1.
Introduzione
1. Della semiosfera
In un’epoca come quella in cui viviamo, così fortemente colpita dai problemi che riguardano l’ambiente, una parola come semiosfera suona familiare. Ricorda infatti biosfera, che sappiamo riferirsi a quelle zone della terra in cui si danno le condizioni affinché si produca la vita. Le nostre conoscenze scientifiche ci dicono che si tratta di uno spazio fisico, determinato e circoscritto, definito a partire da una serie di caratteristiche e processi a essa interni – legati, per esempio, alla trasformazione della luce solare in energia o alla presenza di acqua – che ha come caratteristica la produzione di materia organica. La biosfera è innanzitutto una “sfera”, un insieme di elementi di diversa natura che intrattengono fra loro una molteplicità di relazioni grazie alle quali si sviluppa qualcosa che, in un certo senso, eccede la semplice somma delle parti.
Ecco, da quando l’uomo è diventato sapiens sapiens, la vita non ha a che fare solo con la biosfera ma anche, appunto, con la semiosfera. Con questo termine ci riferiamo nuovamente a un insieme di elementi eterogenei che hanno la capacità di produrne altri, solo che tali elementi non hanno una natura chimica o biologica, hanno a che fare con le straordinarie capacità mentali che l’uomo possiede. Produrre idee, immaginare cose, riflettere su problemi, tutto questo articolando i propri pensieri attraverso diversi linguaggi in modo tale che essi diventino condivisibili con altre persone grazie alla comunicazione, è questo ciò che definisce la semiosfera e, come è evidente, essa è una dimensione fondamentale dell’esistenza umana e sociale. Possiamo allora immaginarci questo spazio popolato da prodotti culturali di varia natura: parole, immagini, discorsi, ma anche oggetti, edifici, abiti, cibo, dove a rendere tali elementi parte del sistema non è unicamente la loro natura materiale, peraltro molto diversa, ma la cosa che di volta in volta li accomuna: produrre senso.
Prendiamo il caso del cibo. Sappiamo benissimo il valore che esso ha per l’organismo umano, costretto ad assumere un certo numero di sostanze per funzionare. Tuttavia intuiamo con grande chiarezza come questo bisogno di energia non possa minimamente spiegare un fenomeno come la gastronomia. O, più precisamente, le gastronomie, visto che sono tante e per di più legate fortemente alle culture che le pongono in essere, ciascuna con le proprie peculiarità (le materie prime che utilizzano o rifiutano, le trasformazioni che contemplano o ignorano e così via). Gastronomie che contribuiscono poi, in maniera estremamente forte, a strutturare l’identità dei popoli che le adottano. Perché una cultura decide di cuocere il pesce e un’altra di mangiarlo crudo? La risposta non sta ovviamente nel gusto (poiché ciascuna riterrà con convinzione che la scelta più giusta sia la propria, educando di conseguenza i bambini a quei sapori) ma nel modo in cui quella trasformazione assume significato. Ovvero in come si configurano il ruolo del pesce e della sua elaborazione all’interno della propria semiosfera.
L’esempio del cibo chiarisce peraltro assai bene che non abbiamo a che fare semplicemente con concetti astratti, idee più o meno pure che immaginiamo fluttuare in una sorta di empireo che l’uomo sarebbe capace di cogliere a differenza di altre specie. I concetti di cui la semiosfera è popolata sono sempre idee incarnate, pensieri fortemente legati a cose di ogni genere. Anzi, potremmo dire che è proprio questa doppia natura, contemporaneamente materiale e immateriale, a definire la semiosfera come spazio di esistenza. Per l’uomo, difatti, l’universo che lo circonda è sempre significante. Anzi, è universo proprio perché assume un certo significato, e se può assumerlo è perché possiamo associare questa idea a un significante che non soltanto se ne fa portatore ma ci consente di articolarlo. Nel caso del cibo questo “significante” ha un ruolo essenziale (oltre che regole e logiche tutte sue), ma a ben pensare la medesima cosa accade per ogni materia espressiva grazie alla quale possiamo formulare discorsi complessi, che di significati ne veicolano diversi. Prendiamo un vestito: serve per coprirsi, certo, ma allora come spieghiamo la moda? Non parlo solo dei grandi stilisti, ma del gusto, del ritenere un certo abbinamento di colori sensato e un altro no. Ancora, pensiamo alla casa. Certo, per gli uomini primitivi questo spazio era un riparo dai pericoli della notte, come lo sono le tane per gli animali, ma quanto ci ha messo questa idea a cambiare? Quanto ci è voluto perché si sviluppasse il concetto di intimità che rappresenta e allo stesso tempo fonda? E quanto ancora perché quell’intimità si articolasse ulteriormente prevedendo per esempio la differenza fra la camera da letto e il salotto? E ancora la fotografia, in teoria mera riproduzione del reale, calco del mondo realizzato grazie all’ottica e alla chimica, è stata capace di cambiare profondamente proprio la percezione che abbiamo di questo, rivoluzionando le altre arti visive. E gli esempi potrebbero continuare. Quello che invariabilmente avrebbero in comune è appunto la doppia articolazione che ciascuno di essi presuppone: quella di un piano dell’Espressione di ordine materiale e di un piano del Contenuto di natura astratta.
2. Confini e traduzioni
Ecco allora da cosa è popolata la nostra semiosfera: da oggetti di senso che, tuttavia, a ben guardare, non sono affatto semplici. Non basta dire che un vestito è alla moda e un altro non lo è, o che una certa configurazione spaziale è “casa” e un’altra è “ufficio”. Possiamo farlo naturalmente, concentrandoci sul significato che quelle strutture espressive assumono, come peraltro ci accontentiamo di fare nella vita quotidiana, ma è ovvio che c’è dell’altro, che bisogna capire cosa li renda tali, perché prendano quel senso socialmente, e quindi anche come possano cambiarlo. Chiedersi cioè in che modo la configurazione complessa e articolata che possiedono contribuisca a generare proprio quel risultato. Il senso è sempre lì, pronto e disponibile, e l’esperienza che ne facciamo è del tutto naturale, legata a un sentimento del comprendere che è completamente spontaneo, e tuttavia dietro questa spontaneità è al lavoro una macchina molto sofisticata che agisce da un lato su ciò che è di ordine percettivo (l’Espressione) e dall’altro su ciò che riguarda la mente (il Contenuto). All’interno della semiosfera insomma ci sono testi, entità complesse dotate di una processualità interna che ne determina il senso. Per questo tornerà spesso la parola artefatto per indicarli, un termine la cui etimologia deriva dal latino arte factus, ovvero fatto ad arte, che in italiano allude più che allo statuto materiale di ciò che si indica, al lavoro necessario alla sua produzione. Pensare a un libro, un piatto cucinato o un’immagine come a degli artefatti anziché come a degli oggetti fa spostare allora il nostro sguardo dal mero statuto materiale che possiedono, il loro essere “cose”, al senso che hanno.
A questo punto è facile immaginare quanto la semiosfera sia affollata. C’è dentro pressoché ogni artefatto possibile e questo perché, molto semplicemente, in quanto esseri umani non facciamo che dare senso a tutto ciò che ci circonda. Senza eccezioni. Non solamente le cose che conosciamo ma anche quelle che vediamo per la prima volta e che non possiamo fare a meno di inquadrare, catalogare, classificare, inserire cioè all’interno di una cornice semiotica. Anche ciò di cui ci disinteressiamo, perché, a ben pensare, anche un simile atteggiamento non può che discendere dalla percezione di un effetto di senso. E tuttavia non è possibile non vedere quanto questi oggetti siano diversi. Moda, cibo e immagini, per restare sugli esempi che abbiamo fatto, sono entità distanti, che sebbene producano senso, lo fanno grazie a processi specifici, di volta in volta legati alla loro materialità. Certo, posso comunicare qualcosa con un piatto cucinato – può essere alla moda, sofisticato, ma anche popolare, può stupire o confortare, può persino veicolare una certa identità, quella di una famiglia come quella di un popolo – ma il modo in cui lo farò sarà diverso da quello che utilizzerò per ottenere gli stessi effetti con una fotografia. Se dentro la semiosfera da cui siamo circondati ci stanno tanto i piatti quanto le fotografie, per comprendere il funzionamento di ciascuno di questi artefatti, e dunque l’effetto di senso che produce, è necessario fare riferimento allo specifico linguaggio che utilizza. Come la biosfera è al suo interno ulteriormente suddivisa in sottoinsiemi che interagiscono fra loro – litosfera, idrosfera e atmosfera – così la semiosfera si differenzia al suo interno a partire dai discorsi che i diversi artefatti articolano. Moda, cibo e immagini saranno insomma ciascuna parte di un ulteriore dimensione, una nuova semiosfera più specifica, che accoglie di volta in volta testi vestimentari, gastronomici e visivi. Con una importante particolarità: i confini che così si vengono a delineare sono permeabili. È sempre possibile insomma tradurre un determinato effetto di senso da un linguaggio ad un altro.
È qualcosa di cui, a ben pensare, facciamo esperienza continuamente. Prendiamo la recensione di un grande ristorante scritta da un critico gastronomico. Al suo interno si parlerà probabilmente anche di alcuni piatti, e magari se ne darà una descrizione che, ovviamente, sarà molto diversa da quella di un ricettario. Obiettivo dell’autore infatti non è quello di consentire al lettore di riprodurre il piatto, ma di farne apprezzare le caratteristiche, comprenderne il valore e, se è bravo a sufficienza, persino fare immaginare le sensazioni che il degustarlo potrebbe offrire. Cos’è allora questa descrizione se non una traduzione il cui obiettivo è riprodurre l’effetto di senso che il piatto produce? A ben vedere, anche la ricetta è una traduzione che ha però una finalità diversa: non solo apprezzare il valore del piatto, immaginarne la bontà, ma anche riprodurlo. Non a caso i ricettari, almeno quelli contemporanei, sono sempre così pieni di fotografie, che altro non sono che un’ulteriore traduzione del gusto, realizzata questa volta in un linguaggio visivo. Ed infatti, quando la fotografia è ben fatta fa molto più che farci vedere il risultato di una determinata sequenza di operazioni su certi ingredienti: riesce a farci desiderare di intraprendere questa fatica, pregustando letteralmente il premio che avremo alla fine. Lo stesso accade per la moda naturalmente, e perfino per l’architettura, in cui i disegni possono perfettamente essere pensati come la traduzione visiva di un’entità tridimensionale.
È importante sottolineare che queste traduzioni non sono mai esatte. Nessuno scrittore riuscirà mai a rendere con assoluta precisione gli effetti che provoca assaggiare una cassata siciliana, né un architetto potrà mai riprodurre il senso dello spazio che ha in mente se non realizzandolo effettivamente. Ogni traduzione, sia che abbia luogo fra linguaggi della stessa natura, quali sono per esempio l’italiano e l’inglese (traduzione interlinguistica), sia che riguardi linguaggi di natura diversa, come quello gastronomico e verbale (traduzione intersemiotica) è sempre un processo che non ha resto zero, in cui cioè il senso non resta immutato: qualcosa si perde e qualcosa si guadagna. Anche questo, in fondo, lo abbiamo sperimentato più volte: le patenti delusioni che hanno fatto seguito alla lettura di brillanti recensioni di ristoranti non si contano più, come d’altronde i piatti immangiabili realizzati sulla scorta di una fotografia accattivante che ne accompagnava la ricetta.
Occuparsi di semiosfere diverse come faremo nelle pagine che seguono allora ha un duplice scopo: da un lato individuare e descrivere le specificità di quei linguaggi che di volta in volta affronteremo – cibo, spazi, immagini, ma anche oggetti e pubblicità che, in quanto linguaggi sincretici, ne utilizzano diversi al proprio interno –; dall’altro indicare i processi traduttivi che hanno luogo all’interno di sistemi semiotici complessi. L’esempio qui non può che essere proprio Ikea. Come vedremo, il colosso svedese è molto più di un brand che produce mobili e li rivende, è il risultato delle relazioni che si istituiscono fra una molteplicità di testi che fanno uso di linguaggi differenti per creare da un lato specifici effetti di senso e dall’altro un’unica identità che è appunto il brand. Stiamo dicendo insomma che una libreria Billy, un catalogo illustrato, delle polpettine servite al ristorante interno al punto vendita, nonché l’intera superficie di quest’ultimo, la cui perfetta organizzazione viene riprodotta in ogni angolo del globo, ha l’ulteriore scopo di creare uno dei soggetti commerciali più riconoscibili ed efficaci dall’epoca della rivoluzione industriale.
3. Laboratorio del senso
Fin qui quelle che potremmo pensare come le condizioni di un libro come questo – l’esistenza di più semiosfere e il ruolo che hanno nella nostra vita quotidiana – e l’obiettivo che esso ha – analizzarne il funzionamento. Rimane da capire come ciò si possa fare. Ed è qui che la parola “laboratorio” diventa pertinente.
Questo non è un libro sulla semiotica, non tratta delle sue basi scientifiche, non ne illustra le teorie, né parla degli autori che le hanno formulate. Tutto sommato non è neanche un libro di semiotica, se con questo intendiamo, come comunemente si fa, un testo che spiega questa disciplina, magari trovando qualche esempio per renderne più chiari i concetti. Il suo obiettivo semmai è quello, come dice Landowski, di parlare la semiotica, farne cioè una lingua con cui articolare un discorso sul mondo, su ciò che ci circonda, e dunque su tutti i fatti umani e sociali che ci toccano. L’approccio che qui cerchiamo è più simile a quello che la parola laboratorio, figlia delle scienze cosiddette esatte, evoca. Si tratta infatti di un luogo attrezzato (“fornito di apposite installazioni ed apparecchi” recita il dizionario) nel quale ci si scontra con qualcosa che non si conosce nel tentativo di rispondere a delle domande che quel “qualcosa” ha sollecitato. Quando si entra in laboratorio lo si fa sempre a partire da un sospetto, da una curiosità che è spesso piuttosto vaga, imprecisa, senza certezze, fuorché quella che c’è qualcosa che non torna, un aspetto che non capiamo e che non sappiamo spiegare in maniera per noi convincente. Il laboratorio è insomma sempre lo spazio dell’ignoranza, ma anche quello del conflitto, di una lotta che non è funzionale alla distruzione di una delle due parti, ma a una sua più approfondita conoscenza. L’oggetto di studio è qualcosa che resiste, che si nega alla vista, o meglio, che nega alla vista una parte di sé. Nel momento in cui un oggetto del genere si pone alla nostra attenzione ci indica un limite, il confine delle nostre conoscenze e dei nostri strumenti, ma soprattutto alla nostra capacità di percepire. O almeno, questo è quello che succede in teoria, nel laboratorio inteso in senso platonico, perché, come hanno dimostrato bene Latour e Woolgar, la vita nei laboratori veri è altra cosa, sicuramente molto più complessa e “umana” di quello che si possa pensare.
Greimas utilizza una celebre metafora: paragona il lavoro del semiologo a quello dell’etnologo e dunque, implicitamente, il testo al selvaggio. L’obiettivo dell’etnologo, al contrario di quello del fisico, non è quello di spiegare un fenomeno, individuandone le variabili e stabilendo i rapporti che le legano, ma quello di descrivere uno sconosciuto e la sua cultura. Di principio non c’è nulla da spiegare, nessuna previsione da fare, si tratta solo di tenere traccia. Quando però si riesce a produrre una descrizione sufficientemente ricca di ciò cui si è interessati o, come dice Geertz, “spessa” (thick description), compare qualcosa di diverso, e per certi versi inaspettato. Come l’etnologo riconosce dietro i comportamenti della comunità che studia – usi e costumi apparentemente arbitrari e immotivati – un principio di coerenza che gli consente di comprendere la propria stessa cultura, così il semiologo ritrova sistematicità in una serie di elementi riuscendo a descrivere le strutture della significazione. Il testo-selvaggio resiste ai modelli interpretativi, e questo suo continuo scartare, obbliga l’analista a ripensarli, adattandoli alle nuove circostanze, quando non addirittura a crearne di nuovi. Il valore del modello non è mai assoluto, si misura sempre in relazione ai risultati che consente di ottenere, al modo in cui ci aiuta a individuare variabili e a metterle in relazione. L’applicazione, dice Fabbri con Polanyi, fa sì che si generi una teoria, rigenerando quella che fino a quel momento si era assunta come valida, al punto che ...