Alessandra Nappo
IV
Fotografia documentaria
I ‘Documentario’: un concetto fluido
La fotografia documentaria costituisce un oggetto di studio dai confini incerti e problematici. Documentaria potrebbe sembrare, a conti fatti, ogni immagine fotografica, in quanto documento, prova inconfutabile di qualcosa che “è stato”, che si è trovato in un preciso momento passato di fronte all’apparecchio fotografico: in questo ampio senso, “nessuna fotografia” sarebbe “più o meno documentaria di un’altra”.
Alla voce Dokumentarische Fotografie del dizionario enciclopedico di arte contemporanea curato dallo storico dell’arte tedesco Hubertus Butin si ritrova lo stesso rimando al valore di prova, presentato come consustanziale al medium: “Il valore documentario di ogni fotografia consiste nel fatto che essa rimanda a ciò che è stato. In virtù del suo riferimento a un momento del passato, l’immagine fotografica ha – analogamente a un documento scritto – il carattere di documento”. Eppure, questo appare con tutta evidenza un concetto dalle maglie troppo larghe. L’aspetto che si tende a mettere in evidenza in relazione alla nozione di fotografia documentaria, infatti, lì come altrove, è immancabilmente la vaghezza della sua definizione, l’impossibilità di esprimersi categoricamente su un versante della fotografia soggetto a continue oscillazioni di senso. Nell’introduzione editoriale dell’ormai classico volume Das Photo als Dokument (La foto come documento), pubblicato nel 1972, si sottolinea come non esista “alcuna definizione universalmente riconosciuta che abbracci tutti gli aspetti di questo campo […] della fotografia”. Questa stessa instabilità terminologica è stata evidenziata, in tempi recenti, anche dallo studioso francese Olivier Lugon, il quale si è a lungo confrontato con l’ambiguità e la complessità del genere documentario: “nessuno sa esattamente ciò che ricopre il termine ‘documentario’ in fotografia”; “voler circoscrivere cosa sia il documentario è [un tentativo] perso in partenza, bisogna accettare una fluttuazione di senso che è costitutiva del campo. Non c’è, non c’è mai stata una definizione unica e stabile di questa parola, c’è sempre stata una conchiglia vuota riempita di significati mutevoli e contraddittori”.
I continui cambiamenti di senso nel corso dei decenni ne hanno fatto dunque un termine “volatile”, “una nozione fluttuante”, per riprendere la calzante espressione del critico d’arte Régis Durand. Anche un classico studio americano sulla forma documentaria come Documentary Expression and Thirties America (1973), alla domanda “What is a documentary?”, non ha potuto astenersi dal constatare quanto questa sia “una parola complessa, persino contraddittoria”. In anni a noi più prossimi, nel numero 79 della rivista francese Communications, lo storico dell’arte Jean-François Chevrier evidenzia ancora che “la nozione di fotografia documentaria ricopre una diversità di pratiche ampia quanto, o quasi, l’idea stessa di fotografia”. Persino coloro che si sono cimentati in prima persona con la pratica documentaria hanno dovuto arrendersi di fronte all’impossibilità di definire questo genere con sufficiente precisione, come nel caso del fotografo italiano William Guerrieri, che nel suo saggio Attualità del documentario si trova a osservare: “il documentario non ha una forma canonica, ogni volta la sua forma va conquistata a partire dalla necessità di un rapporto con la realtà”.
Ciò che quindi emerge con tutta evidenza da un primo confronto con le fonti prese in esame è la sostanziale instabilità di questo termine, in quanto, chiamando nuovamente in causa Lugon, “fare la storia della fotografia come documento sarebbe fare la storia di tutte le fotografie o quasi, dal reportage d’attualità alle vedute scientifiche o mediche, dalle registrazioni poliziesche o amministrative alle cronache private”. Vi è però un ulteriore aspetto che pare mettere d’accordo coloro che s’interrogano su questo genere fotografico, vale a dire “la rivendicazione molto generale di un rispetto dell’oggetto mostrato, il desiderio di far vedere le cose come sono, di fornire delle informazioni affidabili e autentiche”, la volontà quindi di restituire un oggetto o una situazione in modo diretto. Quest’ultima posizione, tuttavia, lungi dal rivelarsi soddisfacente ai fini di una puntuale definizione di fotografia documentaria, non è esente dal sollevare ambiguità e incoerenze.
L’artista e teorica tedesca Hito Steyerl, per esempio, nell’incipit del suo saggio Dokumentarismus und Dokumentalität (Documentarismo e Documentalità) ha tentato di mettere in discussione proprio questa lettura del documentario più comunemente accolta, ovvero il mito che lo vedrebbe come una rappresentazione assolutamente neutrale, non falsificata della realtà. Sembrerebbero infatti entrare in gioco, nell’atto di documentazione, molteplici fattori soggettivi – di cui l’autore dell’immagine si fa, più o meno consapevolmente, portatore – che andrebbero ad alterare o persino a compromettere la presunta neutralità del documento fotografico. La decisione stessa di fotografare un certo oggetto piuttosto che un altro e di preservarlo per lo sguardo futuro è, del resto, tutt’altro che neutrale.
Alla luce di queste considerazioni, una parte dell’attuale riflessione critica ha perciò cercato di problematizzare l’idea di documentario come ‘copia neutra’, testimonianza imparziale, tentando piuttosto di comprendere in che misura il fotografo, anche involontariamente, interferisca con la neutralità dell’immagine fotografica e arrivi a minarne proprio quel puro valore documentario che vol...