FRANÇOIS JULLIEN
CONTRO LA COMPARAZIONE
LO “SCARTO” E IL “TRA”
UN ALTRO ACCESSO ALL’ALTERITÀ
I.
UNA DECOSTRUZIONE DA FUORI
Per dirlo in modo semplice e per giustificare la mia strategia filosofica – cioè il mio modo di approcciare la filosofia, di applicarmi ad essa – partirei da questo semplice fatto: rispetto alla cultura europea, la Cina si trova in una posizione di esteriorità particolarmente evidente. Esteriorità della lingua: a differenza del sanscrito, che comunica con le nostre lingue d’Europa, il cinese non appartiene al grande insieme indo-europeo. Anche altre lingue hanno avuto una scrittura ideografica, ma solo il cinese l’ha conservata. Esteriorità della Storia: nonostante il fatto che alcuni scambi commerciali lungo la Via della Seta avvenissero già in epoca romana, a Roma nessuno sospettava che si trattasse di prodotti made in China. I due estremi del grande continente non entrano davvero in contatto fino alla seconda metà del XVI secolo, quando i missionari sbarcano in Cina; e iniziano a comunicare sul serio solo a partire dalla seconda metà del XIX secolo, con la guerra dell’oppio e l’apertura imposta ai porti cinesi. L’Europa, trionfante grazie alla scienza, dà avvio alla colonizzazione della Cina con la forza e non più con la fede. In confronto con la Cina il mondo arabo sembra del tutto «occidentale», tanto più che ha tradotto e trasmesso all’Europa molti testi greci, da Aristotele ai libri di medicina. Tommaso d’Aquino si ispirerà ad Averroè; il monoteismo islamico si colloca nella scia di quelli precedenti; gli stessi tratti della figura dell’intellettuale europeo si richiamano a quelli degli intellettuali andalusi.
Nel suo costituire in rapporto all’Europa una cultura così decisamente esteriore a essa, la Cina è però comparabile al continente europeo sia dal punto di vista dell’antichità sia dal punto di vista dello sviluppo. È questo il motivo per cui ho scelto il «terreno» cinese, come dicono gli antropologi; ma proprio per il fatto che non volevo diventare antropologo, bensì filosofo, il mio desiderio era di poter lavorare su un pensiero tanto ragionato – testualizzato, commentato, esplicitato – quanto il nostro, in Europa: e questo è il caso della Cina. Notate che, a questo livello, ho parlato di esteriorità e non ancora di alterità: l’esteriorità è data dalla geografia, dalla storia, dalla lingua. L’esteriorità si constata, l’alterità si costruisce. All’inizio la Cina è «altrove» – così come Foucault, all’inizio di Le parole e le cose, parlava letteralmente della «eterotopia» della Cina distinguendola dall’utopia. Ricordiamoci cosa diceva alla pagina successiva: «Le utopie rassicurano, le eterotopie inquietano…». È a questa «inquietudine», o non-riposo – Unruhe, direbbe Hegel – che invita il pensiero cinese dal suo fuori. Invita a scoprire la nostra stranezza.
Si dice spesso che la Cina è «così diversa»: tanto diversa, perché così distante. Ma io direi piuttosto che la difficoltà del sinologo occidentale non dipende tanto dalla differenza del pensiero estremo-orientale rispetto a quello europeo, quanto piuttosto da ciò che chiamerei l’indifferenza che essi intrattengono tradizionalmente l’uno rispetto all’altro. Da principio non sono rivolti l’uno verso l’altro; non si guardano, non si parlano – si ignorano. Il primo lavoro da fare, e che richiede ogni volta un’operazione di montaggio mai conclusa, consiste allora nel farli uscire entrambi da questa indifferenza reciproca e porli faccia a faccia – in modo tale che ciascuno possa al tempo stesso squadrare l’altro e farsi squadrare da esso. Dall’uno all’altro, è proprio questo cambiamento di quadro che, di per sé, dà a pensare e porta a domandarsi: che cosa accade al pensiero se, uscendo dalla grande famiglia indo-europea, si interrompe tutt’a un tratto la parentela linguistica, se non ci si può più appoggiare a prossimità semantiche o risalire all’etimologia, se si rompe la continuità degli effetti sintattici nei quali il nostro pensiero si è forgiato e si è sviluppato? Che cosa accadrebbe al pensiero se, uscendo dalla nostra storia (quella del mondo «occidentale»), rompesse d’un tratto con la storia della filosofia, senza potersi più appoggiare (o riposare) sulla filiera di nozioni o dottrine – a cui si è da sempre addossato il nostro spirito? O ancora: cosa accade al pensiero, o nel pensiero, se si taglia ogni legame con i nostri grandi filosofemi – dei quali possiamo ben percepire, dal di fuori, una connivenza di fondo: «Dio», l’«Essere», la «Verità», la «Libertà»…?
Al tempo stesso, come ho detto, in Estremo Oriente abbiamo a che fare con un pensiero dotato di consistenza, ben esplicitato; ecco perché questo cambiamento di quadro di per sé dà a pensare. Secondo la Storia (occidentale) della filosofia, narrata da Hegel, la filosofia avrebbe conosciuto uno sviluppo differito, emergendo dapprima in Oriente – Oriens, là dove «si leva» il sole – ma nascendo di fatto solo in Grecia, con l’avvento operativo del concetto. Contrariamente a questa doxa, che Deleuze riprende nella sua bella «geo-filosofia», sulla scia di Merleau-Ponty – pur invertendo i termini hegeliani: non più storia ma geografia; non è più questione di necessità ma di «ambiente» e di «contingenza» – l’Estremo Oriente non è rimasto allo stadio del «pre-filosofico». Ha inventato i suoi marcatori per l’astrazione, ha conosciuto le differenze tra scuole (fin dall’antichità cinese, nel contesto dei principati rivali e non delle città): non è rimasto sulla soglia o nell’infanzia» della filosofia.
Il beneficio di questa deviazione [détour] attraverso la Cina, dunque, è duplice. In primo luogo, c’è da scoprire se ci sono altri modi possibili di coerenza, altre intelligibilità; a partire da ciò, si tratta di sondare fino a dove può giungere lo spaesamento del pensiero: cosa succede al pensiero quando lascia, come il Battello ebbro, «l’Europa dai balconi antichi»1? Ma questa deviazione implica al tempo stesso un ritorno. Lo sottolineo: al tempo stesso, e non dopo, perché se così fosse non torneremmo mai, abbiamo sempre appena iniziato a ricreare un habitus, a sinizzarci. L’interesse – l’utilità – di passare attraverso questo “fuori” del pensiero cinese non è tanto di «ritrovarsi a casa» [re-payser] quanto quella di ritornare sui partiti presi a partire dai quali si è sviluppato il nostro pensiero, in Europa – partiti presi nascosti, non esplicitati, che il pensiero europeo spaccia per «evidenze» da quanto li ha assimilati; su di loro è prosperato. Passare per la Cina significa tentare di elaborare una presa obliqua, strategica, che coglie il pensiero europeo alle spalle, a partire dal nostro impensato. Chiamo «impensato» ciò a partire da cui noi pensiamo e che, proprio per questo, non pensiamo mai. Passare per la Cina significa quindi uscire dalla contingenza del proprio spirito, prendere una distanza da esso, mettendosi alla prova di un pensiero esteriore; e significa anche esplicitare questo «noi» – non solo il «noi» dell’ideologia, ma in primo luogo delle categorie della lingua e del pensiero – che è sempre implicitamente all’opera in questo «io» che dice in modo tanto superbo: «Io penso… »
Ecco ciò che ho denominato, ricollocandomi nella storia della filosofia contemporanea, una decostruzione dal di fuori. Infatti, se si compie da «dentro» (da dentro la nostra «tradizione»: dal fuori cinese appare chiaro come ci sia una tradizione europea, nonostante tutti i suoi effetti interni di rottura), ogni decostruzione rischia di essere inconcludente: chi cerca di prendere le distanze da una metafisica (greca) finisce per cadere dall’«altra parte» – quella della fonte ebraico-biblica. Da Heidegger a Derrida: ecco il famoso «debito impensato». Ebbene, passare per la Cina vuol dire uscire da questa grande oscillazione tra Atene e Gerusalemme, oscillazione che ha sostenuto la filosofia in Europa e l’ha ispirata in modo straordinario – da Hegel a Nietzsche a Kierkegaard: «Felicità» (greca) o «Coscienza infelice» (ebraica), il «Greco»/l’«Ebreo», Abramo di fronte a Socrate… Per dirla in termini heideggeriani, si tratta di disporsi all’ascolto di altre parole dell’«origine».
II.
A COSA PORTANO LE DIFFERENZE?
1.
Scegliendo di deviare il più possibile dalla ragione europea e viaggiando tra le culture – come Ulisse, il primo filosofo – parleremo allora di «differenze» culturali. È un’espressione comune – si è mai pensato di metterla in questione?
Ebbene, credo che non basti riflettere sui presupposti al contempo teorici e ideologici del concetto di differenza in rapporto alla diversità delle culture. D’altra parte, riducendosi a un’operazione classificatoria, la differenza non inibisce forse in modo sterile tutta l’esuberanza, tutta l’inaudita ricchezza dovuta al fatto che il culturale si offre sempre al plurale? Quale perdita ne deriva, senza che nemmeno ce ne rendiamo conto? Per questo, vorrei cominciare criticando quest’uso del concetto di «differenza» in relazione alla diversità culturale; e per questo propongo di sostituirlo con un altro termine, che da principio potrebbe sembrare un mero sinonimo, ma che intendo opporre al primo: il concetto di scarto [écart]. Perché preferire questo secondo concetto al primo? Perché parlare di scarti e non di differenze culturali? Partirò da questi punti, ovvero dalla differenza tra il concetto di «scarto» e quello di «differenza» – una questione che non è affatto un cavillo o una cineseria filosofica; essa pone invece un’alternativa nel modo di considerare la pluralità delle culture e, di conseguenza, di pensare il «proprio» della dimensione culturale.
Partiamo allora da un elemento logico. La differenza è un concetto identitario; ma al tempo stesso una constatazione, a essa opposta, ci dice che non esiste un’identità culturale possibile. L’identità fiancheggia infatti la differenza in almeno tre modi: innanzitutto, l’identità è ciò da cui deriva la differenza, è ciò che la sottintende; inoltre, nel suo esercizio di elaborazione la differenza fa coppia con l’identità in quanto suo opposto; infine, ulteriore conseguenza, l’identità detta alla differenza il suo oggetto.
La differenza presuppone infatti un’identità più generale – un genere comune – al cui interno la differenza designa una specificazione. Ma quale sarebbe quest’identità più generale e di principio, che conosceremmo in maniera immediata, punto di partenza per la diversità delle culture – in particolare di culture rimaste a lungo senza una comunanza storica e linguistica, come Cina ed Europa? Da quale universalità già data siamo assicurati? Ovvero: su quale concetto universale di «ragione» o di «natura» umana possiamo fin da subito fare affidamento, senza che sia in realtà un presupposto implicito? Posso forse individuare una cultura comune, della quale tutte le altre si accontenterebbero di dispiegare le differenze come un ventaglio? Bisogna iniziare eliminando questo pregiudizio: non c’è nessuna cultura primaria, a monte, nessuna cultura declinata al singolare che possa fungere come base identitaria comune, di cui le diverse culture che si incontrano nel mondo, al plurale, non sarebbero che variazioni.
2.
D’altra parte, differenza non soltanto si lega all’identità e ne dipende in quanto suo opposto («identità e differenza»: vecchia coppia della filosofia); soprattutto, la finalità della differenza è proprio quella di identificare. A cos’altro serve, infatti, se non a far apparire una specifica identità? È quello il metodo, tipico dell’ontologia, che Platone mette in scena all’inizio del Sofista: dividere ogni volta un genere in due; poi, dopo aver mantenuto una delle due metà, dividerla nuovamente, e poi ancora, fino a quando – non potendo suddividere ulteriormente – si giunge alla definizione cercata. È lo stesso metodo di Aristotele: «di differenza in differenza», giungere alla «differenza ultima» che ci consegna l’«essenza» della cosa.
Ora, ecco il punto essenziale: non c’è identità culturale possibile. O ancora: non si può definire ciò che dovrebbe essere o produrre il proprio di una cultura e costituire il suo stesso essere, la sua essenza. Qual è infatti lo «specifico» del culturale? È appunto il trasformarsi, il mutare. Una cultura che non si trasformasse più sarebbe una cultura morta – proprio come si parla di una lingua morta: una lingua che non cambia perché nessuno più la parla; una lingua che si è irrigidita, fissata, perché non serve più. La lingua cinese lo dice in modo esemplare, alla lettera, nel binomio che traduce il nostro termine moderno per “cultura”: wenhua (bunka in giapponese). Wen significa “testo, sinogramma, esemplarità, compimento”, come pure il re Wen – sovrano civilizzatore per eccellenza; hua significa semplicemente «trasformazione». Mi permetto di insistere su questo punto perché riveste un’importanza non solo teorica, ma anche politica. Quando si inizia un dibattito sulla «identità culturale» francese, come accade periodicamente, credo che si sbagli concetto. Si parte alla ricerca di quello che dovrebbe essere un nocciolo duro – puro – della cultura, ma lo si fa proprio negando la sua necessaria trasformazione: necessaria perché mantiene la cultura in vita, cioè in mutazione.
3.
Questo processo avviato nei confronti della differenza, in rapporto alla diversità delle culture, non può arrestarsi qui. Bisogna interrogarne il concetto, al di là del suo legame logico con l’identità, da un duplice punto di vista: da quello del suo presupposto metodologico e da quello dell’uso che ne facciamo.
Da una parte, stabilire delle differenze suppone il fatto che io pretenda di installarmi in una posizione dall’alto, o per lo meno di esteriorità, a partire dalla quale io possa «disporre» degli elementi tra il medes...