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Attori, teatro e un po' di vita
Scritti per il "Corriere della Sera" (1974-2017)
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Attori, teatro e un po' di vita
Scritti per il "Corriere della Sera" (1974-2017)
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Questo volume presenta, per la prima volta, un insieme di recensioni, interviste, articoli, dedicati al teatro e allo spettacolo, che Maurizio Porro ha scritto, negli anni, per il "Corriere della Sera", raccontando fatti, eventi, serate della vita teatrale milanese e italiana. Ne risulta un osservatorio particolare e inaspettato delle nostre scene dal 1974 ad oggi, in grado di offrire, con garbo e piacevolezza, diversi spunti di riflessione, per comprendere opere e artisti che hanno fatto la storia dello spettacolo dell'ultimo mezzo secolo.
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Information
Subtopic
Performing ArtsLE GRANDI INTERVISTE,
LA SCENA TEATRALE
2 marzo 1974
Ronconi fra due miti: Orlando e Sigfrido
Luca Ronconi da tre settimane è il regista più chiacchierato di Italia: davanti al suo Orlando, ogni domenica, si scatenano ondate di odio e amore, che sarebbe ingiusto limitare nei concetti di reazione e progressismo. In realtà l’adesione totale di Ronconi al “meccanismo” dello spettacolo, qualunque esso sia, produce un’onda a largo raggio: fu il primo, in Italia a scoprire nuovi spazi, il primo a concepire un diverso rapporto con il pubblico, ora costringendolo in venti stanze intersecantesi, ora facendolo accomodare piramidalmente dentro il mito dell’Orestea, ora tentando addirittura di fargli prendere il largo sull’acqua. Per molti anni Ronconi fu un attore giovane, legato alle convenzioni di un certo teatro; ma di quel periodo, che afferma di aver totalmente “rimosso” dalla sua coscienza, preferisce non parlare. Nasce davvero quando si scopre regista: da quella Putta onorata di Goldoni (che ora ha allestito per la Tv unitamente alla Buona moglie), fino al Sigfrido di Wagner, che sta in questi giorni provando alla Scala e la cui “prima” è fissata per venerdì 7 marzo. «Continuo, insieme a Pier Luigi Pizzi – afferma il regista – il discorso della Walkiria, anche se le due opere sono diverse. Gli eroi wagneriani sono nel mito, ma contemporaneamente anche nella storia e nell’universo fantastico letterario in una assoluta polivalenza di rapporti. La purezza di Sigfrido, oggi non è più quella del fanciullo della foresta, ma quella di un ‘individuo libero da rapporti di colpa sociali’» – «L’anno scorso il pubblico tradizionale l’attaccò per aver immaginato l’azione della Walkiria in un salotto borghese. Ora che reazioni si aspetta?» – «Fui stupito di vedere che il pubblico identificava un salotto borghese di 25 metri per 30, tutto specchi, come il proprio privato luogo sociologico, ma non c’erano né filodiffusione né bar. Sarebbe come voler vedere in una foresta il proprio giardino. In realtà l’operazione era culturalmente più larga. Comunque sono sereno, perché c’è differenza tra il fischio che ti arriva per aver fatto una cialtronata e quello che significa disapprovazione. Io lavoro per il pubblico, ma non solo per prevedere le sue reazioni: questo sarebbe filisteo». Da 5 anni lo scenografo Pier Luigi Pizzi è il suo fedele collaboratore: c’è fra i due una assoluta sincronia che è affinità di intenti e complementarietà d’ispirazione. Una vera simbiosi culturale. «La Walkiria – dice Pizzi – era filosofica, il Sigfrido è realistico. Ciò influenza le soluzioni scenografiche, anzi, il clima scenografico. Ritornerà la scena dello scorso anno ma vista da un’altra prospettiva: in Walkiria la sala era luogo di sentimenti privati e il pubblico doveva sbirciar dentro; quest’anno Brunilde è incatenata alla roccia e il pubblico la vede così come fosse Sigfrido: non è più una sala ma uno spazio culturale. Il mondo della natura è solo evocato in modo indiretto perché rappresenta l’aspirazione di una certa cultura borghese. «Nel Sigfrido – conclude Pizzi – c’è l’uomo, laddove prima c’erano gli dei. Normalmente l’opera viene illustrata con tre scene: io ho lavorato invece a quindici bozzetti diversi. E dopo tanto teatro un po’ di cinema: inizio tra breve a lavorare per L’occhio del gatto di Bevilacqua con Manfredi, la Melato ed Eli Wallach». Torniamo a Ronconi: con solo quattro regie liriche ha acquistato una sua peculiare fisionomia. Il recente Faust di Gounod, dato a Bologna, l’ha confermato.
3 agosto 1974
Valentina: ora penso a Cleopatra
«Con ammirazione affettuosa, Jean Renoir». «Sei tutta l’Italia e tutte le donne insieme, François Truffaut». «Minaccia di Milano, vecchio cane e piccolo agnello, grande attrice, Joseph Losey». «I nostri ricordi dolci e felici, Lilian Gish».
Una dolce rassegna di tenerezze internazionali avvolge Valentina Cortese, nel salotto della sua bella casa di Milano, dove l’attrice consuma le ultime ore di lavoro in attesa di una “forzata vacanza”. «Vogliono tutti che mi riposi – dice – ma io non so fare vacanza, sono irrequieta. L’unico desiderio è scappare, fuggire da me stessa, con la speranza di dimenticarmi in qualche posto. Invece mi porto sempre appresso». E sull’onda di questo manifesto romantico, la Cortese si alza, osserva i suoi oggetti come con lo stupore di vederli la prima volta, accarezza il camino di ceramica bianca. «La verità – afferma – è che vorrei alternare il teatro col cinema, smussando così le difficoltà intrinseche di ciascuno. Ma vorrei avere tempo anche per fare la donna di casa, per ordinare tutto ciò che è perennemente in disordine, ma come faccio?». Sotto questa parvenza di turbamento che ben si addice al suo aspetto e alle atmosfere liberty che suggerisce, Valentina vive in realtà una propizia stagione di attrice. Premiatissima per Effetto notte: «il premio me lo ha consegnato, a New York, Lilian Gish in persona alla quale il film era dedicato. Che carina!». Lodata da tutti per la sua interpretazione nel Giardino dei ciliegi cecoviano diretto da Strehler al Piccolo Teatro, richiesta in Italia e all’estero, non le resta che l’imbarazzo della scelta. Sul pianoforte una foto del figlio Jackie, in tenera età e vestito da cowboy, la riallaccia ai problemi reali, quelli di madre e di donna; d’altro canto, vicino a quella, c’è una sua foto che la mostra come Ilse nei Giganti della montagna, mentre sospira al cielo per la sopravvivenza della poesia. «Sono tornata ora da un paesino vicino a Salisburgo – confessa – dove ho fatto una cura distensiva. Là, a ottocento metri di altezza, conversavo con daini e cerbiatti, un po’ come Biancaneve e i sette nani. Ma in quel caso la nana ero io». Parlando di Salisburgo, le chiediamo notizie del contestato allestimento che Strehler ha fatto del Flauto magico di Mozart, andato in scena pochi giorni fa. «Ho assistito alla serata – risponde – e la mia opinione è che sia stata una contestazione organizzata a scopo politico da parte di uno sparuto gruppo di nemici di Strehler che, al suo apparire, gli ha dimostrato apertamente i propri dissensi. Ma lo spettacolo è stupendo, coraggioso, magico, poetico, non so come dire. È certamente antitradizionale, anche nelle stupende scene di Damiani su un palcoscenico che è grande due volte quello della Scala. Sicuramente un’alta prova di Strehler che, anche se lo volesse, non potrebbe mai fare un brutto spettacolo». «Credo che l’odore di zolfo, il sentore di battaglia, piacciano anche a uno come Strehler, che infatti si destreggia con grande bravura e combatte per le sue ragioni. La seconda replica è andata molto bene. Quest’anno a Salisburgo osteggiano un po’ tutti: anche un giovane autore di grande rilievo è stato fischiato. Anzi, là non fischiano, pronunciano un lungo ululato, emettendo uno strano suono riprovevole». Fra i nuovi impegni della Cortese quello più ghiotto è un film da girare con il regista teatrale Patrice Chéreau, che debutta nel cinema. La pellicola si intitola la Chair de l’orchidée, tratta da un romanzo di James Hadley Chase. «Il mio personaggio – dice la Cortese – sarà quello di una battona, non di primo pelo. Si può scrivere? Bene. Un personaggio squallido. Il mio papà sarà Renzo Ricci. E io dovrò improvvisare, perché Chéreau, fidandosi, affida alla mia ispirazione del momento le battute. Finché si tratta di inventare Effetto Notte d’accordo, sono nel mio mondo, faccio la parodia di me stessa. Ma in questo caso non so bene cosa dovrò fare. Fortuna ho un po’ di tempo davanti: il film si gira a fine mese a Lione e a Milano e accanto a me ci sono Charlotte Rampling, Simone Signoret ed Edwige Feullière». Parliamo di teatro. Dopo il successo del Giardino, per il quale ha rinunciato a diversi film internazionali, la prospettiva è quella di riprendere la commedia di Čechov sia a Milano sia in altre città. «Anche se è una parte che mi distrugge – dice – perché io non ho tecniche speciali di attrice, mi sforzo di essere vera e basta. Forse faccio bene o forse male, ma fatico molto appunto perché mi manca la malizia del palcoscenico. Un progetto poi cui tengo molto è quello di Antonio e Cleopatra di Shakespeare con la regia di Chéreau, annunciato da tempo. Se lo facessi in Italia potrei avere con me Mastroianni o Franco Graziosi, se lo facessi in Francia, Alain Delon». Il Piccolo vive giorni agitati. Una commissione di vigilanza ha rilevato carenze strutturali nei servizi del teatro. Cosa ne pensa Valentina Cortese che, in quel teatro e in quei camerini, ha vissuto così a lungo? «È una vergogna che un grande teatro sia in queste condizioni. Certo che i camerini sono disdicevoli, sotto ogni profilo. Io infatti cerco sempre di farmi regalare sete rare e moquette per rendere il mio più accogliente. In ogni caso spero che tutto vada a finir bene. Il Piccolo deve riaprire e il Giardino si deve riprendere: un posto per recitare ce lo daranno». A intermittenza, squilla il telefono. È sempre la teleselezione. La chiamano da Roma, da Parigi, la vogliono per cena, la cercano per un doppiaggio, le consigliano un servizio fotografico. Zeffirelli la vorrebbe a Positano l’undici agosto per il recital shakespeariano che vedrà impegnati molti autorevoli nomi. Ma Valentina è titubante, la seduce l’idea, ma non ha il tempo materiale. Si affida al dubbio, in tutto. Poi guarda con attenzione il suo bel portafoto, a due fronti. Su un lato c’è Losey, sull’altro Lilian Gish. «È meglio che le sposti – dice –, sul davanti è più giusto sia la Gish, anche se a Joseph voglio molto bene. O Renoir, che mi aspetta per il suo compleanno?». Poi sorride, raccoglie la Gish e la mette in posizione di privilegio. «Così è meglio» sussurra. E mi pare che questa volta sia davvero convinta.
12 settembre 1974
Gaber carica il fucile
«La realtà è come un uccello: quando tu la miri è già scappata via in un’altra direzione. Così noi rimaniamo lì in perenne ritardo e con il fucile sempre scarico». È Giorgio Gaber che parla e si riferisce ad una metafora presente nel suo nuovo spettacolo Anche per oggi non si vola, che debutterà a Milano sotto l’egida del Piccolo Teatro, nel rinnovato Lirico, il primo ottobre. La capacità che ha Gaber di rinnovare ogni stagione il suo discorso con il pubblico, attraverso nuove e più sottili proposte, è abbastanza sorprendente. Ogni anno c’è il pessimista che dice: «ora non può andare oltre. È bravissimo, ma adesso deve cambiare registro». E invece Gaber nel giro dell’estate prepara il nuovo attacco: affila le questioni, dispone in bell’ordine i nuovi problemi, interroga gli spettatori sui drammi della convivenza, ci parla da solo dei mali di tutti. E rieccolo puntuale, con quel suo volto mobile, con quelle sue mani espressive, ad agitarci dentro la coscienza. La gente (e soprattutto i giovani) ha imparato a conoscerlo, a discutere con lui, a trattarlo da amico. Poi hanno anche provato a etichettarlo politicamente, ma non ci sono riusciti. Gaber è disponibile, ma non in senso qualunquistico. Da quattro anni registra il “tutto esaurito”: aveva cominciato con il Signor G., in via Rovello, che lo tenne a battesimo: in quella stagione ebbe 18.000 spettatori. Due anni fa con Dialogo fra un impegnato e un non so toccò le 166 recite con 130.000 presenze; l’anno scorso Far finta di essere sani in 182 recite raggiunse i 186.000 spettatori. Una escalation continua, sia in città, sia in provincia, dove l’interesse cresce a vista d’occhio. Con quattro spettacoli ha totalizzato una cifra globale di 549 recite e 405.000 spettatori. E poi la recita all’Università Statale con gli studenti e quella all’ospedale neuropsichiatrico di Voghera, a contatto quindi con ogni tipo di ricezione. Lo stesso Strehler ne è entusiasta ed è felice che la riapertura del Lirico sia tenuta a battesimo proprio da lui. «Cosa ci dirà quest’anno con il nuovo recital?» – «I temi sono numerosi – risponde – posso provare a sintetizzarli così come si presentano in scena. All’inizio dico che ciascuno di noi vive nella rappresentazione che gli altri si sono fatti di lui, privo cioè di una reale spontaneità; poi analizzo i rapporti che l’intelletto ha con il corpo al quale noi imponiamo sempre decisioni di testa (“com’è corretta l’ideologia, com’è ignorante la simpatia”). E parlo delle percezioni sensoriali, per finire con una rivalutazione della bugia. Il bambino, per esempio, non ha altra possibilità di sfuggire ad assurdi divieti. La bugia è proprio una grossa invenzione. Noi invece non abbiamo alternative: crediamo solo nella verità». Gaber alterna la spiegazione orale a quella musicale, aiutandosi con la chitarra e con i gesti. Una specie di efficacissimo mini-recital di corte, che si svolge in salotto. Da qualche anno il cantante si fa sempre più attore e alla ribalta porge graffianti monologhi. Quest’anno parlerà di Giotto, un ragazzo logico e intelligente, che sa di semiologia ma non riesce a dipingere un cielo azzurro. Lo dipinge d’oro, come vuole la tradizione. Finché lo guarda davvero, il cielo, e si accorge che è azzurro: basta capire insomma che non c’è niente da capire. «Questo è un tema fondamentale dello spettacolo – continua – bisogna sentire e non ascoltare, vedere e non guardare. E invece noi ci facciamo sempre più contorti. Nel Febbrosario, il pezzo che chiude il primo tempo, faccio il paradosso del malato che contempla la sua febbre e più questa si alza più è orgoglioso. Nel secondo tempo lo spettacolo da personale diventa collettivo, arrivo al tema di Anche per oggi non si vola: incito ciascuno ad inventare la sua leggerezza, per essere in grado di volare. Ma ciascuno ha purtroppo il suo grosso pacco di coscienza che lo trattiene, composto da una gamma di variopinte preoccupazioni». Insomma la gente non si inventa mai nulla. Ci si sforza di organizzarsi, di essere efficienti, ma poi ci si accorge che il lampo della follia è lì a due passi. «Uno torna a casa dal cinema – prosegue Gaber – e non trova più la casa e poi perde anche la mamma, la Patria, tutto. Intanto la peste nera è in agguato, i topi la portano fuori dalle fogne e la gente prima si scandalizza ma poi finisce per adeguarsi a tutto. Ci si aspettano i colpevoli? Ma noi non vivevamo un periodo giallo, dove i colpevoli poi vengono riconosciuti, bensì un periodo rosa. E finisco con un inno alla disponibilità alla vita: bisogna tornare nelle strade per conoscerci e non serve chiudere la porta a chiave dietro di noi (“il giudizi...
Table of contents
- PREMESSA
- INTRODUZIONE
- IL PICCOLO TEATRO DI MILANO
- IL MUSICAL
- LE GRANDI INTERVISTE, LA SCENA TEATRALE
- GLI ADDII
- MAURIZIO PORRO, CRITICO DELLO SPETTACOLO
- RINGRAZIAMENTI