Capitolo 1
Essere malati,
essere vivi
Il malato è una sintesi spaziale
geometricamente impossibile…
(Michel Foucault)
…in materia biologica è il pathos che condiziona
il logos, perché lo chiama in causa.
(Georges Canguilhem)
1. I medici? Gente che s’arruffiana come i farmacisti
Per Montaigne il corpo diventa oggetto di riflessione nell’anno 1578, quando la sua condizione di nefritico si sprigiona in tutta la sua deprecabile ferocia. Nell’annus orribilis delle grandi crisi, aveva compiuto quarantacinque anni, un’età che all’epoca denotava un uomo più che maturo. Del mal de la pierre, che aveva ereditato dal padre, che cosa si sapeva? Un mucchio di cose risalenti a umori peccanti, a sproporzioni secretive, a cibi sbagliati, non senza la corona di molte valutazioni sul conseguente disequilibrio temperamentale. A proposito però dei rimedi, i medici interpellati si combattevano furiosamente come in un ilare gioco. E infine, per l’irrimediabile mancanza di medicine che gli era apparsa subito definitiva, Michel si era ridotto a riflettere sull’intima sostanza dei fatti indugiando sul potere misterioso della goutte d’eau che dal padre trasmette certi caratteri ai figli. Che altro poteva attendersi, se non la blindata aggressività delle coliche che rinnovavano mensilmente (o quasi) la loro didattica non cifrata e tuttavia inviolabile? Sì, Montaigne sapeva d’essere ormai divenuto un malato cronico, del quale però non manifestava l’attitudine più tipica. Per come si era abituato ad affrontare l’oscuro andirivieni del sottosuolo psicologico, proprio non riusciva a rinchiudersi nel semplice patire. Il suo investigarsi, il disertare delle illusioni oltre che l’assoluta directness di cui era capace, lo avevano indotto a documentarsi sui medici, gente attorno alla quale l’uditorio era sempre stato numeroso.
A colpirlo era la maestria con cui questa gente mascherava il suo scarso sapere. Diversamente dai contadini o dai calzolai, abituati a parlare “di ciò che sanno”, i medici, “per voler farsi grandi e forti di quel sapere che galleggia alla superficie del loro cervello, non fanno che incepparsi e impantanarsi. Sfuggono loro delle belle parole, ma un altro deve adattarle al caso concreto. Conoscono bene Galeno, ma per nulla il malato”. In quanto soldato semplice nell’immensa legione dei nefritici, Montaigne sentiva di avere tutte le ragioni per presentare i medici come protagonisti di una favola raccapricciante che tramutava l’assoluta capziosità in finta esattezza. Eccolo dunque elencare gli strafalcioni metodologici, gli errori e anche i tentativi ideologici per mondarsi di ogni traccia di responsabilità. Il punto vero era però che non c’era medico che non desse vita a una recita senza verità. Ognuno di loro poteva profilare al meglio il proprio ruolo. Poteva diventare ruffiano, fustigatore, moderatore, scopritore, ultra preoccupato ecc.. L’epistemologia medica, null’altro che una secrezione teorica superparassitaria, facilitava il compito a tutti. Dopotutto, rubricare una somma di gesti privilegiati e di parole fintamente potenti non era una missione impossibile. D’altronde, non poteva essere che così, non essendosi la medicina mai realmente emancipata dalle versioni bislacche, normalmente strampalate e insuperabilmente private dei singoli dottori.
Su tale premessa, che la razionalità del nefritico Montaigne considerava un fatto storicamente provato, era facile concludere che la medicina altro non era che una pratica mostruosamente malata, ove a comandare era in definitiva il dio denaro. Rifiutandone il viluppo assurdo di parole e gesti dispendiosi, egli non si consegnava però, inerme, all’intelligenza passiva di una catastrofe. Come vedremo più avanti, si varrà delle sue risorse personali in vista di una replica avente come perno il contrasto alla passività.
Questo alzare la mano in segno di obiezione non deve però dar luogo a equivoci. Montaigne non denuncia un torto o un difetto dell’ispirazione originaria della Medicina. Dichiara semplicemente ciò che la medicina era divenuta, la passività che ingenerava nei malati mescolando ottimismi infondati e pessimismi che non sapeva calmierare, soprattutto ne vedeva l’estraneità irriducibile a qualunque cura che fosse consentita dalla ragionevolezza.
Naturalmente, le sue obiezioni vedevano lui come centro focale dimostrativo e propriamente spettacolare. Michel partiva da sé, dal proprio male, per colpire l’obiettivo dichiarato, e cioè la competente nomenclatura, sempre attiva in un campo di Marte ove il confronto fra dubbie verità aveva come unica e insostituibile posta la parcella più salata. In tempi recenti, questa messinscena di contropeli più somiglianti a omicidi che ad alternative di correzione razionale era stata oggetto di moltissime attenzioni. Rabelais, il famosissimo Rabelais, l’aveva messa nel mirino con esiti a dir poco devastanti. Questo discepolo di Erasmo aveva cominciato col declinare al plurale l’antica invectiva contra medicum di Francesco Petrarca. L’ex frate, archeologo per diporto, scienziato, nonché a tutti gli effetti rinomato medico, sapeva che quanto si diceva, e lui stesso diceva, contra medicos non obbediva a futili suggestioni. Il suo era un plurale plateale, adatto al gran numero di ciarlatani concessionari della licenza d’esercizio. Dopo di lui e Montaigne, la derisione e la denuncia dei falsi medici trionferanno ben oltre Molière. Mentre il biasimo di Petrarca riguardava “non l’arte, ma gli artefici; e di questi non tutti ma solo gli impudenti e confusionari”, Rabelais toccava, con il costume medico, l’episteme. Era il sintomo di una stretta che Montaigne fa sua. Si additava il visibile patologico per accusare, assieme ai vuoti della medicina, tutte le credulità e le articolazioni contraddittorie che gremivano i suoi ponteggi difensivi. Incongruenze, assurdità, stranezze senza senso e cavillose amenità farmaceutiche, erano il filo conduttore della critica al Cinquecento medico, il quale conobbe un’unica, vera, bandiera, quella del tutto va bene.
2. Tutto va bene! Il ...