Premessa
È certo banale osservare che l’anniversario di un gran pensatore debba indurre a rileggerne l’opera, tenendo conto di tutto il suo valore in sé e per sé. Forse questa osservazione è meno scontata per Vico nel trecentocinquantenario della nascita, perché a rifletterci la questione della “lettura” dei suoi scritti ha impegnato i principali momenti della fortuna in Italia e non solo. Penso naturalmente al benemerito impegno di Croce, Gentile e Nicolini che con originali tesi teorico-storiografiche hanno introdotto i testi del filosofo napoletano nel grande disegno della”Nuova Italia”, preoccupati di assicurare leggibilità alla sua prosa complessa (già definita “oscura” da Vincenzo Monti) e, insieme, di liberarne l’interpretazione dalle tesi del positivismo ottocentesco e del cattolicesimo contemporaneo.
La questione ha ispirato anche le ragioni del “nuovo corso” di studi inaugurato alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso da Pietro Piovani che, rispettoso del magistero neoidealistico italiano, ha con grande acume riconosciuto in esso i non pochi e inconsapevoli contributi filologici offerti al suo stesso superamento. Della lezione piovaniana sono noti i saggi, gli interventi e le iniziative scientifiche nazionali e internazionali, finalizzate a una particolareggiata revisione teorica ed ecdotica con osservazioni sulle scansioni temporali dal Diritto universale alle Scienze nuove che hanno dettato l’agenda dei lavori compiuti negli ultimi decenni grazie alla scuola napoletana. Con Fulvio Tessitore e il prezioso contributo dello storico e filologo classico, Giuseppe Giarrizzo, con Antonio Garzya, filologo e storico dell’antico, e la prima generazione di allievi napoletani (da Giuseppe Cacciatore a Giuseppe Lissa e a Enrico Nuzzo) la lettura dell’opera di Vico si è trasformata, rielaborando l’eredità piovaniana (e così facendola rivivere senza stanche e retoriche ripetizioni) in una direzione diversa dal confronto del filosofo napoletano con i classici del suo e di altri tempi, confronto pur benemerito per aver infranto l’obsoleta formula neoidealistica del “precursore”, “né più né meno che il secolo decimonono in germe”. Abbandonare lo schema del “Vico e...” ha significato reimpostare la discussione sul suo pensiero in termini storico-storiografici, guardando al Settecento di Napoli in quanto Settecento europeo e, insieme, ridefinendo la “filologia-filosofia” nei termini di una vera e propria storicizzazione che non ha voluto (né poteva volerlo) privilegiare la tappa conclusiva di un itinerario ma tutte le sue articolazioni. Da qui l’impegno ecdotico per le Orationes inaugurali, il De antiquissima e i libri del Diritto universale (le cui edizioni critiche si debbono rispettivamente a Gian Galeazzo Visconti, Vincenzo Placella e Marco Veneziani) fino alle Scienze nuove del 1730 e del 1744 “recuperate” nella loro distinta fisionomia (grazie alle esperte cure di Paolo Cristofolini e Manuela Sanna, agli studi avanzati di Nuzzo sulla prima edizione del 1725).
In queste mie pagine – rielaborazione di scritti da me realizzati per miscellanee o riviste, di interventi in seminari o convegni nazionali e internazionali in occasione dell’anniversario del 2018 – ho tenuto naturalmente conto del rinnovato scenario critico-filologico. E l’ho fatto con un’idea di fondo: quella di riflettere sull’intreccio di diritto, etica e storia in relazione alle diverse fasi di un pensiero in continua e finanche spasmodica sistemazione: dalla “politicità” delle Orationes al “metodo degli studi”, dal verum-factum del De antiquissima alla metafisica del De uno, dal De constantia iurisprudentis alle Scienze nuove. Il tutto segnalando traversie e opportunità, nate da esperienze assai originali di Vico nelle relazioni con la cultura barocca e quella del suo tempo a partire dalla frequentazione del cenacolo di Valletta, della cui Biblioteca curò l’inventario nel 1726 per la vendita ai padri Filippini della Congregazione dell’Oratorio di Napoli.
Le novità teoriche si esprimono anche in un linguaggio iconico originalissimo come documentano le Dipinture delle Scienze nuove del 1730 e del 1744, l’impresa frontispiziale dell’ultima edizione, nonché la discoverta del “vero Omero” e del suo “scudo di Achille” a sostegno delle nuove definizioni di metafisica della mens e di “sapienza volgare”, sollecitate dal problema della scissione tra filosofia e filologia come caduta o possibilità di senso per l’uomo. La ricerca dell’ordine vero è condizionata dall’accertamento dei fatti della storia civile delle nazioni, a loro volta regolati da una filosofia nuova quale metafisica del genere umano, “teologia civile ragionata della Provvedenza”. Le verità di ragione non sono più indifferenti a quelle di fatto, può dire il filosofo napoletano con Leibniz, declinando l’universale come universalità coerente con il farsi più autentico dell’individuale. Alla cosmologia dell’antico e del moderno giusnaturalismo si oppone una nuova antropologia, nata dall’alleanza di filosofia, iurisprudentia e religione cristiana che fa di Vico un pensatore modernissimo alla ricerca mai dismessa di equilibri e destinazioni dell’umano.
Napoli, 16 marzo 2019
F. L.
STUDI E RICERCHE
I
Le mie letture
1. Il mio primo orientamento negli studi d’interesse vichiano deve molto a un celebre saggio di Arnaldo Momigliano del 1950 su Ancient History and the Antiquarian. In esso l’idea centrale di individuare la vera origine della tradizione e contrastare le insidie del “pirronismo” postcartesiano negli studi su Roma antica (da La Mothe le Vayer a Bayle, da Huet a Hardouin, da Fréret a De Beaufort) si fondava sulla richiamata capacità degli antiquari di dedicare particolare attenzione alla distinzione tra “fonti originali e derivate”. Scopo dell’indagine era l’analisi della tradizione letteraria e no (archeologica e paleografica, numismatica ed epigrafica), oggetto di crescente interesse alla luce del “conflitto” tra erudizione e filosofia nel Sei-Settecento, della rivoluzionaria “combinazione tra storia filosofica e metodo antiquario” di Winckelmann e Gibbon fi...