La dolcezza delle lacrime
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Il mito di Orfeo

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La dolcezza delle lacrime

Il mito di Orfeo

About this book

Al suono della sua lira si immobilizzano le Simplegadi, le isole mobili che rischiano di far naufragare la nave Argo. La sua voce impedisce a quella malefica delle Sirene di ammaliare gli Argonauti. Nell'Ade, ascoltando il suo canto, le anime dei defunti piangono, le Erinni conoscono per la prima volta la dolcezza delle lacrime, Tantalo dimentica la fame e la sete eterne che lo tormentano. La sua storia con Euridice è la celebrazione più alta del supremo potere di incantamento della musica. Orfeo è il poeta.

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Information

Il mito come «documento1»

Nato a Basilea nel 1815, il giovane Bachofen, discendente di una ricca famiglia di banchieri, studiò filosofia, scienze dell’antichità, storia e giurisprudenza dapprima nella città natale, quindi a Gottinga, ove fu allievo di Hugo, e infine a Berlino, ove studiò con Savigny2.
Ottenuta nel ’42 la cattedra di storia del diritto romano a Berlino, nelle prime ricerche Bachofen trattò temi tradizionali come le legis actiones e il processo formulare, il nexum e la lex Petilia, le garanzie reali del credito, e la sua opera venne giudicata con molto favore dai suoi colleghi e dalla critica. Uno studio sulla lex Voconia fu recensito da Theodor Mommsen, che, constatando il senso storico del giovane autore, rivelò che
lo stesso spirito che abbatte le anguste barriere che dividono fra loro le singole scienze, e che oltre i confini della giurisprudenza e della filologia raggiunge una concezione unitaria della vita romana, […] qui […], in questa ricerca, introduce un nuovo metodo3.
Ma dopo questo immediato favorevole bene auspicante inizio, la sua fortuna accademica cominciò rapidamente a suscitare una serie di diffidenze e di ostacoli. I suoi interessi e i suoi metodi, infatti, determinarono un progressivo distacco dalla tradizione accademica che maturò, per ragioni che è possibile seguire grazie a una sua autobiografia: «Alla giurisprudenza – scrive il giovane studioso – mi ha tratto la filologia, dalla quale sono partito e alla quale la giurisprudenza mi ha ricondotto […] il diritto romano mi è sempre sembrato parte della filologia antica, in special modo di quella latina, e quindi una parte di un grande tutto, che comprende la conoscenza classica della società […]. L’importanza del diritto romano non è mai consistita per me nel fatto che esso fosse un’importante componente del diritto attuale; se ci penso, questa mi sembra una qualità secondaria, per non dire insignificante. Esso mi è sempre apparso argomento degno di riflessione per un’altra sua qualità: quella di svelare una pagina della vita antica senza la quale il quadro di questa vita resta lacunoso e incompleto. La prospettiva di un’applicazione pratica mi ha spinto tanto poco al diritto romano quanto poco mi aveva spinto allo studio delle antichità statuali greche […]. L’antico era lo stimolo che mi incatenava, non ciò che poteva venir usato oggi: quel che volevo studiare era il diritto romano antico, non il diritto romano attuale».
È superfluo sottolineare la portata di una simile affermazione in quel momento e in quella temperie culturale: il totale disinteresse per lo studio del diritto romano come diritto vigente, unito a un’ottica che riconosceva pari dignità ai diversi diritti antichi e rifiutava ogni gerarchia fra fonti giuridiche e fonti letterarie, apriva le vie a prospettive inaccettabili per gli storici del diritto. La rottura con i suoi colleghi romanisti era inevitabile. Attratto da ciò che stava dietro la storia conosciuta, dalla cosiddetta preistoria delle istituzioni e del diritto (considerata indispensabile per comprendere l’antichità senza deformazioni modernistiche), egli riteneva che gli strumenti per leggere questa preistoria e per condurla nel territorio della storia fossero i simboli e i miti.
Se di una successione per fœminas presso i Lici parlano la storia di Erodoto e il racconto mitologico di Eustazio, scriveva, perché credere all’una e non all’altro? Se il racconto di Erodoto fosse andato perduto, nessuno avrebbe creduto al racconto mitologico di Eustazio, e il fatto, che costituisce il nucleo centrale del mito, sarebbe considerato una di «quelle notizie inutilizzabili come residuo senza valore, il cui numero cresce ogni giorno e manifesta il progredire distruttivo della cosiddetta selezione critica del materiale della tradizione»4.
Il mito dunque, concludeva Bachofen, «appare come l’espressione fedele delle regole di vita dell’epoca in cui ha i suoi fondamenti lo sviluppo storico del mondo antico, come la manifestazione del modo di pensare primitivo, come diretta manifestazione storica, quindi come fonte degli avvenimenti passati caratterizzata da grande attendibilità»5.
Esplicitamente, Bachofen dichiarava: «La moderna ricerca storica che si volge con unilateralità alla ricostruzione dei fatti, delle personalità, delle istituzioni di epoche particolari, costruendo una rigida opposizione fra l’epoca storica e quella mitica ed estendendo quest’ultima sproporzionatamente, ha indicato alle scienze dell’antichità una strada lungo la quale non si raggiungerà una comprensione più profonda né più coerente. […] La distinzione tra mito e storia […] non ha nessun senso e nessuna giustificazione nei confronti della continuità dello sviluppo umano. Essa deve essere completamente abbandonata nell’ambito della nostra ricerca»6.
Lungo questa via, i suoi lavori tenteranno, attraverso simboli e miti, di leggere pagine della vita antica diverse fra loro7, ma destinate a confluire, nel 1861, nel grande quadro complessivo del Das Mutterecht. Eine Untersuchung über die Gynaekokratie der Alten Welt nach ihrer religiösen und rechtlichen Natur (1861)8, l’opera alla quale deve la sua celebrità, ma che, al momento della pubblicazione gli costò la scomunica da parte dei grandi storici dell’epoca.
Di matriarcato non era la prima volta che si parlava: oltre ad essere stato evocato dalle ipotesi di stampo filosofico sulle origini9, il potere femminile era stato riscontrato presso gli Indiani Irochesi, studiati già nel Settecento da uno dei primi esploratori etnologi, quali in primo luogo il celebre Lafitau. Avendo rilevato che presso questo popolo (le cui tribù erano organizzate secondo la regola della discendenza matrilineare) le donne avevano un ruolo assai rilevante non solo all’interno della famiglia, ma anche nell’organizzazione sociale, Lafitau, mettendo a frutto gli studi classici ai quali come tutti i gesuiti si era formato, aveva segnalato quella che a suo parere era l’origine storica di questa particolarità: gli Irochesi sarebbero stati i discendenti degli antichi Lidi, i quali, cacciati dalla loro terra da un movimento a catena di popoli, provocato dalla espulsione degli Ebrei dalla terra di Canaan, sarebbero giunti, appunto, negli Stati Uniti (più precisamente nell’attuale Stato di New York)10. E i Lici avevano un’usanza del tutto peculiare. Essi, scrive Erodoto, «prendono il nome dalle madri e non dai padri. Se uno chiede al vicino chi è, questi esporrà la sua genealogia secondo la linea materna e citerà le antenate della madre; se una cittadina sposa uno schiavo, inoltre, i figli sono considerati legittimi; se invece un cittadino, quand’anche fosse il primo di essi, ha una moglie straniera o una concubina, ai figli non è riconosciuto alcun diritto»11.
Ecco, dunque, la spiegazione storica dell’organizzazione matrilineare degli Irochesi: la loro discendenza da quei Lici, che Bachofen considererà una delle prove più significative della storicità di una fase ginecocratica; e ai quali, oltre a un’analisi nel Mutterrecht, dedicherà le pagine piene di fascino di Das lykische Volk. A conferma di quanto detto da Lafitau, inoltre, nell’Ottocento Livingston aveva riscontrato che le donne godevano di poteri politici anche presso i Baronda, in Africa12.Ma con Bachofen il piano del discorso si spostava: il matriarcato non era una fase della storia di alcuni “primitivi”, ma momento reale nella storia dell’Occidente; più precisamente, una fase antecedente al patriarcato, ma successiva a un periodo originario di promiscuità sessuale.
La tesi del Mutterrecht partiva, infatti, da un’ipotesi di fondo: quella che la storia si svolgesse secondo stadi successivi di sviluppo, ciascuno dei quali sarebbe stato un gradino lungo la strada del progresso.
Alle origini – sosteneva dunque Bachofen – la vita è regolata da leggi imposte esclusivamente con la forza fisica, e pertanto imposte dagli uomini alle donne. Il matrimonio non esiste ancora: le unioni, al di fuori di ogni regola, sono determinate dalla violenza maschile, cui la donna deve necessariamente soggiacere perché più debole: è, questo, il periodo dell’«eterismo» o «afroditismo». Ma alla superiorità fisica dell’uomo la donna oppone la sua vocazione religiosa. La donna, infatti, essendo portata verso tutto quello che è soprannaturale, riesce a convertire l’uomo ai suoi valori religiosi e conduce l’umanità dallo stadio selvaggio dell’esistenza verso una fase più alta di civiltà, nella quale ella domina come rivelazione stessa della legge divina. All’odio oppone l’amore, alla violenza la pietà, la moderazione e l’equità. Tendenzialmente conservatrice, aspirando a una società pacifica e stabile, e desiderando migliori condizioni materiali di vita, ella introduce l’agricoltura e tenta di introdurre il matrimonio. Ma il passaggio alla fase del diritto materno non avviene pacificamente: ogni svolta nello sviluppo dei rapporti fra i due sessi, secondo Bachofen, è accompagnata da avvenimenti cruenti. I due princìpi la cui contrapposizione determina lo sviluppo storico (quello maschile e quello femminile) non possono imporsi sull’altro che estremizzandosi. Il progresso è determinato dall’abuso. È la lesione dei suoi diritti, appunto, (che nella fase dell’eterismo caratterizza i rapporti fra i due sessi) che spinge la donna alla resistenza armata, così che all’eterismo succede l’«amazzonismo» o «imperialismo femminile», secondo Bachofen documentato da molti racconti mitici come quello del crimine delle donne di Lemno, la storia delle Danaidi e lo stesso delitto di Clitennestra: a ben vedere, questi miti altro non sono che la rappresentazione di un momento di resistenza armata femminile. Ed è attraverso l’«amazzonismo» che la storia passa alla fase matriarcale di tipo «demetrico», vale a dire pacifico, ordinato secondo la legge della madre terra (Demetra, appunto) e monogamico.
Il matrimonio monogamico, dunque, non corrisponde alla legge naturale. L’umanità è giunta alla mentalità monogamica attraverso un lentissimo sviluppo. «La donna – dice Bachofen – è stata fornita dalla natura di ogni attrattiva […] non certo per invecchiare fra le braccia di un solo uom...

Table of contents

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. LA DOLCEZZA DELLE LACRIME
  6. IL MITO COME «DOCUMENTO»