Nota ai testi critici
La presente suddivisione dei testi critici rispecchia fedelmente la ripartizione degli scritti d’arte di Gabriel Albert Aurier operata da Remy de Gourmont nel 1893 per la raccolta Œuvres posthumes pubblicata dalla società editrice del “Mercure de France”. Unica differenza rispetto all’indice originale, è la diversa distribuzione interna ai singoli capitoli di alcuni testi secondo un’organizzazione cronologica, la quale, tuttavia, rispetta in modo rigoroso l’ordinamento “concettuale” dato dall’intellettuale normanno. Pertanto, ogni qualvolta si è citato un brano tratto dai testi originali di Gabriel Albert Aurier, il numero di pagina indicato si riferisce alle Œuvres posthumes seguito, fra parentesi quadre, da quello relativo alla traduzione qui presentata.
Gian Luca Tusini
Gabriel Albert Aurier
e la divinità dell’artista
Il testo che segue, Essai sur une nouvelle méthode de critique è senza dubbio il più corposo tra i contributi di Aurier qui riuniti a definire caratteristiche e attori del Simbolismo nelle arti figurative. Fu pubblicato incompiuto prima nel Mercure de France nel 1892 (anno della morte) con un titolo che ne prevedeva evidentemente ulteriori sviluppi (Préface pour un livre de critique d’art), e l’anno dopo all’interno delle Oeuvres posthumes sotto il titolo generale di Les Affranchis. Il lettore si accorge ben presto che non si tratta propriamente di un manifesto (quale ad esempio quello di Alphonse Germain, Du symbolisme dans la peinture, 1890 o del più celebre Manifeste du Symbolisme di Jean Moréas di quattro anni prima) ma di un testo (o addirittura di un pretesto), dalla infiammata ma non del tutto costruttiva vis polemica, che concentra un fuoco di fila di insospettata violenza sulle teorie estetiche e sul metodo critico che il positivismo definiva con acribia tassonomico-comparativa.
Aurier mostra chiaramente come ci sia un fronte comune ove riunire le forze e combattere, al di là della (e forse proprio per la) indubbia varietà, per non dire disomogeneità, delle poetiche sia letterarie che artistiche, talora non immuni da misticismi ed esoterismi vari (Josephin Péladan, Rosacrociani, per tacer d’altri), ma soprattutto per la sfumata articolazione delle molte voci critiche che dibattevano nella Francia di fine Ottocento sulle agguerrite riviste d’avanguardia (per il Nostro, soprattutto il Mercure de France di cui fu cofondatore) pur nella consapevolezza che nelle teorie e nelle prassi legate al Simbolismo l’esperienza individuale diventa ethos collettivo, vedendo dunque prevalere valori generalizzanti, plurali ed ideali, lontani da ogni ordine analitico. Si tratta, come si vedrà al termine del suo scritto, di una battaglia non più procrastinabile, ove c’è in gioco il destino dell’uomo e dei suoi principi morali.
Bisognava pertanto iniziare ab imis, proprio per la tendenza di questa nuova sensibilità a sviluppare una visione accordata sui timbri più personali e profondi, rifiutando ogni lenocinio mimetico-naturalistico ma anche ogni paradigma ermeneutico troppo compromesso con le Naturwissenschaften. Il nostro Aurier infatti esporrà altrove la vera e propria pars construens della sua teoria in modo efficacemente gnomico e sintetico, articolando i cinque fondamenti istitutivi dell’arte simbolista (con quella lucidità critica originalmente propositiva che in questo saggio sui massimi sistemi pare carente) nel celebre testo dedicato a Paul Gauguin, Le Symbolisme en Peinture.
In Essai sur une nouvelle méthode de critique Aurier concentra precisamente i suoi strali proprio sull’estetica positivista: il bersaglio sono soprattutto le idee di Hippolyte Taine esposte nella monumentale Philosophie de l’art, frutto del suo ventennale insegnamento all’École des Beaux-arts e pubblicate per la prima volta, in versione ridotta, a Parigi già nel 1865. Inoltre il Nostro non manca di attaccare, pur se in minor misura, le opinioni di Charles Augustin de Sainte-Beuve ed Émile Hennequin, confrontandosi pure, seppur in modo telegrafico, con altre personalità di rilievo.
Posto che, seguendo Schiller, il regno dell’arte e dell’immaginazione perde terreno via via che la scienza progredisce, le prime confutazioni che Aurier muove a Taine riguardano l’uso assoluto del metodo comparativo, proprio di una ragione scientifica solo apparentemente inoppugnabile, contestando l’affidabilità delle stesse scienze naturali, a suo dire figlie illegittime della sola scienza possibile, cioè la matematica: “la mathématique, la seule science à proprement parler, mais bien ces bâtardes obtuses de la science, les sciences naturales”.
Ma il nodo fondamentale è l’inaccettabile opinione che fa dell’opera d’arte un riconoscibile prodotto di un determinato momento storico, nutrita nel continuo e necessario rapporto con altre personalità creative, lungo un processo evolutivo in cui l’ambiente – fisico, morale e sociale – esprime inevitabilmente la propria determinante influenza: dunque, in una parola, la storicità del processo artistico, la sua matrice mondana, addirittura materiale ed immanente. Taine formula perfino la “loi de sa production” che così sintetizza: “l’ouvre d’art est dèterminèe par un ensamble qui est l’ètat gènèral de l’esprit et des moeurs environnantes”.
Il filosofo espone questa norma già dalle prime pagine della sua Philosophie, corroborandola dogmaticamente (“là se trouve l’explication dernière; là rèside la cause primitive qui détermine le rest”), per riprenderla poi più volte lungo la trattazione e giungere finalmente alla dimostrazione. E per illustrare il proprio assunto si serve in modo sistematico di un paradigma fitologico su cui Aurier ironizza, decretandone l’improduttività in termini critici ed estetici e la sua estraneità alle misteriose e complesse ragioni della creazione artistica. Pur concedendo sarcasticamente al botanico il dovere di studiare a fondo ed in modo equanime tanto il cedro così come la muffa (“le cèdre e la moisissure”), Aurier obbietta che il giudizio critico sui fatti artistici imporrebbe una selezione che evidentemente non può trovar posto nella enciclopedica trattazione di Taine, che pur “sans l’avouer explicitement, s’insoucie fort de la valeur esthétique absolue et intrinsèque des oeuvres”.
La tesi di Hippolyte Taine si snoda, pur secondo una ferrea sistematica, con la naturalezza di un racconto assai convincente, narrando di un piccolo seme di arancio – “l’oranger, par exemple” – che, portato dal vento assieme a semenze di altra specie, dovrà trovare un suolo adatto, né troppo friabile né troppo magro, ove possa affondare le radici per un adeguato nutrimento, godendo del refrigerio delle acque sotterranee, contando poi su estati lunghe e corti inverni e soprattutto al riparo da altre piante concorrenti, così come da frane, sconvolgimenti e cala...