Violenza delle parole parole della violenza
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Violenza delle parole parole della violenza

Percorsi storico-linguistici

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Violenza delle parole parole della violenza

Percorsi storico-linguistici

About this book

La tematizzazione della violenza comporta l'assunzione della sua dimensione culturale, mutevole nello spazio e nel tempo, e della sua connaturata ambiguità, poichÊ la violenza si ascrive spontaneamente alla categoria del "male" ma può essere giustificata in nome di un "bene" o del "Bene". Superato il concetto di "civiltà" pregiudizialmente etnocentrico (prerequisito necessario ma non scontato), al cui vaglio ancora soggiace certa lettura dei fatti umani, la violenza perde i connotati dell'eccezionalità. Appare come elemento permanente e invasivo della storia umana, come una componente intrinseca ai comportamenti pubblici e privati, individuali e collettivi, quasi un dato impresso nel patrimonio genetico dell'umanità. In quest'ottica ogni cultura non può che incontrare varie forme di violenza e con esse variamente relazionarsi, per gestirle, neutralizzarle, indirizzarle, istituzionalizzarle, eventualmente fruirle. D'altra parte la violenza dell'essere umano non può essere ricondotta, in nome della sua riconosciuta generale pervasività, a mero fatto biologico, ad attitudine istintuale e animalesca, nÊ liquidata come silenzio della coscienza, poichÊ trova sostanza nello "scorrere ininterrotto di pratiche, discorsi, parole e gesti costitutivi e costituenti". Questo libro propone una riflessione articolata e multidisciplinare sul tema della violenza verbale, cioè individuabile nella comunicazione orale e scritta, letteraria e mediatica, privata e pubblica, in modo esplicito ma anche implicito o neutralizzato. L'obiettivo è quello di cogliere aree di intersezione e contiguità come elementi di rottura, registrabili nel passaggio fra una lingua e l'altra, ma anche fra diversi contesti storico- culturali, nella convinzione che maturare una piÚ profonda coscienza della comunicazione sia strumento indispensabile per "incontrare" l'Altro.

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Parte 1.
Parole che fanno male

Silvia Bonacchi

PerchĂŠ
le parole fanno male?

Considerazioni pragmalinguistiche
sull’uso offensivo del linguaggio

L’esperienza quotidiana ci dimostra che con le parole non soltanto possiamo descrivere stati di cose, ma anche provocare effetti sulla somaticità: con le parole possiamo abbracciare e accarezzare, ma anche colpire e ferire. Non si tratta solo di metafore descrittive, ma di stati del nostro corpo: ci sentiamo accarezzati, abbracciati, colpiti e feriti. Le parole agiscono sul nostro corpo, che non è solo individuale, ma con i media si dilata, diventando un corpo sociale messo a confronto incessantemente con tempeste mediatiche di “escrementi” (shitstorms) e di “caramelle” (candystorms).
Ci chiediamo quindi: cosa permette al linguaggio di andare oltre la semplice rappresentazione (descrivere) e divenire uno strumento di (inter)azione che agisce sul nostro corpo individuale e sociale? E in particolare: perchÊ le parole possono fare male? Qual è il rapporto fra espressioni denigratorie e grado di offensività? Quali sono i meccanismi che permettono alle parole di ferire?

1. Dalla semantica alla pragmatica

Alla base delle classiche teorie sulla comunicazione linguistica sta il segno, ovvero la capacità di uno stimolo (una parola, un gesto, un oggetto) di suscitare processi referenziali (sulla base di denotazione e intensione semantica) che portano al riconoscimento di “individui” ovvero referenti situati nel mondo fisico o mentale (ciò a cui il segno può essere riferito attraverso la designazione ed estensione). Il riferire ad altro (lo scolastico aliquid stat pro aliquo) è la caratteristica centrale del segno e la base del processo di significazione. Il linguaggio non si esaurisce però nel “riferire”, ma parte dal “riferire” per sviluppare una serie di funzioni rispetto ai diversi elementi del processo di comunicazione − i contesti, le situazioni, gli scopi di uso e le costellazioni di parlanti. Studiato in questa ottica, il linguaggio si rivela un modo di agire nel mondo, che pone in primo piano “l’interazione della struttura linguistica con i principi dell’uso linguistico”1. Usando il linguaggio non solo “descriviamo” quindi stati di cose, ma “indichiamo” rapporti, convalidiamo valori, ancoriamo lo spazio secondo assi di prossimalità e distalità, di inclusione ed esclusione, mettendo sempre in scena noi stessi come soggetti comunicanti.
L’interesse per questa dimensione del linguaggio come strumento di azione nel mondo ha caratterizzato l’emergere della pragmatica, che va al di là del valore segnico delle parole per volgersi agli atti attraverso cui parlando agiamo nel mondo. L’anno di nascita della teoria degli atti linguistici nella filosofia analitica anglosassone può essere considerato il 1955, anno in cui John Langshaw Austin tenne le celeberrime lezioni William James all’Università di Harvard che furono pubblicate postume con il titolo How To Do Things With Words (1962, traduzione italiana: Come fare cose con le parole, 1987). La teoria austiniana degli atti linguistici2 si basa sul presupposto che enunciando qualcosa (atto locutivo o locutorio o atto di dire qualcosa, saying something, diviso a sua volta per Austin in atto fonetico, fatico e retico) realizziamo un atto illocutivo (atto nel dire qualcosa, doing something in saying something) inteso a portare cambiamenti nel mondo (atto perlocutivo o atto col dire qualcosa, doing something by saying something)3. Per chiarire possiamo riportare un esempio: se dico ad una persona che punta una pistola verso un’altra: “Sparagli!” (atto locutivo) incito questa persona a sparare (atto illocutivo), e l’effetto può essere che la persona effettivamente spara (atto perlocutivo). Pronuncio quindi l’enunciato per incitare una persona a sparare nella fiducia che questo avverrà (aspetto intenzionale).
Fu poi un allievo di Austin, John Searle, a sistematizzare nel suo studio Speech acts del 1969 il pensiero di Austin, modificandolo parzialmente e identificando rapporti (in gran parte convenzionalmente fissati) fra strutture linguistiche e atti illocutivi. Rispetto all’esposizione non sistematizzata di Austin, Searle individua nella sua tassonomia cinque fondamentali atti illocutivi, individuati secondo specifici meccanismi4 e riconducibili alle seguenti azioni5: informare (atti rappresentativi), ordinare (atti direttivi), manifestare (atti espressivi), impegnarsi a fare qualcosa (atti commissivi) e at...

Table of contents

  1. MIMESIS / Eterotopie
  2. Introduzione
  3. “Parole primordiali”: un excursus attraverso la cultura tedesca
  4. Parte 1. Parole che fanno male
  5. Parte 2. Parole che fanno paura
  6. ETEROTOPIE