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Le fondamenta retoriche della società
Morte e resurrezione di una teoria dell'ideologia
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Le fondamenta retoriche della società
Morte e resurrezione di una teoria dell'ideologia
About this book
Attraverso un serrato confronto con la filosofia strutturalista e la tradizione marxista, Ernesto Laclau indaga le produzioni retoriche e discorsive di cui la società è innervata, nella convinzione che esse non costituiscano soltanto i fondamenti dell'ordine sociale, bensì i dispositivi che articolano il campo entro cui ogni vita si trova da sempre messa in gioco. La scommessa che anima l'intero volume è che solo un'attenta disamina dell'intensità e della labilità di simili composizioni possa dischiudere un'inedita prospettiva di intervento politico.
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Information
Topic
FilosofiaSubtopic
Storia e teoria della filosofia1.
Morte e resurrezione
della teoria dell’ideologia
1. In un recente articolo consacrato alle teorie delle ideologie2, Slavoj Žižek descrive gli approcci contemporanei disponendoli attorno ai tre assi identificati da Hegel: dottrina, credenza e rito – in altri termini, «l’ideologia come un insieme di idee (teorie, convinzioni, credenze, procedure argomentative); l’ideologia nella sua esternalità, cioè la sua materialità, gli “apparati ideologici dello stato”; e infine l’ambito più elusivo, l’ideologia “spontanea” che lavora al cuore della “realtà” sociale stessa»3. Prende come esempio il caso del liberalismo: «è una dottrina (sviluppatasi a partire da Locke fino a Hayek) che si materializza in rituali e apparati (stampa, elezioni, mercato, ecc.) e si attiva nell’(auto)esperienza “spontanea” dei soggetti come “individui liberi”»4. In tutti e tre i casi, Žižek riscontra un’essenziale simmetria di sviluppo: a un certo punto la frontiera che divide l’ideologico dal non-ideologico sbiadisce, causando un’inflazione del concetto di ideologia tale da fargli perdere ogni precisione analitica. Per quanto concerne l’ideologia come “sistema di idee”, l’unità del sistema stesso dipende dalla possibilità di trovare un punto a esso esterno, a partire dal quale si potrebbe elaborare una critica dell’ideologia (ricorrendo, per esempio, a una lettura sintomatica per mostrare i veri interessi a cui corrisponderebbe una data configurazione ideologica). Tuttavia, come illustra Žižek ricorrendo a esempi tratti dai lavori di Barthes, Paul de Man, Ducrot, Pêcheux, nonché dai miei, è proprio l’assunzione di questo “grado zero” ideologico di una pura realtà extra-discorsiva a costituire l’errore ideologico per eccellenza. Nel caso degli “apparati ideologici di stato” – o, nella versione foucaultiana, delle procedure disciplinari operanti al livello del micro-potere – troviamo versioni simmetriche della stessa petitio principii: l’unità degli apparati di stato non richiede forse il collante dell’ideologia che si suppone essi possano spiegare? Per quanto riguarda le tecniche disciplinari, la loro stessa dispersione non necessita forse della costante ricomposizione della loro articolazione, tanto da esigere il ricorso a un medium discorsivo che screditi ogni chiara distinzione tra ideologico e non-ideologico? E la situazione è ancor più evidente se ci spostiamo nel campo delle credenze: qui ci troviamo, fin dal principio, di fronte a una pretesa realtà “extra-ideologica” il cui funzionamento stesso dipende dai meccanismi appartenenti al dominio ideologico:
[...] nel trattare più approfonditamente questi presunti meccanismi extra-ideologici che regolano la riproduzione sociale, ci troviamo immersi nel già menzionato dominio oscuro nel quale la realtà diventa indistinguibile dall’ideologia. Ciò che tratteremo adesso è quindi la terza inversione della non-ideologia nell’ideologia: diveniamo all’improvviso consapevoli del “per sé” dell’ideologia in azione proprio nell’operare effettivo dell’“in sé” extra-ideologico.5
Giustamente Žižek riconosce qui la fonte principale del progressivo abbandono dell’“ideologia” come categoria analitica: «una nozione che in qualche modo diviene “troppo forte” inizia a coinvolgere tutto, compreso lo stesso terreno neutrale ed extra-ideologico sui cui confrontare e individuare le distorsioni ideologiche. È come dire: l’analisi del discorso non giunge alla definitiva conclusione che l’ordine del discorso come tale è intrinsecamente “ideologico”?»6. Vediamo così quale logica governa la dissoluzione del terreno classicamente occupato dalla teoria dell’ideologia. Quest’ultima muore proprio a causa del suo stesso successo imperialista. Il declino a cui assistiamo non è il risultato di un restringimento del campo operativo di un simile oggetto teorico, bensì del suo opposto: la sua espansione indefinita, conseguente all’esplosione delle dicotomie che – entro una certa problematica – la confrontavano ad altri oggetti. Categorie quali “distorsione” e “falsa rappresentazione” avevano senso fintanto che un qualcosa di “vero” o “non distorto” era considerato alla portata dell’uomo. Ma non appena diventa irraggiungibile un punto di vista extra-ideologico qualsiasi, seguono necessariamente due effetti: in primo luogo, i discorsi che organizzano le pratiche sociali sono tra loro incommensurabili e, al contempo, posti su un medesimo piano; in secondo luogo, nozioni come “distorsione” e “falsa rappresentazione” perdono ogni significato.
Ma dove ci conduce tutto questo? Dovremmo accantonare del tutto nozioni come “distorsione”, “falsa coscienza”, e via di seguito? La difficoltà risiede nel fatto che, se noi ci limitassimo a procedere in tal modo, finiremmo in un circolo vizioso tale per cui le conclusioni della nostra analisi negherebbero le sue premesse. Consideriamo per un attimo le ragioni del declino della “critica dell’ideologia”, quale approccio espresso nelle sue forme più pure dal marxismo classico e oggi protrattosi, con Habermas, nell’ideale regolativo di una comunicazione non distorta. Il fondamento di una simile critica risiede nel postulare l’accesso a un punto che – almeno tendenzialmente – permetta alla realtà di esprimersi senza mediazioni discorsive. È la piena positività e afferrabilità di tale punto a garantire un fondamento logico all’intera operazione critica. Ora, la critica di questo approccio inizia dalla negazione di un simile piano metalinguistico, attraverso la dimostrazione che i dispositivi retorico-discorsivi di un testo sono irriducibili e che, di conseguenza, non vi è alcun terreno extra-discorsivo dal quale possa procedere una critica dell’ideologia. (Questo non significa, beninteso, che la critica ideologica sia impossibile – quel che è impossibile è una critica dell’ideologia in quanto tale; ogni critica sarà necessariamente intra-ideologica).
Quel che non è solitamente percepito, tuttavia, è che una simile critica della “critica dell’ideologia” può procedere in due direzioni differenti, le quali conducono a risultati contraddittori. La prima conduce a quel che si potrebbe chiamare neo-positivismo e neo-oggettivismo. Se accantonassimo del tutto la nozione di “distorsione” e affermassimo che vi sono solo “discorsi” incommensurabili, staremmo semplicemente trasponendo la nozione di una positività piena da un terreno extra-discorsivo alla pluralità del campo discorsivo: una simile trasposizione, infatti, conserva integralmente l’idea di una piena positività. Allo stesso modo in cui abbiamo un positivismo naturalista, possiamo averne uno semiotico o fenomenologico. Se, dall’altra parte, affermassimo che l’idea stessa di un punto di vista extra-discorsivo coincide con l’illusione ideologica per eccellenza, allora il concetto di “distorsione”, lungi dall’essere abbandonato, diverrebbe piuttosto il fondamento per la demolizione di ogni operazione metalinguistica. In tal caso la novità risiede nel fatto che, a questo punto, è la stessa nozione di una chiusura extra-discorsiva a costituire una rappresentazione distorta. Si vedranno più avanti le modalità con cui il concetto di “distorsione” dovrà essere riformulato per poter adempiere questo nuovo compito. Basterà anticipare, per il momento, che questa inedita formulazione potrebbe condurre all’eventuale ricomparsa di un concetto di ideologia non più guastato dagli ostacoli di una teoria essenzialista.
Concentriamoci per un attimo sulla teoria althusseriana dell’ideologia. Per Althusser, l’ideologia è eterna. I meccanismi che producono il soggetto attraverso il misconoscimento sono inscritti nell’essenza stessa della riproduzione sociale. Non vi è alcuna speranza di sfuggire ai giochi di rispecchiamento implicati nell’interpellazione ideologica. Per lui, tuttavia, l’ideologia si costituisce come un oggetto attraverso la sua opposizione alla scienza: per determinare la distorsione provocata dalle rappresentazioni ideologiche, nonché il carattere alienato del soggetto, l’analista deve sapere in che cosa consiste realmente la riproduzione sociale – un sapere che include la comprensione del meccanismo di rispecchiamento. Noi sappiamo che la Storia è un processo senza soggetto, proprio perché siamo in grado di oltrepassare scientificamente l’alienazione soggettiva.
Questo non manca di lasciarci, tuttavia, con un problema all’apparenza insolubile. Tutto dipende dall’oggetto del misconoscimento o, piuttosto, dalla natura e dall’estensione del misconoscimento stesso. Se ciò che è misconosciuto coincidesse con un particolare tipo di relazione sociale, potremmo senza difficoltà immaginarne un altro che non sia oggetto di alcun misconoscimento: è quanto implicato dalla concezione classica di emancipazione. Ma Althusser afferma un’altra cosa, ossia che abbiamo a che fare con un misconoscimento necessario e indipendente da qualsiasi tipo di configurazione sociale, benché in questo caso a essere misconosciuto è il principio della strutturazione sociale in quanto tale, la chiusura provocata da ogni sistema simbolico. Ciò comporta un problema ulteriore: nel momento in cui la chiusura in quanto tale necessita del misconoscimento (in altre parole, del suo opposto), ciò significa che è la stessa idea di chiusura a costituire la più elevata forma di misconoscimento. O il misconoscimento è riducibile, sotto uno sguardo imparziale, a una funzione oggettiva, oppure questo sguardo non è imparziale ma s’inscrive nel misconoscimento universale – nel qual caso, ciò che si presenta come l’opposto del misconoscimento appartiene all’essenza di quest’ultimo. Potrei mantenere una solida frontiera tra la chiusura (l’auto-riproduzione dei rapporti sociali) e le necessarie forme di misconoscimento che la accompagnano, solo nella misura in cui vi sia un punto meta-linguistico privilegiato dal quale la chiusura si mostrerebbe senza alcun passaggio soggettivo attraverso il misconoscimento. Ma se il punto privilegiato dovesse rivelarsi illusorio, il misconoscimento contaminerebbe la chiusura; di conseguenza, con un simile misconoscimento, la distorsione diverrebbe universale, mentre il suo altro (la chiusura, la trasparenza a sé) coinciderebbe con la principale forma di misconoscimento. In questo caso, la distorsione sarebbe costitutiva dell’oggettività sociale. Ma come concepire una forma di distorsione che rimarrebbe tale mentre si troverebbe annullata ogni distinzione tra la distorsione e quel che è distorto? Ecco il problema che resta da affrontare.
2. Il concetto di distorsione costitutiva si presenta, a prima vista, come una contradictio in adjecto. Apparentemente, una distorsione non può essere costitutiva, poiché un effetto distorcente può essere percepito del tutto solo a partire da una significazione primaria che non sia distorta a sua volta. Ma una simile conclusione esaurisce davvero tutte le possibilità logiche dischiuse da un rapporto di distorsione? Consideriamo attentamente la questione. È certo caratteristico di tutte le distorsioni il presentarsi di una significazione primaria sotto una “falsa” luce. L’operazione implicata da tale presentazione – nascondimento, deformazione, o altro – è una cosa che, per il momento, possiamo lasciare indeterminata. Essenziale per una distorsione è che, in primo luogo, una significazione primaria sia presentata come qualcosa di differente da quello che è; secondariamente, che l’operazione distorcente – e non solo i suoi effetti – sia in qualche modo visibile. L’ultimo punto è di importanza cruciale: se l’operazione distorcente non lasciasse alcuna traccia nei suoi effetti, finirebbe per costituire pienamente una nuova significazione. Ma in tal modo avremmo a che fare con una distorsione costitutiva. In altri termini, staremmo ipotizzando una significazione originaria (così come è richiesto da ogni distorsione) nel momento stesso in cui la rifiutiamo (poiché la distorsione è costitutiva). In tal caso, la sola possibilità logica per articolare queste due dimensioni, all’apparenza antinomiche, è che la significazione originaria sia illusoria, e che l’operazione distorcente consista proprio nel creare una simile illusione – ossia nel proiettare, entro qualcosa di sostanzialmente diviso, l’illusione di una pienezza e di una trasparenza a sé del tutto mancanti. Ci si permetta di aggiungere qualcosa in merito all’oggetto di tale proiezione e alla visibilità di questa proiezione in quanto tale.
Nel corso della precedente discussione ho adoperato tre concetti necessariamente interrelati: “significazione originaria”, “trasparenza a sé” e “chiusura”. È tempo di specificare meglio la natura di questa connessione. Qualcosa è originario nella misura in cui non deve uscire da sé per costituire quello che è; vi è trasparenza a sé fintanto che le sue dimensioni interne presentano tra loro una relazione di rigida solidarietà; ed è chiuso in se stesso finché l’insieme dei suoi “effetti” può essere determinato senza andare oltre la sua significazione originaria. Come possiamo vedere, ciascuna di queste nozioni, senza essere un sinonimo esatto delle altre due, richiede la loro presenza per poter realizzare la propria significazione. Ed è precisamente questa piena significazione a essere dislocata dall’asserzione di una distorsione costitutiva: nel primo e nel terzo caso, sia l’“originarietà” che il carattere interno degli “effetti” si trovano perturbati dalla mediazione discorsiva, mentre l’opacità delle dimensioni interne dell’entità chiusa in se stessa interrompe la propria trasparenza a sé.
Ad ogni modo, ciò mostrerebbe soltanto come questa dislocazione sia costitutiva, e come la stessa nozione di una chiusura metafisica debba essere messa in questione7. Ma la nozione di distorsione implica qualcosa in più di una mera dislocazione, ossia che in essa abbia luogo un qualche tipo di nascondimento. Ora, come si è visto, a essere nascosta è proprio la definitiva dislocazione di quanto si presenta come identità chiusa, mentre l’azione di nascondimento consiste nel proiettare su questa identità la dimensione di chiusura che le manca. Da qui due importanti conseguenze:
1. La prima è che questa dimensione di chiusura è qualcosa di effettivamente assente – se essa fosse presente, vi sarebbe una rivelazione anziché una proiezione, e non vi sarebbe alcun nascondimento. Siamo qui confrontati con la presenza di un’assenza, a fronte della quale l’operazione ideologica per eccellenza consiste nell’attribuire questa impossibile funzione di chiusura a un particolare contenuto che le è radicalmente incommensurabile. In altri termini, l’operazione di chiusura è impossibile sebbene, al contempo, necessaria: impossibile a causa della disloca...
Table of contents
- Prefazione. Per una nuova retorica del conflitto
- Introduzione
- 1. Morte e resurrezione della teoria dell’ideologia
- 2. Sui nomi di Dio
- 3. Articolazione e limiti della metafora
- 4. Politiche della retorica
- 5. Antagonismo, soggettività e politica
- 6. Etica, normatività ed eteronomia della legge
- 7. Perché costruire un “popolo” è il principale compito della politica radicale
- 8. Un’etica dell’impegno militante
- 9. Nuda vita o indeterminazione sociale?
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