VII
Singolarizzazione,
variazione, lontananza
1
Questo effetto di intensificazione che promuove un paese in paesaggio chiede di essere dispiegato. Vi contribuiscono almeno tre fattori, che si ordinano tra loro e cooperano – che si possa concepire un sistema del paesaggio? Il paesaggio procede innanzi tutto da una singolarizzazione che lo porta alla mia attenzione: all’improvviso, in macchina, non sono più tentato di passare oltre, di continuare per la mia strada, vorrei non vedere più sfilare le cose, e vorrei fermarmi… Ma si tratta solo di «attenzione»? Perché questo singolare, accentuando in sé ciò che rende unico, che non possiamo trovare che lì e di cui sappiamo, improvvisamente, con un sapere indubitabile, che non lo ritroveremo altrove, fa emergere questo paesaggio dall’anonimato e dall’inerzia delle cose: non solo lo strappa alla piattezza di una estensione monotona che parrebbe senza fine, ma soprattutto rende saliente, o «risveglia», attraverso ciò che fa apparire in lui d’individuazione, ciò che il continuum dei luoghi e dei giorni ha nascosto: l’improvvisa sensazione di essere effettivamente qui, da-sein – in un «qui» che emerge – e di esistere.
Ora, questa stessa singolarizzazione del paesaggio è risultativa. Un paesaggio entra in tensione (mette sotto tensione) accentuando lo scarto non solo con il «paese» che lo circonda, da cui si singolarizza, ma prima di tutto al suo interno o nel suo tra. È questa la variazione interna che condensa in lui una polarità, che concentra in lui una potenzialità, e vi produce attivazione: quest’ultima sarà vettrice di vitalità. L’alternanza non crea solo un respiro ma porta anche al rinnovamento. «Vivere» (grazie alla variazione) / «esistere» (grazie alla singolarizzazione): il paesaggio fa contemporaneamente l’uno e l’altro. Dovremo pensare a distinguere l’uno dall’altro, e come legare i due.
Infine, anch’essa vettrice di paesaggio, c’è la lontananza che il paesaggio apre, dispiegandovi dell’«aldilà», ma in questo mondo, per cancellazione e per attenuazione, contribuendo così alla sua dimensione di aura: schiude i suoi tratti dai loro caratteri limitati e li rende evasivi, perché fattori di un superamento vago, che non ha nome, sollevando dell’aspirazione. Ora, questa tracimazione e trasformazione in qualcosa d’altro non è forse il proprio della vita in ciò che costituisce il suo divenire? In ogni caso, in questo trinomio ci sono delle condizioni che ogni paesaggio, credo, deve sottoscrivere; e, allo stesso tempo, sono queste condizioni a far sì che il paesaggio non dipenda solo da qualche artificializzazione soggettiva o, diremo, culturale, ma che proceda da un effetto proprio (o che possiede in proprio); e si qualifichi effettivamente come risorsa.
2
C’è paesaggio, prima di tutto, quando in esso si afferma del singolare; ma che cosa vuol dire qui «singolare»? Il singolare non è l’estremo: come sappiamo, non è detto che una veduta estrema (di deserto, di mare, di montagna) faccia paesaggio; e non è neppure lo straordinario: un paesaggio non deve il suo valore a ciò che costituisce la sua rarità. C’è paesaggio, invece, quando in lui si accentua l’individuazione che fa sì che esso si specifichi: quando in lui appare del proprio. Tuttavia, questo singolare non è l’«a parte» o il particolare, ed è in ciò che un paesaggio si distingue, ancora una volta, dalla «veduta». Una veduta è sempre «veduta di», «a», come suggerivo all’inizio, e aderisce alla sua localizzazione. Mentre un paesaggio trascende la propria località e la rende vettrice di un tutto del mondo: è «un» paesaggio, dato che si separa dagli altri, e nello stesso tempo è un «tutto» – il mondo. In altre parole, c’è paesaggio solo quando questo luogo specifico è (vale) al contempo come mondo; quando, nel cuore della sua particolarità, si dispiega, o si schiude, o si rivela, ciò che fa «mondo».
Se recuperiamo la macchina hegeliana, comunque sempre efficace, diremo che il «particolare» (di tale o talaltra veduta»: das Besondere), ritiratosi dal «comune» (gemein), resta bloccato nella sua parzialità e si ripiega; mentre c’è paesaggio quando questo particolare, superandosi come singolare (das Einzelne), si promuove al tempo stesso come un «universale» della natura, di qualsiasi natura, diventando allora effettivo. Dire, come abbiamo fatto, che un paesaggio non è mai un «angolo» del mondo, che si costituisce come paesaggio perché contiene il tutto, di tutto, nella sua unicità – cosa che in cinese è espresso così bene da «le montagne e le acque», da «il vento / la luce» – voleva già dire riconoscere questa vocazione del Singolare. Ora, questa «singolarità» del paesaggio, come il «momento» in cui la determinatezza di un «paese» apporta, nella sua particolarità, questo «tutto in comune» (allgemein), di ciò che fa mondo, è esattamente quello che fa sorgere, emergere, il carattere di esistente attraverso la sua individuazione.
Perché sappiamo, e la scolastica l’aveva ricavato da Aristotele, che l’esistenza «è dei singolari», existentia est singularium; ovvero, che non vi è esistenza se non singolare, secondo la categoria del «ciascuno» (καθ’ἕκαστον) contrariamente alla generalità, che fonda il discorso della scienza; o che solo il singolare esiste (curiamo quest’uomo specifico, diceva Aristotele, curiamo Socrate o Callia, e non «l’uomo» in generale). La singolarizzazione, in altri termini, è ciò che fa emergere dell’esistenza, all’esistenza, e perciò va rivendicata – rivendicazione del Singolare, portata all’assoluto dal cristianesimo, da cui nascerà, con Kierkegaard, l’«esistenzialismo» (Hegel e Kierkegaard, per quanto se ne dica, sarebbero dunque così in contrasto su questo punto?). Ecco ciò che fa vivere un paesaggio: il paesaggio è un «paese» che, singolarizzandosi, esprime (rende sensibile) ciò che «esistere» (nella sua unicità) effettivamente è. Il fatto del paesaggio è di far affiorare fisicalmente dell’esistenza, di fronte alla coscienza, per il solo fatto di questa individuazione che lo strappa alla ripetitività, alla banalità o «generalità» (monotonia) del «paese».
Quindi, a sua volta, di riflesso intimo: quando incontriamo un paesaggio all’interno di questa singolarità emergente – perché un paesaggio si «incontra», come si incontra un «Altro», distinguendolo dall’«altrui» anonimo – noi stessi ci sperimentiamo come esistenti singolari, vale a dire «effettivamente» e non più banalmente esistenti (non di un’esistenza sopita o dimentica di sé). Ci si sperimenta esistenti (ex-istant) nel paesaggio e attraverso il paesaggio nella misura in cui il paesaggio ci porta a emergere reattivamente dalla continuità data e ormai incosciente del «paese». Oppure diciamo che facendo provare la sua esistenza in proporzione alla sua singolarizzazione, il paesaggio fa emergere la nostra esistenza individuale, o ci richiama al nostro sentimento di esistere. La poesia di paesaggio (così in Xie Lingyun) è l’ordinario svolgimento di questa logica: fa passare dall’evocazione del singolare di un paesaggio alla meditazione di un soggetto che riconsidera la propria vita. Non perché il paesaggio sia l’oggetto comodo, docile, sempre a disposizione, di una soggettivazione di convenzione, o il supporto di una facile proiezione – come troppo spesso ha fatto il romanticismo –, ma perché mi restituisce nella mia esistenza di soggetto che lo incontra individualmente, qui e ora, e me la fa apparire.
3
Non dovremo dunque sorprenderci del fatto che evocare un paesaggio non significa tanto «descriverlo» – l’inventario delle caratteristiche sarebbe interminabile e vago – quanto fare emergere la sua singolarità nell’enunciat...