Ringraziamenti
Le riflessioni di questo libro devono molto all’antropologo che le ha ispirate: Claude Lévi-Strauss. Nel 2004, durante un incontro indimenticabile al Laboratorio di antropologia sociale, ho avuto l’opportunità di presentargli la prima bozza del mio progetto. Si tratta del volto ribelle e non consensuale dell’antropologo, come dimostra l’idea, espressa a più riprese nel corso della sua vita, che le catastrofi naturali causate dagli uomini sono prossime ai genocidi – un ragionamento che ci fa risalire, in epoca moderna, alla Conquista dell’America. In entrambi i casi, per Lévi-Strauss, si tratta di un abuso di potere che deve innanzitutto essere riconosciuto se vogliamo sperare di migliorare il destino dell’umanità.
Questo libro deve molto anche alle discussioni avviate durante seminari e giornate di studio, nelle quali ho avuto modo di presentare alcuni risultati del progetto: “Claude Lévi-Strauss nel centenario della nascita”, organizzato dall’8 al 10 maggio 2008 a Napoli dall’Istituto italiano per gli studi filosofici; “L’espressione del disastro: tra esaurimento e creazione”, organizzato il 23 settembre 2008 dal Laboratorio di antropologia sociale al Musée du Quai Branly e “Religione e politica: la materia dell’Apocalisse”, organizzato il 22 giugno 2017 presso l’École des hautes études en sciences sociales.
Ho avuto spesso la possibilità di apprezzare la difficoltà di fare accettare alcuni aspetti del pensiero di Lévi-Strauss (specialmente quelli di cui tratta questo libro), ma anche l’interesse che essi possono suscitare. In questo senso, sono stati interlocutori preziosi gli antropologi Claudine Gauthier, Barbara Glowczewski, Wolfgang Kaltenbacher, Régis Meyran, Perig Pitrou, Alexandre Soucaille. A Renée Koch Piettre sono debitore di incoraggiamenti importanti. Infine, vorrei ringraziare Gianfranco Marrone per la sua sincera amicizia e Luca Taddio, direttore di Mimesis, per aver accettato questa nuova sfida.
Il ritorno
Ciò che constato è la devastazione attuale; è la scomparsa spaventosa delle specie viventi, siano esse vegetali o animali; e il fatto che a causa della sua attuale densità, la specie umana vive in una sorta di regime di avvelenamento interno – se così posso dire – e penso al presente e al mondo in cui sto terminando la mia esistenza. Non è un mondo che amo.
Queste parole, pronunciate da Claude Lévi-Strauss il 28 ottobre 2004, nel corso di un’apparizione sul secondo canale della televisione francese, veicolano concetti che non dipendono soltanto dai sentimenti cui può spingere l’età avanzata. Esse attingono alle stesse motivazioni che lo spinsero a introdurre l’analisi strutturale in antropologia.
In questo libro vogliamo mostrare, precisamente, che l’attenzione accordata da Lévi-Strauss durante tutta la sua vita ai problemi che preoccupano in questo momento l’umanità – e che hanno permesso di riunire, al cuore delle scienze sociali, dei fenomeni eterogenei sotto la stessa nozione di catastrofe – non è estranea all’elaborazione dei principi dello strutturalismo. In particolare, esploreremo l’atteggiamento critico di Lévi-Strauss, da un lato al riguardo di forme della vita sociale che hanno accompagnato la rivoluzione industriale – e che egli situa al centro di un arco temporale più ampio, tra la Conquista dell’America e i genocidi del XX secolo –, dall’altro al riguardo della rigidità che caratterizza altre scienze umane, segnatamente quei saperi critici (o della crisi) che sono la psicoanalisi e il marxismo. In tal modo, cercheremo di comprendere come la soggettività creatrice dell’antropologo francese ha potuto dispiegarsi in rapporto alla catastrofe, in maniera totalmente coerente con il dispositivo metodologico messo in campo nei suoi lavori.
Evocheremo, innanzitutto, due sue opere: Tristi Tropici (segnatamente l’ultima parte intitolata “Il ritorno”) e Saudades do Bresil: esse prolungano le sue riflessioni sul tema della memoria sotto lo stesso segno della nostalgia e della malinconia.
La complessità e l’importanza di Tristi Tropici nel lavoro di Lévi-Strauss sono note. Egli stesso considera quest’opera come una sintesi di ciò che aveva scritto fino a quel momento, e anche di tutto ciò in cui credeva o che sognava. Quasi tutte le sue posizioni etico-politiche degli anni 1950 prefigurano alcune delle calamità che affliggono il cosiddetto mondo globale in cui viviamo attualmente.
Parliamo subito della catastrofe, di cui postuliamo che la sua identificazione con la Shoah è al centro del pensiero lévi-straussiano. Dopo il ritorno dal Brasile, dove aveva maturato la sua esperienza sul campo in Amazzonia e insegnato presso l’Università di São Paulo, l’antropologo sembra non comprendere la gravità degli eventi che, sotto il governo collaborazionista di Vichy, lo costrinsero a riprendere il viaggio verso l’America. Eppure, Lévi-Strauss apparteneva alla cosiddetta generazione del 1945, che nell’infanzia aveva conosciuto la prima guerra mondiale e che, secondo Claude Imbert, “era pienamente consapevole delle sue conseguenze e del fatto che essa aveva precipitato l’Europa da una guerra all’altra”. Aggiungiamo che Merleau-Ponty sin dal 1945 aveva cominciato il bilancio con il suo articolo “La guerra ha avuto luogo”, pubblicato nel primo numero di Les Temps modernes. Tuttavia, per gli intellettuali ebrei, alla fine della guerra e per molto tempo ancora, le risposte all’indicibile sarebbero state più difficili.
Nelle loro opere, i riferimenti sono molteplici ma caratterizzati quasi sempre da uno stile asciutto: una riflessione aperta sul genocidio è assente. Il silenzio della prima generazione (definita la “generazione del silenzio”) sembra mescolarsi alla minimizzazione che spesso caratterizza le storie delle vittime di eventi traumatici, come la prima guerra mondiale. D’altra parte, il problema del “male assoluto”, nell’immaginario occidentale, è identificato a partire da quel momento con la Shoah, in accordo con l’idea di alcuni intellettuali britannici o americani, per i quali quest’ultima è un evento unico che non si può paragonare a nessun altro. Di qui un processo di sacralizzazione (e di tabuizzazione) che inevitabilmente ha finito per condizionare la riflessione. Più correttamente, potremmo parlare di una specificità della Shoah – una terrificante pianificazione di tipo industriale della morte di massa – in rapporto a una serie di azioni genocidarie basate sugli stessi presupposti ideologici.
Detto questo, in Tristi Tropici, le incursioni di Lévi-Strauss al cuore del problema, anche quando evocate a bassa voce, sono dirompenti. Prova ne è la storia, in qualche modo divertente, della sua visita a Vichy – la mano del funzionario sollevata per apporre il timbro di espatrio mentre il suo collega non è d’accordo – e soprattutto il riferimento ai campi di concentramento e di sterminio. Nel momento in cui s’imbarca per l’America, Lévi-Strauss dice di sentirsi già “preda” di questa volontà di sterminio e rappresenta le condizioni in cui, in questi campi, la carestia può spingere gli uomini all’antropofagia. Lo prova anche questa frase, collocata quasi arbitrariamente all’inizio del capitolo “Amazzonia”, che precede “Il ritorno”, e che esprime bene il rapporto tra esaurimento e creazione che caratterizza la catastrofe. La soggettività creatrice di Lévi-Strauss è identificata con l’antropologia; sollecitata da eventi catastrofici quest’ultima è diventata allo stesso tempo lo strumento più efficace per superarli. Addentriamoci nei meandri più intimi del pensiero di Lévi-Strauss citando le sue parole:
Questo spettacolo aveva qualche cosa di disgustoso e di affascinante; si accordava nel mio pensiero con quello della foresta, pieno di forme e di minacce. Mi misi a disegnare, prendendo la mia mano sinistra per modello, paesaggi composti da mani emergenti da corpi contorti e intricati di liane. Dopo una dozzina di schizzi quasi tutti scomparsi durante la guerra – in quale granaio tedesco sono oggi andati a finire? – mi sentii sollevato e tornai all’osservazione delle cose e della gente.
Per comprendere meglio le sottigliezze di questo testo ricordiamo innanzi...