L’abitudine
Man mano che la teoria dell’evoluzione e la spiegazione positiva dei fenomeni della natura guadagnano terreno nelle scienze e nella filosofia, l’abitudine, nella quale Auguste Comte individuava a ragione “una delle principali basi della perfettibilità graduale degli animali e soprattutto dell’uomo”, deve acquisire necessariamente una più grande importanza non soltanto in psicologia e fisiologia, ma anche in metafisica. L’abitudine si presenta d’altronde a noi come un fatto universale, come uno degli attributi della forza, considerata dal punto di vista più generale. Un tempo ci si dilettava a considerare le facoltà, le funzioni, le proprietà come altrettanti poteri essenzialmente inerenti a tale o talaltra sostanza particolare, irriducibili e modificabili soltanto secondo certi limiti determinati, e che manifestavano semplicemente nei fenomeni una parte di ciò che essi racchiudevano allo stato latente. Oggi, invece, vi è una tendenza generale in filosofia a risolvere tutte le proprietà fisiche o biologiche e anche le funzioni stesse dell’intelligenza in forze elementari, e a vedere ovunque maniere d’essere acquisite sia nelle relazioni con l’ambiente, sia nello sviluppo dell’individuo, sia ancora nell’evoluzione di una specie. La nozione di abitudine risponde meglio di qualunque altra a questa idea di acquisizione progressiva, generata da una forza sotto l’azione di una causa esteriore, fortificata dalla ripetizione e trasmissibile negli esseri per mezzo dell’eredità. Anziché considerarla una seconda natura, la quale va a modificare o soltanto a mascherare la prima, si è arrivati a presentare la natura stessa degli esseri come un risultato di abitudini, gli organi come dei prodotti di abitudini che si sommano le une alle altre, e le individualità viventi come altrettanti sistemi di abitudini che reagiscono gli uni sugli altri, in un equilibrio incessantemente variabile. [321]
I
L’abitudine, abbiamo detto, è un fatto universale. Al di là delle complicazioni alle quali può essere soggetta, essa non è altro negli esseri viventi che ciò che è già nel mondo inorganico.
Questa affermazione potrà apparire paradossale e dobbiamo riconoscere che essa si pone in contraddizione con le teorie sostenute dalla maggior parte dei filosofi francesi. Ravaisson, in una tesi giustamente molto apprezzata e alla quale faremo peraltro più di un riferimento, si pone dal punto di vista di quelle facoltà irriducibili di cui abbiamo parlato poc’anzi e fa consistere l’abitudine in un cambiamento intimo della sostanza stessa di un essere di natura immateriale; egli intende con ciò che il cambiamento non si compie soltanto in un organo o nel suo funzionamento, ma in un’anima o nel principio stesso della vita. L’abitudine non è uno stato, egli dice, è una virtù; ora, Ravaisson, giacché non individua al di fuori del mondo vivente alcuna sostanza o energia individuale suscettibile di essere modificata nella sua potenza, nega che l’abitudine sia possibile nel regno inorganico e a malapena le accorda un qualche accesso alla vita dei vegetali.
Albert Lemoine, in un libro postumo, che noi citeremo parimenti più di una volta, ha formulato di recente un’opinione simile.
Da sempre, egli afferma, si è mostrato che l’abitudine non ha alcuno spazio nel mondo inorganico […]. Questa circostanza dovrebbe essere presa seriamente in considerazione da quegli scienziati che oggi pretendono di cancellare ogni limite reale tra gli esseri bruti e gli esseri viventi. Se la vita fosse solo una manifestazione superiore di forze meccaniche, fisiche e chimiche della natura, bisognerebbe trovare nel regno inorganico quantomeno i primi rudimenti dell’abitudine, o almeno si dovrebbe spiegare in che modo un fenomeno, una legge, un elemento a tal punto notevole possa apparire d’un sol colpo a questo grado della scala degli esseri, senza avere la sua ragione né nei livelli inferiori, né in una qualche natura assai speciale degli esseri viventi. Finché non si sarà collegata l’abitudine ai fenomeni ordinari della meccanica o della chimica, essa dovrà restare, per ogni spirito tanto amico dei fatti positivi quanto nemico delle ipotesi avventurose, una delle barriere che, allo stato attuale della scienza, separano il mondo dei corpi bruti da quello degli esseri [322] viventi.
Lemoine si basa sull’autorità di Aristotele, il quale diceva: “Si avrà buon gioco a gettare una pietra in aria mille volte, essa non vi salirà mai senza una forza che la spinga”. Nulla di più vero; ma a noi pare che si possa dire altrettanto dell’uomo e degli animali, dei quali si vorrebbe fare i soggetti esclusivi dell’abitudine; poiché non è certo gettando gli uccelli in aria che essi apprendono a volare.
I soli filosofi che abbiano protestato contro questa prospettiva così diffusa non potevano naturalmente che essere quelli che, tormentati dal bisogno di generalizzazione che sta alla base di ogni scienza, cercano di riportare i fatti dell’universo a princìpi semplici e poco numerosi e di colmare in tal modo l’abisso che esiste solo in apparenza tra il mondo inorganico e il regno del vivente. Auguste Comte ad esempio riteneva che la legge dell’abitudine dovesse essere, per principio, scientificamente collegata alla legge universale dell’inerzia, così come la intendono i geometri nella teoria positiva del movimento e dell’equilibrio.
Forse, aggiungeva Comte, sarebbe in certa misura opportuno tornare a riflettere su quella nozione filosofica fondamentale che mi pare fare, di tale proprietà, un attributo troppo esclusivo dell’organismo animale, della quale esso risulterebbe comunque, in ogni caso, altamente più suscettibile, in virtù della sua maggiore flessibilità. Non vi sono infatti apparati, persino puramente inorganici, che non comportino spontaneamente una più facile riproduzione degli stessi atti, a seguito di una reiterazione appropriatamente prolungata e sufficientemente regolare; cosa che è senza dubbio il carattere essenziale dell’abitudine animale, soprattutto quando ci si limita a considerarla nelle funzioni che dipendono dall’irritabilità […]. Lo studio approfondito dei fenomeni sonori non ci mostra forse la facoltà di contrarre delle autentiche abitudini, ossia delle disposizioni fisse a seguito di una serie sufficientemente prolungata di impressioni uniformi? E questa facoltà, che sembrava appartenere agli esseri animati, non si applica chiaramente, in maggiore o minor grado, anche agli apparati inorganici stessi?
Tutti sanno che un abito, dopo esser stato indossato un certo numero di volte, si adatta meglio alle forme del corpo di quando era nuovo; è avvenuto un cambiamento nel tessuto, e questo cambiamento è un’abitudine di coesione. Una serratura funziona meglio dopo esser stata utilizzata; inizialmente è stato necessario impiegare una forza maggiore per vincere certe [323] resistenze, certe asperità del meccanismo; questo superamento di resistenze è un fenomeno provocato dall’abitudine. Costa meno fatica piegare un foglio nel senso in cui è già stato piegato in precedenza; questa diminuzione di fatica rientra in quel carattere essenziale dell’abitudine, per il quale l’azione esige, per essere riprodotta, una quantità minore di causalità esterna. Il suono di un violino migliora grazie all’uso che ne fanno le mani di un abile artista, poiché le fibre del legno contraggono alla lunga delle abitudini di vibrazione sempre più conformi ai rapporti armonici; ed è questo ciò che conferisce un valore inestimabile a certi strumenti appartenuti ai grandi maestri. L’acqua, scorrendo, si scava un canale sempre più largo e profondo, e anche dopo aver smesso di scorrere, riprende, quando scorre nuovamente, la direzione che aveva tracciato nel suo corso; allo stesso modo, le impressioni degli oggetti esteriori si creano nel sistema nervoso delle vie sempre più appropriate e tali fenomeni vitali, dopo esser stati interrotti per un certo tempo, si riproducono in presenza di eccitazioni simili. È attraverso questa azione delle correnti, così facile da osservare nel mondo inorganico, che Herbert Spencer ha ammirabilmente spiegato la genesi di un nervo negli esseri viventi. – Anche nella semplice cristallizzazione dei corpi si trovano già tracce di abitudine; è certo, quantomeno, che l’influenza dell’ambiente modifichi la forma dei cristalli. Il sale comune cristallizza nell’acqua pura in forma cubica; ma, se l’acqua contiene alcuni acidi (come l’acido borico, ad esempio), gli angoli dei cubi si troncano. Il carbonato rameico, cristallizzando in una soluzione contenente dell’acido solforico, forma un prisma esagonale; ma, se si aggiunge dell’ammoniaca, si vedono apparire differenti varietà di ottaedri rombici; infine, se si introduce nella soluzione dell’acido nitrico, il prisma diviene rettangolare. Vale la pena osservare che questi cambiamenti non si producono attraverso la giustapposizione di nuovi cristalli, ma alterando la modalità di crescita dei cristalli primitivi, esattamente come negli esseri viventi l’abitudine si instaura per mezzo di un cambiamento nella nutrizione e riparazione delle forme orga...