Parte I
L’invenzione dei diritti
Pietro Costa
I diritti dell’Uomo
fra spazialità “newtoniana”
e “territorializzazione” coloniale
§ 1. – Cenni introduttivi
Intendo prendere sul serio il termine “spazio” (e “spazi”) che figura nel titolo del convegno, interpretandolo come un invito a ripensare la storia dei diritti e dei discorsi che li hanno tematizzati alla luce di una connessione a lungo sottovalutata dalla storiografia: la connessione fra la dinamica sociale e culturale e la dimensione spaziale (la percezione, la rappresentazione, l’esperienza che ogni società ha del proprio radicamento in uno spazio determinato).
Per sottolineare l’importanza che la messa a fuoco di questa connessione può avere nelle strategie cognitive delle scienze umane è stato impiegato il termine, forse enfatico ma non improprio, di “spatial turn”: una svolta che imponga una nuova attenzione al fenomeno dello spazio, così come il celebre “linguistic turn”, nei primi anni settanta, aveva fatto nei confronti del linguaggio.
Certo, l’importanza del nesso fra società e dimensione spaziale non è una scoperta “assoluta”: sono ancora preziose e feconde le riflessioni svolte, fra Otto e Novecento, da Durkheim e da Simmel. In particolare Durkheim, in collaborazione con Marcel Mauss e poi da solo, nel Les formes élémentaire de la vie religieuse, ha mostrato il carattere socialmente e storicamente determinato delle categorie spazio-temporali: spazio e tempo sono vere e proprie istituzioni, plasmate dalla società e a loro volta capaci di incidere sulla disciplina delle azioni e sulla messa a punto delle rappresentazioni culturali. E la voce di Durkheim (e dei durkheimiani, da Maurice Halbwachs a Georges Gurvitch) ha avuto echi notevoli, diretti e indiretti, nella cultura novecentesca. Nemmeno la storiografia, peraltro, ha omesso di prendere in considerazione la dimensione spaziale: basti pensare all’opera di Lucien Febvre a di Fernand Braudel e, in generale, ai contributi delle varie generazioni degli storici “annalistes”.
È però anche vero che è stata a lungo dominante un’implicita divisione del lavoro: dello spazio si occupa sistematicamente il geografo, mentre lo storico è lo specialista della temporalità, del mutamento nel tempo, della diacronia. A manifestare qualche insofferenza nei confronti di questa troppo facile ripartizione dei compiti è stata la geografia, che a partire dagli anni Settanta-Ottanta del Novecento, per un verso, ha esortato a problematizzare e insieme a storicizzare la nozione di spazio e, per un altro verso, ha sollecitato le scienze umane e, fra queste, la storiografia, a vedere nello spazio un tema obbligato del loro armamentario concettuale e delle loro operazioni cognitive.
Essere consapevoli del carattere socialmente e storicamente determinato dell’esperienza dello spazio; cogliere i nessi che collegano la dimensione della spazialità con la cultura di una determinata società, con la rappresentazione che essa offre di se stessa: sono queste le principali componenti di uno “spatial turn” che coinvolge discipline diverse traducendosi in strategie euristiche congruenti con le peculiarità di ciascuna di esse. Per la storiografia, tradizionalmente concentrata sulla diacronia, la “scoperta” dello spazio significa tentare di capire “cosa succede quando i processi storici vengono concepiti e descritti anche in quanto processi spaziali e locali”, significa insomma rispondere a questa domanda: “cosa succede se “pensiamo insieme” la storia e i suoi luoghi?”.
È appunto in questa prospettiva che vorrei riflettere sui diritti dell’Uomo, sulla loro genesi sei-settecentesca e sulla loro evoluzione (o meglio implosione) ottocentesca. L’ipotesi, tutta da verificare, è che rileggere il discorso dei diritti senza perdere di vista la percezione dello spazio da esso implicata permetta di cogliere in controluce alcune sue caratteristiche peculiari.
§ 2. – I diritti dell’Uomo e la dimensione della spazialità
In prima approssimazione, i diritti dell’Uomo annunciati al mondo dall’assemblea rivoluzionaria francese sembrano privi di qualsiasi proiezione spaziale. Essi vengono presentati come assoluti, indisponibili, universali. In quanto “universali”, i diritti dell’Uomo sembrano restare estranei alla dimensione della spazialità o tutt’al più intrattenere con essa un rapporto meramente “negativo”, sottraendosi appunto a qualsiasi confinamento o localizzazione. Il discorso dei diritti e l’esperienza dello spazio sembrano appartenere a piani separati.
Di contro, una cultura plurisecolare (tanto tenace da aver indotto gli storici a parlare di un “lungo medioevo”) aveva sempre espresso (e continuava a esprimere) una sua peculiare percezione e rappresentazione dello spazio. Mi si permetta di riassumere l’esperienza pre-moderna della spazialità con le parole di Paul Zumthor: “L’uomo di allora – scrive il filologo svizzero – non ha come noi la sensazione che esista una “materia”, non umana e separata. […] Lo spazio del contadino medievale, non meno che quello del cittadino, del signore, del prelato, non aveva niente di ciò che è per noi il nostro, tridimensionale, uniforme, divisibile in sequenze misurabili e dotato di qualità indipendenti dal suo contenuto materiale. Lo spazio medievale non è astratto né omogeneo [….] è meno percepito che vissuto”. Lo spazio si risolve in una disseminazione di luoghi; e il luogo è “carico di un senso positivo, stabile e ricco: […] è il pezzo di terra in cui si soggiorna […]. In rapporto a esso si ordinano così i movimenti dell’essere. Non si può dividere un luogo in parti, perché esso totalizza gli elementi e le relazioni che lo costituiscono”. Lo spazio pre-moderno è uno spazio “miniaturizzato”: uno spazio frammentato e disomogeneo, dominato dall’oralità e dai rapporti face-to-face; uno spazio che fa tutt’uno con la vita della comunità, condiziona e plasma la fenomenologia po...