Malattie rare in emergenza
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Malattie rare in emergenza

Una ricerca antropologica tra biopotere e saperi della cura

Ilaria E. Lesmo

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Malattie rare in emergenza

Una ricerca antropologica tra biopotere e saperi della cura

Ilaria E. Lesmo

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La categoria di malattia rara, d'insorgenza relativamente recente, ha oggi grande rilevanza in sanità pubblica e in biomedicina. Il concetto merita un'analisi antropologica approfondita, in grado di mostrare, da un lato, le pratiche sociali, culturali e politiche che hanno portato alla sua plasmazione e, dall'altro, quelle che ne sono scaturite. Questo libro propone innanzitutto una genealogia delle malattie rare, mostrando le dinamiche che hanno condotto alla comparsa della categoria e le trasformazioni occorse con la sua diffusione a livello internazionale. In seguito, ripercorre una ricerca etnografi ca svolta lungo la Rete Interregionale per le Malattie Rare del Piemonte e della Valle d'Aosta, esplorando le rappresentazioni e le pratiche associate al concetto, contese tra forme di soggettivazione, processi biopolitici, nuove interpretazioni del disagio e tentativi di risignifi care queste ultime per consolidare una certa verità.

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Information

Year
2019
ISBN
9788857560083
Capitolo IV
Rappresentazioni e pratiche
degli utenti
Le micropolitiche emerse sul campo e discusse nel precedente Capitolo, come si è visto, avevano una ricaduta concreta sulle pratiche del quotidiano e, in particolare, implicavano operazioni di triage che agivano sia nell’orientare le prassi, sia nel definire le interpretazioni accettabili di uno stato di disagio. A questo proposito è significativo osservare che specifiche operazioni di inclusione ed esclusione furono messe in atto anche nel momento in cui gli specialisti, coinvolti nel progetto di ricerca sanitario e nel mio lavoro etnografico, aiutarono a individuare i pazienti intervistabili. Le azioni di selezione dei pazienti avvennero a diversi livelli.
In primo luogo, furono coinvolti due medici nella disamina della traccia delle interviste. Essi si adoperarono entusiasticamente orientando gli items individuati, ma anche spingendo alla selezione di un “campione” di pazienti che soddisfacesse specifici criteri. Suggerivano un processo di delimitazione piuttosto rigido degli utenti coinvolgibili, in base al quale solamente i soggetti affetti da “malattia rara riconosciuta”, “ricoverati almeno una volta in day hospital” e “in follow-up attivo” avrebbero preso parte al lavoro di ricerca. Per quanto simile processo di selezione non avrebbe avuto ricadute terapeutiche sui pazienti, e sicuramente non riguardasse situazioni di vita o di morte (come nelle pratiche di triage vere e proprie), esso distingueva tuttavia coloro i quali avrebbero avuto accesso alla parola, all’attribuzione di senso e, di conseguenza, alla legittima produzione di un sapere sulle malattie rare, da coloro che ne sarebbero stati esclusi. Ciò riduceva piuttosto forzosamente la complessità e l’eterogeneità degli utenti che quotidianamente si rivolgevano al Centro per richiedere una qualche forma di riconoscimento, e celava le modalità con cui alcune soggettività venivano costruite nei termini di “patologiche” e “rare” (e quindi accedevano a specifici diritti o presidi sanitario-assistenziali) mentre altre erano escluse da tali processi.
Simili dinamiche di selezione si resero ancor più evidenti quando il lavoro prese effettivamente avvio. Infatti, gli stessi specialisti individuarono i nominativi degli utenti che avrebbero potuto sottoporsi alle interviste. La loro scelta non dipendeva semplicemente dal modo in cui i soggetti rispondevano ai criteri prestabiliti, ma anche dagli argomenti d’interesse che, secondo l’opinione dei medici, gli utenti avrebbero potuto recare.
A livello operativo, accadeva che i medici mi anticipassero il nome del paziente descrivendomene brevemente la storia clinica. In seguito annunciavano all’utente l’attivazione dei progetti di ricerca, gli/le introducevano il mio ruolo in essi e lo/la invitavano alla partecipazione. In quel momento mi lasciavano sola con gli interlocutori e io provvedevo a descrivere il lavoro e a illustrarne gli obiettivi e le modalità di conduzione. Dopodiché domandavo loro se fossero disposti a farsi intervistare e, in caso di risposta affermativa, chiedevo di poter fissare un appuntamento secondo le loro esigenze. Nei casi in cui percepissi dubbi o incertezze, ribadivo che la partecipazione non era obbligatoria, invitavo a pensarci approfonditamente, e mi accordavo affinché potessimo risentirci per conoscere la loro decisione in merito82. La richiesta della mediazione dei medici dipendeva dalla consapevolezza che le ricerche avrebbero avuto una diversa autorevolezza se presentate dai dottori. In qualche modo, quindi, il potere esercitato dagli specialisti venne mobilitato consapevolmente per avere accesso agli utenti e alle loro storie.
D’altra parte, per controbilanciare questa dimensione di potere e le operazioni di selezione sopra descritte, insistetti affinché, per la mia etnografia, gli specialisti mi indicassero tra i possibili soggetti intervistabili anche individui che avrebbero teso a escludere. Richiesi di incontrare utenti dalle esperienze atipiche, originali o “poco rappresentative”, spiegando che sarebbero stati indispensabili per il mio lavoro.
Fu così che intervistai venticinque pazienti a cui si aggiunsero tre ragazzi disabili83 non afferenti al Centro. Alcune interviste durarono una quindicina di minuti (riducendosi quasi a radi questionari), mentre altre si protrassero per diverse ore o per più incontri. La varietà delle storie, delle esperienze somatiche, dei processi di soggettivazione e delle pratiche di biocittadinanza nelle quali agivano le malattie rare mi apparve infine straordinaria, rendendomi ancora una volta impossibile ricostruire una rappresentazione univoca delle diverse esperienze dei “malati rari”.
Proprio per questo motivo, prima di procedere a una disamina complessiva del materiale raccolto, decisi di soffermarmi su alcune storie che, a mio avviso, rappresentarono discorsi e pratiche della “rarità” profondamente articolati e assai divergenti tra loro. Affiancando le narrazioni alle osservazioni sul campo, esplorai queste storie per esaminare come la malattia rara agisse nello strutturare l’esperienza di vita e di cura, nell’attivare processi di soggettivazione e biocittadinanza, nell’implementare o limitare l’agency dei soggetti coinvolti.
Attraverso queste analisi volevo esplorare se, e come, tali processi venissero agiti a seconda delle specifiche esperienze di sofferenza, delle relative interpretazioni e dei rapporti particolari instauratisi tra medici e pazienti. Solo dopo essermi fatta un’idea delle molteplici modalità con cui implicavano dinamiche avevano luogo, iniziai a esaminare trasversalmente le narrazioni di tutti gli intervistati.
4.1. Le storie
“Non esiste la sclerodermia. Esistono le sclerodermie”.
La prima paziente che incontrai fu la signora Gialli84, ossia colei che uno dei medici indicò come interlocutrice perfetta per discutere la traccia delle interviste. Era una donna di mezz’età, energica e vivace nonostante la corporatura estremamente minuta (dovuta anche al disagio). La diagnosi biomedica a lei effettuata, ormai più di vent’anni addietro, era di sclerodermia85, una malattia riconosciuta tra le rare in Italia. Io ebbi un colloquio con la signora in uno studio riservatoci dai medici. Poiché ebbi il pieno consenso alla registrazione, potei in seguito trascriverla scrupolosamente.
La signora Gialli attribuì alla sua partecipazione al progetto un impegno morale di stampo formativo, considerando la ricerca un’operazione che avrebbe potuto condurre medici e pazienti a una maggiore comprensione reciproca. Espresse più volte l’entusiasmo per il lavoro e, in generale, per l’insieme di attività e iniziative praticate al Centro, dal quale affermò di essere “affascinata”:
Io comunque sono affascinata da questo reparto qua! La… la freddezza che c’è in reparto dov’ero prima… io sono sempre restata lì tranquilla, tanto i miei problemi poi li raccontavo separatamente al mio dottore, quindi… Però non… non c’è confronto!
In questo modo ella mi diede immediatamente l’impressione di ricambiare la percezione positiva che gli operatori avevano di lei. Ben presto, poi, la consonanza di prospettive tra la signora e i medici apparve superare i complimenti reciproci. La donna, che incentrò la maggior parte del colloquio sulle caratteristiche necessarie a un’appropriata relazione medico-paziente, poneva proprio in questo rapporto uno degli elementi più rilevanti per gli individui affetti da malattia cronico-degenerativa86. Valorizzando la relazione operatore-paziente, ella confermava in parte quanto emerso dalle interviste dei professionisti, ossia il ruolo cruciale assunto da tale interazione per i soggetti con malattia cronica. Nell’approfondire il discorso, però, divenne evidente che la signora Gialli si riferiva quasi esclusivamente al rapporto degli utenti con i medici: nel colloquio non vennero mai citate altre professioni sanitarie a esclusione degli psicologi, ai quali fu attribuito un ruolo prevalentemente negativo. Pur non negando la possibilità che il supporto psicologico si rivelasse utile per alcuni pazienti, infatti, la signora Gialli escluse del tutto il fatto che a lei fosse stato di un qualche sostegno. Per quanto concerneva il rapporto medico-paziente, lungi dal descrivere una relazione quasi amicale o comunque travalicante i consueti confini professionali, la signora si prodigò per delineare modalità relazionali in cui i rispettivi ruoli fossero ben definiti (rispecchiando così le aspirazioni dei medici, come abbiamo visto nel precedente Capitolo). Nell’ottica della mia interlocutrice l’idea di fondo era che i medici, adeguatamente formati all’ascolto, dovessero stipulare con i propri assistiti un vero e proprio “patto”, che avrebbe disposto questi ultimi ad affidarsi ai professionisti e i primi ad assumere un ruolo formativo e a dirigere gli itinerari terapeutici.
Tra i compiti spettanti ai medici, ad esempio, vi sarebbe stato quello di evitare processi di spaesamento in cui i pazienti avrebbero potuto perdersi. Un eventuale allontanamento dallo specialista di riferimento era ammesso solo nel caso in cui fosse quest’ultimo a consigliare altri consulenti ai propri assistiti. Facendo riferimento a esperienze vissute in prima persona, la signora Gialli raccontò:
Perché potrebbe essere una procedura che il paziente considera normale: se io ho una malattia… ho l’influenza vado dal medico della mutua, ma se ho una cosa più seria, comincio a girare tutto il mondo. Ecco. Poi c’è un atteggiamento di esterofilia. Io sento tante amiche che, insomma: “Vuoi mettere? Se noi andiamo all’estero…” [...] C’è la nonna di una mia [conoscente] che [...] lei è andata dal Dr. X, è andata all’ospedale Y, è andata a Pavia, è andata a Milano… e continua, eh! Perché poi non è che dice: “L’ho fatto una volta e poi mai più”. No! Lei continua a avere questo... Così, non ne vieni a capo! [...] sono tutti ansiosi in quella famiglia! E quindi – visto che hanno anche possibilità di spendere – andare a destra e a manca per loro è un’altra attività! [...] Visto che i suoi problemi sono prevalentemente di natura polmonare, era arrivata lì, all’ospedale Y – io so che lì ci sono dei bravi medici – e dico: “Vai all’ospedale Y!” [...] No. “Vogliamo continuare a fare…” Perché poi c’è anche la tendenza… anche questo bisogna dirlo dei pazienti: che quasi è diventata una moda parlare male dei medici: “Ah, sono andata da quello, non va bene… Quell’altro non va bene, mi ha detto…”
A parere della signora, quindi, lo spaesamento dei pazienti con malattia rara (già riconosciuto anche nelle interviste agli operatori) non risultava tanto legato alla difficoltà di individuare specialisti competenti, quanto piuttosto a un atteggiamento quasi compulsivo, un’abitudine, o finanche una “moda” diffusa tra i pazienti. A ciò era necessario porre rimedio attraverso il rapporto di fiducia medico-paziente, che doveva essere espressamente finalizzato a garantire ai professionisti la gestione dei propri assistiti. Per la signora Gialli, infatti, l’ascolto del paziente da parte del medico, l’adozione di un livello comunicativo “adeguato” al proprio interlocutore, il conseguente consolidarsi del rapporto fiduciario dovevano far sì che gli operatori governassero efficacemente le traiettorie terapeutiche dei pazienti. La donna raccontò:
Il Dr. X mi ha detto, in una fase un pochino critica, in cui io non stavo bene: “Signora, stia tranquilla, che se è necessario io la posso mandare anche in altri posti: dall’America ad altri colleghi”. A me quell’informazione lì, in quel momento, è servita tantissimo e dico adesso, riflettendoci: “Vedo tanti pazienti che passano la vita da un medico all’altro: ‘io ho un problema, sì, sono andato da quello, sono andato di là, sono andato di là…’”. Perché la gente ha bisogno di fare questa cosa? Evidentemente perché non è sufficientemente convinta… [...] Allora, bisogna evitare. Forse, proprio una formula del tipo: “Guardi signora, se io mi faccio carico della sua malattia, io sono anche in grado, nel momento in cui verifico che le mie competenze non sono adeguate per coprire tutti i suoi bisogni, io mi sento di indirizzarla da altre parti. Ho la possibilità di farlo… forse meglio di lei, visto che sono medico”.
Anche qui dev’essere il medico a pilotare. Ci sono delle persone talmente fragili che possono anche avere bisogno di un intervento di questo genere, ma dovrebbe sempre essere filtrato dal medico curante. In modo tale che quando il paziente va dallo specialista riferisce le sue ansie, ma lo specialista dovrebbe essere in grado di comunicare con il medico, perché lo specialista è in grado di interpretarle anche, quelle ansie.
Lo specialista, dunque, era per la signora Gialli non solo il supervisore dei percorsi e delle scelte dei pazienti, ma anche l’interprete più adeguato delle loro ansie. Egli avrebbe dovuto assumere la funzione di guida forte e, a tratti, direttiva. È pur vero che nella narrazione della signora il coinvolgimento del medico richiamava talvolta l’idea di una logica della cura87, secondo cui dottore e paziente sarebbero stati due alleati contemporaneamente impegnati nel percorso di cura. D’altra parte, in molte osservazioni della signora Gialli, il ruolo dello specialista arrivava ad assumere toni decisamente imperativi, rispecchiati anche dalle modalità espressive adottate dalla donna (“bisogna evitare”, “dev’essere il medico a pilotare”, “un intervento [...] dovrebbe sempre essere filtrato dal medico”). In queste considerazioni la signora Gialli sembrava auspicare quanto desiderato dagli operatori, ossia relazioni di cura esclusive, totalizzanti, a tratti paternaliste. Mi chiesi quindi se, e in che modo, le esperienze di disagio e di cura esperite dalla mia interlocutrice avessero avuto un ruolo nel consolidare tali concezioni. In questo modo volevo anche comprendere le dinamiche attraverso le qual...

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