
eBook - ePub
Mi metto in vetrina
Selfie, Facebook, Apple, Hello Kitty Renzi e altre "vetrinizzazioni"
- English
- ePUB (mobile friendly)
- Available on iOS & Android
eBook - ePub
Mi metto in vetrina
Selfie, Facebook, Apple, Hello Kitty Renzi e altre "vetrinizzazioni"
About this book
La possibilità di utilizzare facilmente i media per comunicare con gli altri moltiplica i messaggi che ciascun individuo produce su se stesso. Ne è un esempio l'abitudine di scattarsi selfie per diffonderli in Rete, diventata oggi una dilagante pratica di massa. Questo libro si occupa di tale pratica, ma tratta anche di altri importanti fenomeni sociali (dai social network alla propaganda politica) che mostrano con chiarezza come siano in forte crescita i messaggi che le persone producono per parlare di sé e che sono parte di una potente tendenza operante da tempo nelle società occidentali: la «vetrinizzazione sociale».
Frequently asked questions
Yes, you can cancel anytime from the Subscription tab in your account settings on the Perlego website. Your subscription will stay active until the end of your current billing period. Learn how to cancel your subscription.
No, books cannot be downloaded as external files, such as PDFs, for use outside of Perlego. However, you can download books within the Perlego app for offline reading on mobile or tablet. Learn more here.
Perlego offers two plans: Essential and Complete
- Essential is ideal for learners and professionals who enjoy exploring a wide range of subjects. Access the Essential Library with 800,000+ trusted titles and best-sellers across business, personal growth, and the humanities. Includes unlimited reading time and Standard Read Aloud voice.
- Complete: Perfect for advanced learners and researchers needing full, unrestricted access. Unlock 1.4M+ books across hundreds of subjects, including academic and specialized titles. The Complete Plan also includes advanced features like Premium Read Aloud and Research Assistant.
We are an online textbook subscription service, where you can get access to an entire online library for less than the price of a single book per month. With over 1 million books across 1000+ topics, we’ve got you covered! Learn more here.
Look out for the read-aloud symbol on your next book to see if you can listen to it. The read-aloud tool reads text aloud for you, highlighting the text as it is being read. You can pause it, speed it up and slow it down. Learn more here.
Yes! You can use the Perlego app on both iOS or Android devices to read anytime, anywhere — even offline. Perfect for commutes or when you’re on the go.
Please note we cannot support devices running on iOS 13 and Android 7 or earlier. Learn more about using the app.
Please note we cannot support devices running on iOS 13 and Android 7 or earlier. Learn more about using the app.
Yes, you can access Mi metto in vetrina by Vanni Codeluppi in PDF and/or ePUB format, as well as other popular books in Social Sciences & Sociology. We have over one million books available in our catalogue for you to explore.
Information
1.
SELFIE DUNQUE SONO
Daniela Poggiali, infermiera dell’ospedale Umberto I di Lugo di Romagna, è stata arrestata nel 2014 perché accusata di aver ucciso una paziente sottoposta alle sue cure, Rosa Calderoni, mediante un’iniezione di cloruro di potassio e sospettata di aver causato numerosi altri decessi di persone anziane. Adesso la giustizia deve fare il suo corso e la colpevolezza dell’infermiera dev’essere dimostrata, ma è certo comunque che, come ha scritto il giornalista Jenner Meletti, «sono due le immagini trovate nel cellulare dell’infermiera. Nella prima è accanto a una signora appena deceduta, ancora a bocca aperta, nella saletta del “tanatogramma”. Anche l’infermiera apre la bocca, in un’allucinante imitazione. Nell’altro scatto, sempre accanto alla deceduta, alza i pollici in segno di vittoria e ride» (2014, p. 25).
Il bisogno di procurarsi il piacere che deriva dall’azione d’immortalarsi in una fotografia, dunque, non si ferma neppure davanti alla morte. A volte l’esigenza di documentare nel miglior modo possibile la propria presenza porta a ignorare un evento drammatico che è accaduto, il senso profondo della situazione che si sta vivendo. Così, ci sono stati dei giovani come gli statunitensi Chelsie e Jared che si sono messi in posa con noncuranza di fianco a un loro amico appena morto di overdose, oppure una ragazza come Breanna Mitchell, che si è fotografata con un gran sorriso davanti al campo di concentramento di Auschwitz.
L’atto di realizzare una fotografia di se stessi, da soli o più spesso insieme ad altri, di solito mediante uno smartphone, che consente anche di diffonderla immediatamente caricandola su un social network, è diventato, dunque, una specie di moda di massa che coinvolge tutti. Anche i potenti della Terra, come Papa Francesco, Obama o Merkel, si fotografano e si lasciano fotografare esattamente come le persone comuni. Probabilmente, allora, non ci troviamo davanti a una moda destinata a estinguersi in breve tempo, ma a qualcosa che è profondamente innestato all’interno della cultura sociale. È importante pertanto interrogarsi sulle ragioni di quel travolgente successo che la pratica del selfie sta oggi ottenendo.
Il selfie come “monumento per tutti”
Le radici del selfie sono evidentemente collocate all’interno della storia delle pratiche fotografiche. Qui infatti è esistito da parecchio tempo l’autoscatto, il quale richiedeva di solito complesse procedure per sistemare l’apparecchio fotografico e andare a collocarsi perfettamente in posa davanti a esso. Ma, soprattutto, l’autoscatto è stato tradizionalmente considerato una pratica privata, in quanto consistente in un rapporto solitario tra l’apparecchio e chi si voleva fare una fotografia. Anche perché solitamente nell’autoscatto la fotografia veniva vista da chi si fotografava e da pochi intimi. Persino quando i soggetti fotografati erano più d’uno la situazione non era molto differente. L’autoscatto diventava pubblico soltanto quando veniva realizzato in un ambiente esterno e si chiedeva ad esempio a un passante di fotografare. In tal caso, però, non poteva più essere considerato un autoscatto, in quanto rientrava in quella che era l’abituale prassi di scatto di una fotografia.
Gli sviluppi che hanno riguardato negli ultimi anni la tecnologia fotografica hanno notevolmente modificato questa situazione. L’autoscatto è stato reso pubblico dall’arrivo di smartphone capaci di scattare delle fotografie di buona qualità. Le persone così hanno potuto portare sempre con sé un apparecchio in grado di documentare tutti gli eventi della loro vita. Ma è stato importante anche l’arrivo della possibilità di avere su tale apparecchio un obiettivo frontale, che permette di vedere sullo schermo il ritratto che si sta facendo di sé. Consente cioè di realizzare miracolosamente quello che era sempre stato considerato impossibile: vedere ciò che gli altri stanno vedendo nello stesso momento di noi. Consente dunque all’individuo che fotografa di sentirsi attivo, perché può pienamente controllare la sua immagine mentre si fissa sullo schermo. Naturalmente per perseguire lo scopo che tale immagine alla fine sia proprio quella che desidera.
Va considerato anche l’importante contributo fornito a tale proposito dalle numerose applicazioni informatiche che oggi sono disponibili e che consentono di modificare facilmente le proprie immagini digitali, a cominciare da Instagram. Infine, è fondamentale la funzione svolta dai social network, che permettono di condividere facilmente con grandi quantità di persone qualsiasi tipo d’immagine. Lo strumento con il quale è possibile scattare delle fotografie, dunque, oggi si configura anche come un mezzo di comunicazione totalmente connesso con il Web.
Queste innovazioni tecnologiche permettono alle persone di assecondare attraverso la pratica del selfie quella tendenza verso la “vetrinizzazione” di sé che ha avuto negli ultimi decenni un intenso sviluppo nelle società occidentali. Come ho spiegato in un altro volume (Codeluppi, 2007), la “vetrinizzazione” è frutto di quell’impellente necessità che oggi le persone sentono di dover soddisfare al fine di costruire e gestire la propria identità: mettersi adeguatamente “in scena” all’interno delle numerose vetrine in cui sono costrette a esporsi nella loro esistenza sociale e mediatica. Cercano pertanto di catturare l’attenzione degli altri e di valorizzare se stesse per ottenere un giusto riconoscimento. Si presentano al meglio e per farlo si adeguano a quegli standard di rappresentazione sociale che sono prevalenti nella società, a volte anche modificando le immagini con cui si mostrano agli altri.
Il selfie, dunque, consente di “vetrinizzarsi”. Rappresenta pertanto un potente strumento che oggi tutti gli individui hanno a disposizione per poter certificare pubblicamente la propria esistenza all’interno del Web. Evidentemente, però, a poter essere certificata attraverso la pratica del selfie è anche l’intera esistenza sociale delle persone. Si è riconosciuti e apprezzati da parte degli altri e dunque si può più facilmente costruire, sviluppare e rafforzare la propria identità.
Ma il selfie, anche se presenta una natura differente rispetto all’autoscatto, è comunque una fotografia. Dunque, per comprenderlo appieno, è necessario analizzare i significati che sono stati attribuiti storicamente nella cultura sociale al medium fotografico. E da questo punto di vista è importante considerare la relazione che la fotografia ha saputo instaurare con la morte. Da un lato, infatti, essa offre apparentemente agli esseri umani la possibilità di una specie d’immortalità e dunque qualcosa che aiuta a convivere con l’angosciante idea che si è destinati prima o poi ad abbandonare la vita terrena. Dall’altro lato, però, è proprio essa a ricordare agli esseri umani la loro necessità di un costante confronto con l’idea di morte. La questione è complessa e non può certamente essere esaurita in questa sede. Merita però di essere affrontata almeno in parte, perché ha notevoli connessioni con il ruolo sociale che viene svolto oggi dal selfie. E dobbiamo a questo punto ricordare che i sociologi classici, a cominciare da Werner Sombart, hanno spiegato come le comunità sociali tradizionali avessero trovato una soluzione soddisfacente al problema della convivenza degli esseri umani con la paura della morte, perché erano in grado di attribuire una sensazione d’immortalità a tutti coloro che ne facevano parte. Erano infatti dotate di una notevole stabilità nel tempo e per gli individui sentirsi pienamente integrati all’interno di una di esse voleva dire continuare simbolicamente a vivere anche dopo la propria scomparsa. I sociologi classici hanno anche messo in luce però come il processo di modernizzazione abbia comportato la progressiva sostituzione della vita in comunità con quella all’interno della società e come questa, organizzazione di massa e in costante cambiamento, non fosse più in grado di garantire agli individui il senso d’immortalità proprio della vita comunitaria.
È stato pertanto necessario che gli esseri umani cercassero un’altra soluzione per questo problema. La borghesia, arrivata al potere nell’Ottocento, l’ha trovata, ma soltanto per alcune persone: quelle maggiormente importanti e meritevoli perciò di non scomparire dalla considerazione collettiva. Ha impiegato a tale scopo il monumento, sebbene questo, il cui nome deriva dal termine latino monumentum («ricordo»), fosse sempre esistito. Anticamente, i principali monumenti erano quelli funerari, mentre durante l’Impero romano si sono moltiplicati quelli dedicati agli imperatori e alle loro imprese, anche se tali personaggi erano adorati, più che come individui, in quanto personificazioni della grandezza dell’impero stesso. È stata però la borghesia, che aveva una forte necessità di legittimarsi socialmente, a fare un uso massiccio del monumento per i suoi personaggi più significativi. Così, nell’Ottocento e in gran parte del Novecento, si è tentato di rendere immortale la vita di alcuni esseri umani considerati particolarmente meritevoli.
Naturalmente, a fianco del monumento era disponibile anche il ritratto pittorico, uno strumento utilizzato da molto tempo per riprodurre e fissare nel tempo l’immagine di una persona. Nei secoli precedenti, però, il ritratto (che fosse dipinto, disegnato o miniato) era riservato a quei pochi soggetti che se lo potevano permettere e che di solito appartenevano all’élite aristocratica. Nella seconda metà del Settecento invece, con la crescita del potere economico e sociale detenuto dalla borghesia, i salotti delle abitazioni benestanti di Parigi e Londra hanno cominciato a riempirsi di ritratti a basso costo dei padroni di casa, come miniature e medaglioni. Mentre spesso le signore portavano al collo un cammeo con il proprio ritratto.
Ma è stata soprattutto la fotografia, nel secolo successivo, a diffondere in maniera significativa nella società la possibilità d’immortalare la propria immagine. Ha dunque offerto a molte persone di poter fare una vera e propria promozione pubblica di sé. La fotografia infatti, a partire dalla sua nascita il 7 gennaio 1839, quando François Arago ha annunciato l’invenzione della dagherrotipia all’Accademia delle Scienze di Francia, si è presentata sin dall’inizio come una specie di “monumento per tutti”, cioè come uno strumento che consente di lasciare una testimonianza durevole di sé. È in grado perciò di attribuire all’individuo una sensazione d’immortalità e non è un caso dunque se quello che può essere considerato il primo selfie della storia sia un dagherrotipo realizzato a Philadelphia da Robert Cornelius proprio nello stesso anno in cui è nata la fotografia. Il medium fotografico sembra pertanto contenere al suo interno sin dall’inizio una naturale tendenza a spingere il fotografo a dirigere l’obiettivo dell’apparecchio anche verso se stesso, per produrre un’immagine in cui riconoscersi e che possa essere conservata e mostrata agli altri.
Nell’Ottocento, l’evoluzione delle tecniche fotografiche ha consentito un abbassamento progressivo dei costi e ciò spiega il successo che il ritratto fotografico ha avuto, dapprima come abitudine riservata all’alta borghesia e ai personaggi più importanti dell’epoca, che a Parigi si facevano fare il ritratto ad esempio dal celebre fotografo Nadar, e poi come pratica di massa, resa possibile tra l’altro dalle economiche cartes de visite, piccoli biglietti da visita fotografici brevettati da Adolphe Disdéri nel 1854. Negli Stati Uniti, invece, l’ambrotipia, procedimento brevettato nel 1854 da James Ambrose Cutting, ha consentito di fotografare numerosi soldati della guerra di Secessione, mentre le macchine fotografiche portatili Kodak, commercializzate a soli 25 dollari da George Eastman a partire dal 1888, hanno sostanzialmente reso la prassi fotografica alla portata di tutti. Si spiega dunque perché la fotografia sia così progressivamente diventata, come ha affermato negli anni Sessanta il sociologo francese Pierre Bourdieu (2004), un’«arte media», in quanto collocata in una posizione intermedia tra i linguaggi artistici tradizionali e le forme espressive di basso livello, ma anche un importante strumento per documentare tutte le situazioni che vengono vissute quotidianamente dalle persone.
Il selfie contemporaneo, pertanto, non fa altro che sviluppare la capacità posseduta da sempre da parte della fotografia di attribuire una durata e una diffusione sociale a eventi di natura personale. La fotografia cioè, una volta che l’evento si è concluso, continua a farlo vivere attraverso la riproduzione stabile che ne offre e anche il selfie aiuta pertanto le persone ad “eternizzarsi”, ovvero a sentirsi meno effimere in un mondo in rapidissimo cambiamento. Ma quello che è realmente importante è che oggi lo possono fare da sole. Sono cioè in grado di rappresentarsi autonomamente e non hanno più la necessità di avere un “mediatore” come il fotografo, che detiene il potere di scattare la fotografia quando e come vuole e opera delle scelte tecniche in grado d’influenzare pesantemente il risultato finale (inquadratura, luminosità, tipo di pellicola, ecc.). Va considerato, infatti, che l’immagine fotografica non può essere vista come una copia esatta della realtà. È invece il risultato di un’interpretazione soggettiva, esattamente come un dipinto. Vale a dire che di solito la fotografia viene realizzata da un soggetto che è mosso da specifici obiettivi, i quali possono anche non corrispondere a quelli del soggetto fotografato. E questi comunque si presenta in apparenza a uno sguardo esterno come passivo ed esposto al potere di chi lo sta fotografando.
Non è un caso perciò che gli psicologi abbiano spesso considerato l’atto di fotografare simile a quello tradizionale del cacciare. Entrambe le azioni, infatti, sono espressione di quell’istinto predatorio che appartiene a tutti gli esseri umani. Derivano dal desiderio di catturare e dominare la realtà. Si spiega così perché alcuni membri delle tribù primitive, quando venivano fotografati dai primi antropologi occidentali che li avevano individuati, avessero istintivamente la paura che l’atto di essere fotografati potesse sottrarre loro l’anima. Il fotografo dunque s’impone sul soggetto, che viene simbolicamente ucciso. Cioè, come ha affermato Susan Sontag nel volume Sulla fotografia, «fotografare una persona equivale a violarla, vedendola come essa non può mai vedersi, avendone una conoscenza che essa non può mai avere; equivale a trasformarla in oggetto che può essere simbolicamente posseduto. Come la macchina fotografica è una sublimazione della pistola, fotografare qualcuno è un omicidio sublimato, un omicidio in sordina […]» (2004, p. 14).
Va considerato naturalmente che l’essere umano fotografato può a sua volta cercare di difendersi mettendosi in posa e cambiando così il suo aspetto. Cioè “fabbricandosi” al momento un altro corpo. Ma si tratta comunque di una difesa “debole” e che non risolve il problema consistente nel fatto che «in generale, nella fotografia rimane sempre un tasso più o meno elevato di non riconoscibilità, perché l’immagine che osserviamo ha un che di falso, di estraneo» (Ferrari, 2002, p. 157). Vale a dire che spesso di fronte alla propria fotografia le persone provano una sensazione di disagio, dovuta principalmente al non ritrovare all’interno dell’immagine che hanno davanti quello che pensano del proprio corpo.
La fotografia può ottenere i risultati di cui abbiamo parlato perché possiede la straordinaria capacità di isolare un singolo momento all’interno della continuità dell’esistenza. Dunque, ferma il tempo, anche se solamente per una frazione di secondo, e consente di catturare e conservare i momenti importanti della vita delle persone. Certifica perciò che un determinato soggetto è stato immobile in un certo momento davanti all’obiettivo e all’occhio del fotografo e si è fissato nel tempo. Ma, allo stesso tempo, rende “irreale” ciò che dovrebbe catturare, perché simula un’esistenza che nel momento in cui la si guarda non è più presente. Come ha sostenuto infatti Roland Barthes nel volume La camera chiara, la fotografia mostra qualcosa che non esiste più, ma mostra anche «che quell’oggetto è effettivamente esistito e che è stato lì dove io lo vedo» (1980, p. 115). Però, non restituisce alla vita quello che non esiste più, ma fa in un certo senso ritornare qualcosa che rimane cadavere. Con la fotografia, dunque, ci troviamo di fronte a un rapporto di natura dialettica tra la vita e la morte, ovvero tra ciò che si ripresenta continuamente e ciò che non esiste più.
La fotografia dall’analogico al digitale
Il selfie solitamente viene realizzato con un apparecchio totalmente elettronico ed è dunque il caso di chiedersi se ciò ne influenzi la natura. È evidente infatti che con il passaggio dalla fotografia analogica a quella digitale l’identità del mezzo fotografico ha subito notevoli trasformazioni. Si può sostanzialmente sost...
Table of contents
- Copertina
- Frontespizio
- Copyright
- INDICE
- INTRODUZIONE
- 1. SELFIE DUNQUE SONO
- 2. FACEBOOK, TWITTER E YOUTUBE: LA VETRINA DIGITALE
- 3. APPLE COME STATUS SYMBOL
- 4. NUOVE FORME DI STATUS SYMBOL
- 5. POLITICA, MEDIA, DIVISMO: DA MUSSOLINI A RENZI
- BIBLIOGRAFIA