, âdifferenzaâ equivale ad âanormalitĂ â, non sorprende la tendenza, evidente in molte recenti campagne anti-omofobia, a voler normalizzare il desiderio omosessuale âequiparandoloâ a quello eterosessuale. Lâequivalenza è strategica in quanto sottintende unâaspirazione a un piano etico di sostanziale uguaglianza (con chiare implicazioni politiche, legali etc.) che di fatto mette in secondo piano le specifiche pratiche sessuali â incluso il loro valore simbolico â e dinamiche di identificazione/desiderio che distinguono lâomosessualitĂ dallâeterosessualitĂ . Ă proprio questo valore simbolico che interessa recuperare e, nello specifico, un discorso pubblico sulla figura dellâomosessuale (maschio) e un certo tipo di comp...