La cittadinanza sinaitica
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La cittadinanza sinaitica

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Vi è posto per lo straniero nella società ebraica? Per il non-ebreo ai piedi del Sinai? La posta in gioco del Sinai è più che mai manifesta nella costruzione rabbinica della cittadinanza. Operazione ermeneutica assai complessa. I maestri di Israele l'hanno compiuta ritenendo che gli stessi ebrei ai piedi del Sinai ebbero accesso all'Alleanza come proseliti. È questa l'espressione che essi hanno dato al proprio costituirsi come cittadini di una comunità ermeneutica per eccellenza. Tale fu la comunità nata ai piedi del Sinai. Ed ermeneutico è appunto il gesto che soppianta con il proselito la figura biblica dello straniero, e questo entro il quadro di un'Alleanza ora estesa all'intero orizzonte storico e naturale. E di cui la Torah sinaitica è la Carta.

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Information

III

Israele e gli altri

Gli altri di Israele chi sono? La domanda presuppone una prospettiva rovesciata rispetto a quella abituale che considera come altri, par excellence, gli stessi ebrei. Ma non è questa adesso la prospettiva di chi ha vissuto tanti anni in Israele da non-ebreo e che, come il sottoscritto, non si è neppure identificato, per ovvie ragioni, con nessuno dei diversi settori della popolazione non-ebraica presenti nel paese: arabi-israeliani, lavoratori stranieri, membri di istituzioni religiose ed ecclesiastiche, di organizzazioni umanitarie internazionali – ma pur sempre uno tra gli altri, uno degli altri. È anche convinzione di chi scrive che, se esistono problemi nella società ebraica israeliana relativi ai non-ebrei – stranieri, residenti o cittadini – essi sono problemi che affondano le loro radici ai piedi del Sinai. Essi hanno infatti origine là ove Israele nasce e si configura come nazione. Da là deriva la caratteristica mescolanza di etnia, politica e religione. È questa convinzione che mi ha portato a dedicare particolare attenzione al tema degli altri di Israele a cominciare innanzitutto dalla sua Tradizione Orale. Chi sono dunque gli altri che si incontrano nel discorso aggadico e in quello normativo dei maestri di Israele? Chi sono quei nokhrim o quei goyim, vale a dire quei non-ebrei che punteggiano il discorso rabbinico? Degli idolatri? Degli eretici? Colti filosofi o edonisti senza freni? Pagani, gnostici, cristiani, zoroastriani: tutte opzioni ogni volta da vagliare e soppesare. La discussione tra gli studiosi è aperta. Ma quello che mi preme adesso sottolineare è piuttosto l’opposizione che attraversa questa letteratura e che colloca i goyim, come tali, da una parte, e Israele dall’altra. Anche ammesso che i maestri ebrei sapessero all’occorrenza distinguere tra un goy e l’altro, è comunque innegabile una certa tendenza a prescindere e a cancellare tra quelli ogni differenza. Uno degli aspetti che più mi ha colpito, fin da subito, della letteratura rabbinica, è proprio la forza del popolo ebraico di dire NO al mondo intero. La forza che il midrash esprime attraverso l’opposizione: noi (anachnu)/loro (hem); per noi (lanu)/per loro (lahem). Secondo un celebre midrash, Abramo è stato in grado di fronteggiare il mondo. Da lui i maestri attingeranno la forza di collocare i goyim in quanto tali sull’altra sponda: non della luce, ma della tenebra; non del sacro, ma del profano. E per quanto non si possa in via di principio dedurre una halakhah dalla aggadah1, eccezioni a parte2, è comunque vero che spesso sia proprio quest’ultima a permettere di capire il perché di non poche leggi che hanno i non-ebrei come oggetto. Non mancano gli studiosi ebrei, come D. Novak, che sono preoccupati dell’impatto che la speculazione aggadica sui non-ebrei ha avuto in passato e, soprattutto, può ancora avere nel presente. Mentre altri, come S. Stern, cercano di spiegare l’utilizzo da parte ebraica della componente non-ebraica della famiglia umana come istanza dialettica e come elemento di contrasto.

I

Y. Cohen ha dedicato alla rappresentazione del non-ebreo nell’antica letteratura rabbinica la sua tesi dottorale sotto la guida del reputatissimo storico israeliano S. Safrai. Essa rappresenta i non-ebrei così, come depravati, crudeli, idolatri, e via dicendo. Proprio l’idolatria sembra fungere da metafora della stessa non ebraicità. Gli studi sul tema si sono da allora moltiplicati con l’ausilio di strumenti di analisi sempre più raffinati, coprendo le epoche dei maestri (tannaiti e amoraiti) e le aree geografiche (Eretz Israel e Babilonia). Dalla comparazione con altre civiltà emerge inoltre chiara la consapevolezza che l’attitudine a dividere in due l’umanità non è il monopolio di una singola cultura. Non mancano neppure qui e là certe critiche isolate, anche se non tutte posseggono la chiaroveggenza del passo seguente, per quanto centrato, come osserva H. Joly, sulla metodologia:
…dividere in due il genere umano, come dividono molti di qui, i quali separano da tutti gli altri uomini il genere degli Elleni come una parte dotata della sua unità e separata da tutte le altre, soprannominando tutti insieme gli altri generi, che pure sono innumerevoli, non collegati e senza reciproca connessione, con la sola denominazione di “genere barbaro”, e, a causa di questa denominazione unica, credere che si tratti in realtà di un solo e unico genere” (Politico 262c-d).3
Di un tale abbaglio, la cui natura resta tuttavia da definire, sarebbero responsabili gli stessi maestri di Israele allorché dissolvono la parte non-ebraica dell’umanità in un’astrazione. Accade quando i popoli del mondo sono contrapposti al popolo ebraico in quanto massa indifferenziata, come conseguenza della confusione provocata dalla cancellazione delle loro singolari differenze ad opera di Sennacherib, strumento nelle mani di Dio: “Io ho rimosso i confini dei popolo” (Is 10,13) – posizione difesa da R. Yoshua4 e confermata poi da R. Aqiba. Nota è anche l’equiparazione dei popoli del mondo alle acque del mare, il regno dell’informe per eccellenza5; rappresentazione di ciò che minaccia Israele, sempre a rischio di esserne travolto e di scomparire in esso. Una metafora che avrà fortuna nella letteratura mistica e in tanti autori importanti di epoche successive, dal Maharal di Praga a Rav Kook. Singolare è l’affermazione di un amora che si vuole meritevole di una benedizione per non avere mai guardato un goy6, esercizio non da poco, in considerazione del fatto che il mondo ne è pieno e che quelli sono ovunque. Il che comporta una negazione almeno virtuale della loro esistenza: “Tutti i goyim sono come nulla (ke-ain)” (Is 40,17). E per quanto siano nulla davanti a Lui (ke-negdò), considerati da Lui meno di zero, come nella formulazione del profeta, una tale affermazione diverrà poi assoluta. Le fonti mostrano che i maestri sapevano ovviamente che non tutti i goyim erano empi, che non tutti andavano insomma considerati più simili alle bestie che a Israele, il solo a poter rivendicare il titolo di Uomo (a commento di Ez 34,31: “Uomo siete voi (adam attem)”); esempi positivi ce ne sono, anche se il più delle volte hanno l’aria di mere eccezioni. Sono molti gli studiosi ebrei che perciò riconoscono alle nazioni nel discorso rabbinico una funzione dialettica, di contrasto, per far meglio risaltare la qualità di Israele. E per quanto sia giustificato chiedersi ogni volta cosa essi sapessero e cosa ignorassero, se volutamente o meno, della realtà intorno, o quale fosse la misura della loro apertura su quanto era out there, cioè al di là dei muri della Casa di studio, è assai plausibile ritenere che il loro vero interesse fosse altrove. Del resto, è un fatto che la stessa caricatura sia in certi casi più utile dell’osservazione empirica e oggettiva.

II

Israele rivendica il titolo di uomo di fronte a delle nazioni composte da bruti. Le nazioni sono quello che sono per contrasto con il popolo ebraico. Un popolo di santi (goy qadosh). Il midrash commenta: “Santo, santi e santificati...

Table of contents

  1. MIMESIS / Filosofie
  2. Abbreviazioni
  3. En passant
  4. I
  5. II
  6. III
  7. Filosofie