Nel nome del padre e del figlio
eBook - ePub

Nel nome del padre e del figlio

Ermanno Bencivenga

Share book
  1. 168 pages
  2. Italian
  3. ePUB (mobile friendly)
  4. Available on iOS & Android
eBook - ePub

Nel nome del padre e del figlio

Ermanno Bencivenga

Book details
Book preview
Table of contents
Citations

About This Book

Qual è il rapporto fra padre e figlio? Come si costituisce? Quale ne è la sostanza? Ermanno Bencivenga affronta il tema di questa particolarissima relazione attraverso due esempi icastici, che pongono al centro dell'attenzione due testi fondazionali della nostra cultura e ne danno un'interpretazione assolutamente originale. Si parte dall'Odissea, che in questa lettura diventa la storia non di Odisseo ma di Telemaco. È Telemaco che sceglie, fra i tanti naufraghi e viandanti che si presentano a Itaca nel corso degli anni dicendo di essere Odisseo, chi sia suo padre. Con un lavoro da detective, esaminando il peso delle varie parti dell'opera e i suggerimenti occasionali di Omero, viene ricostruita la natura arbitraria di questa scelta: che il naufrago in questione sia davvero Odisseo, ci dimostra Bencivenga, in fondo noi non lo sappiamo, e soprattutto non lo sa Telemaco; è lui a deciderlo, è il figlio a stabilire chi sia suo padre. Il secondo esempio è Pinocchio, solitamente interpretato in modo edificante come la crescita di un bambino da uno stato meccanico e disarticolato, mediante l'assunzione di responsabilità sociali, a uno stato finalmente umano. Viceversa, questo è il libro di Geppetto, che arriva a scegliere suo figlio e a scegliere di essere padre. Un bellissimo testo di David Foster Wallace, tratto da Brevi interviste con uomini schifosi, viene qui usato come contraltare: è Geppetto - a differenza del padre del racconto di Wallace, che muore senza cambiare atteggiamento - a umanizzare progressivamente il figlio e a riconoscerlo come tale.

Frequently asked questions

How do I cancel my subscription?
Simply head over to the account section in settings and click on “Cancel Subscription” - it’s as simple as that. After you cancel, your membership will stay active for the remainder of the time you’ve paid for. Learn more here.
Can/how do I download books?
At the moment all of our mobile-responsive ePub books are available to download via the app. Most of our PDFs are also available to download and we're working on making the final remaining ones downloadable now. Learn more here.
What is the difference between the pricing plans?
Both plans give you full access to the library and all of Perlego’s features. The only differences are the price and subscription period: With the annual plan you’ll save around 30% compared to 12 months on the monthly plan.
What is Perlego?
We are an online textbook subscription service, where you can get access to an entire online library for less than the price of a single book per month. With over 1 million books across 1000+ topics, we’ve got you covered! Learn more here.
Do you support text-to-speech?
Look out for the read-aloud symbol on your next book to see if you can listen to it. The read-aloud tool reads text aloud for you, highlighting the text as it is being read. You can pause it, speed it up and slow it down. Learn more here.
Is Nel nome del padre e del figlio an online PDF/ePUB?
Yes, you can access Nel nome del padre e del figlio by Ermanno Bencivenga in PDF and/or ePUB format, as well as other popular books in Philosophie & Geschichte & Theorie der Philosophie. We have over one million books available in our catalogue for you to explore.

Information

Publisher
Hoepli
Year
2020
ISBN
9788820398002
Padri
L’apertura è giocosa, forse per distrarci o forse, come con il Matto di Re Lear, per inchiodarci alle nostre responsabilità (castigat ridendo mores). Dovremo venirne a capo; per il momento gustiamola e centelliniamola. «C’era una volta… – Un re! – diranno subito i miei piccoli lettori. No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno. Non era un legno di lusso, ma un semplice pezzo da catasta, di quelli che d’inverno si mettono nelle stufe e nei caminetti per accendere il fuoco e per riscaldare le stanze» (3). Con queste parole, alcune caratteristiche del libro che ci apprestiamo a leggere sembrano stabilite. Primo, il libro si rivolge a dei ragazzi: è un libro per l’infanzia, o al massimo per la prima adolescenza. Secondo, il libro tradisce le aspettative dei suoi «piccoli lettori»: non parla di un re, quindi presumibilmente neanche di regine, principi e principesse (più o meno «sul pisello»); non culla l’immaginazione del suo pubblico di riferimento con racconti di una vita «da favola»; non prospetta un’evasione in un mondo nobile e fantastico, dal quale magari ritornare con preziosi insegnamenti ma pur sempre lontano, mitico, esaltante.
Ciò che verrà raccontato, si suggerisce, non è per nulla una favola, ma al contrario (terzo) uno scampolo della quotidianità umile e misera che dominava l’Italia dell’Ottocento, prima e dopo l’Unità: poco da mangiare, legna da ardere (quando c’era) per scaldarsi d’inverno, soldi scarsi o inesistenti, sognati come un miracolo – e «la miseria, quando è miseria davvero, la intendono tutti: anche i ragazzi» (34). Nelle parole di Geppetto quando dà un nome al suo burattino: «Lo voglio chiamar Pinocchio. Questo nome gli porterà fortuna. Ho conosciuto una famiglia intera di Pinocchi: Pinocchio il padre, Pinocchia la madre e Pinocchi i ragazzi, e tutti se la passavano bene. Il più ricco di loro chiedeva l’elemosina» (11). La casa dello stesso Geppetto è adeguata a tale sconforto: «era una stanzina terrena che pigliava luce da un sottoscala. La mobilia non poteva essere più semplice: una seggiola cattiva, un letto poco buono e un tavolino tutto rovinato. Nella parete di fondo si vedeva un caminetto col fuoco acceso; ma il fuoco era dipinto, e accanto al fuoco c’era dipinta una pentola che bolliva allegramente e mandava fuori una nuvola di fumo, che pareva fumo davvero» (11).
Di qui in poi, è lecito prevedere che l’autore, ex-seminarista e combattente volontario nella Prima e nella Seconda guerra d’indipendenza, riciclatosi come cultore dell’umorismo per sopravvivere in una Toscana allora in mano agli Asburgo-Lorena, voglia rifilare al suo pubblico giovanile un apologo conformista e edificante, che li metta sulla buona strada di Dio, patria e famiglia – nello stile del libro Cuore, per intenderci, che infatti gli è quasi contemporaneo (Le avventure di Pinocchio è del 1883, Cuore del 1886). Di favole Collodi se ne intendeva, avendo pubblicato, sette anni prima del suo capolavoro, I racconti delle fate, traduzioni dal francese di Charles Perrault, Marie-Catherine d’Aulnoy e Jeanne-Marie Leprince de Beaumont (a ciascuna delle quali peraltro aveva aggiunto una morale); quindi poteva prenderne le distanze con serena consapevolezza e presentarsi non come un pifferaio magico (del genere che procederà a crocifiggere nel romanzo) ma come uno di quei curati di campagna alla Don Camillo, che hanno la battuta pronta e indossano allegramente la sottana ma al momento opportuno sanno rifilarti un ganascino o uno scappellotto (o un manrovescio) per richiamarti all’ordine e scoraggiarti da vizi e cattive compagnie.
La lettura tradizionale di Pinocchio segue le linee che ho tracciato, chiarendo ai piccoli lettori i guai cui vanno incontro comportandosi da scavezzacollo e i vantaggi che derivano dall’essere bravi bambini. Bravi bambini come il Derossi e il Garrone di De Amicis, diciamo (e come cerca di essere, nello stesso Cuore, il narratore Enrico Bottini). Eppure qualcosa non torna. Esaltato e riverito fino al fascismo, Cuore fu pesantemente criticato nel dopoguerra e sottoposto a una devastante, sarcastica inversione interpretativa (una decostruzione avant la lettre) da Umberto Eco nel 1963, in Elogio di Franti; da allora non si è più ripreso – è anzi diventato un epiteto spregiativo per connotare atteggiamenti e discorsi codini e melensi («da libro Cuore»). Pinocchio invece non si è mai fermato: tradotto in linguaggio cinematografico da Disney nel 1940 (ma il primo film a lui ispirato risale al 1911), è diventato un fenomeno globale (fra gli altri suoi famosi interpreti ricorderò Mickey Rooney, Carmelo Bene e Roberto Benigni). La cittadina di Collodi da cui l’autore Carlo Lorenzini prese il suo nom de plume (era il luogo di nascita della madre) ha dedicato al celebre burattino, nel 1956, un parco che è tuttora aperto, attivo e ben frequentato; ci sono statue di Pinocchio ad Ancona, sul lago di Varese e nella piazza centrale di Viù, in provincia di Torino (questa è la statua di legno su pezzo unico più alta d’Italia), oltre che, naturalmente, a Collodi, e c’era una scultura intitolata Pinocchio Art nel Padiglione Italia dell’Expo 2010 di Shanghai; nel 1999 un asteroide scoperto quell’anno fu denominato «Pinocchio». Nella rubrica Fact Checker del Washington Post, che controlla la verità di affermazioni rilasciate da uomini politici, errori e bugie ricevono da uno a quattro Pinocchi. Di recente hanno detto la loro sul personaggio Guillermo del Toro e Matteo Garrone, e gli è stato dedicato uno spettacolo al Royal National Theatre di Londra. È possibile che un successo così straordinario – bestseller e longseller insieme – arridano a una storia dai contorni così tradizionali, apparentemente circoscritta in un’Italietta ormai dimenticata, e forse da dimenticare? Non credo; ma prima di sviluppare una lettura controcorrente sarà bene dar voce a quella che a lungo ha occupato la scena.
Tormenti a fin di bene
Fin dall’inizio – anzi, da prima ancora del suo inizio, da quando tutto quel che c’è è il pezzo di legno menzionato in apertura – Pinocchio è irrequieto e villano. Quando maestro Ciliegia prova a lavorarlo per farne una gamba di tavolino, gli parla e lo spaventa, facendolo cadere a terra «come fulminato» (6). A quel punto arriva Geppetto con un’idea luminosa (di cui tratterò in seguito) e la descrive al collega (Geppetto e maestro Ciliegia sono entrambi falegnami), ma la solita vocina risponde, usando un appellativo («Polendina», dalla sua parrucca gialla) che è solito mandare Geppetto su tutte le furie. Ne segue una prima baruffa tra i due artigiani (Geppetto non ha capito chi sia il responsabile della battuta); poi, quando hanno fatto la pace e maestro Ciliegia è ben lieto di disfarsi di quel pezzo di legno ciarliero e indisponente rifilandolo a Geppetto, «il pezzo di legno dette uno scossone, e sgusciandogli violentemente dalle mani, andò a sbattere con forza negli stinchi impresciuttiti del povero Geppetto» (9).
Nuova lite (anche su queste liti ritornerò), nuova pace e finalmente Geppetto può allontanarsi e, rientrato in casa, mettersi a fabbricare il burattino. Che però, appena ha gli occhi, lo guarda fisso; appena ha la bocca, comincia a canzonarlo; appena ha le mani, gli porta via la parrucca dal capo; appena ha le gambe e i piedi, dà un calcio a Geppetto e, «infilata la porta di casa, saltò nella strada e si dette a scappare» (14). E non basta: il suo naso non solo è «spropositato» (15) ma sembra dotato di una sua autonoma vitalità. «[I]l naso, appena fatto, cominciò a crescere: e cresci, cresci, cresci diventò in pochi minuti un nasone che non finiva mai. Il povero Geppetto si affaticava a ritagliarlo; ma più lo ritagliava e lo scorciva, e più quel naso impertinente diventava lungo» (12). Ogni parte del suo corpo è fonte di cruccio e di disturbo, e l’insieme è disarticolato, caotico, incontrollabile. Non ha nulla di quella razionalità, spesso rappresentata come moderazione, che da tempi lontani (complice Aristotele) siamo inclini a considerare caratteristica definitoria dell’essere umano. Ciò con cui abbiamo a che fare – con cui hanno a che fare maestro Ciliegia, Geppetto e tutti gli altri personaggi che si affolleranno nelle pagine seguenti – è un bruto o una macchina. O un burattino: un oggetto di divertimento che, come in un film dell’orrore, ha preso a divertirsi alle nostre spalle.
Varie figure d’autorità si fanno avanti, senza riuscire a domare una furia così scatenata. Un carabiniere lo ferma e lo riconsegna a Geppetto, ma finisce per arrestare quest’ultimo e lasciare Pinocchio in libertà. Al Grillo-parlante, che gli consiglia di andare a scuola o «impar[are] almeno un mestiere, tanto da guadagnar[si] onestamente un pezzo di pane» (19), Pinocchio scaglia contro un martello, e «[f ]orse non credeva nemmeno di colpirlo: ma disgraziatamente lo colse per l’appunto nel capo, tanto che il povero grillo ebbe appena il fiato di fare crì-crì-crì, e poi rimase lì stecchito e appiccicato alla parete» (20). Né fa una fine migliore il merlo che cerca di dissuaderlo dal seguire i cattivi consigli del Gatto e della Volpe, ma stavolta non per colpa di Pinocchio: «Povero Merlo, non l’avesse mai detto! Il Gatto [che dovrebbe essere cieco], spiccando un gran salto, gli si avventò addosso, e, senza dargli nemmeno il tempo di dire ohi se lo mangiò in un boccone, con le penne e tutto» (51).
Fra i tanti che cercano inutilmente di indurlo alla ragione c’è Geppetto, che gli rifà i piedi inceneriti dal caldano pieno di brace accesa, gli dà la colazione che aveva conservato per sé e vende «la vecchia casacca di frustagno, tutta toppe e rimendi» (34) per comprargli l’Abbecedario. Non dimenticando di insegnargli la dura lezione degli stenti: la colazione consiste in tre pere, che Pinocchio chiede a Geppetto di sbucciargli. «E quel buon uomo di Geppetto, cavato fuori un coltellino, e armatosi di santa pazienza, sbucciò le tre pere, e pose tutte le bucce sopra un angolo della tavola» (30). Mangiata la prima, Pinocchio fa per buttar via il torsolo, ma Geppetto gli ferma il braccio e mette i torsoli vicino alle bucce. Per fortuna, perché, divorate le pere, Pinocchio ha ancora fame e, non essendoci altro, mangia bucce e torsoli. Implacabile, quello che lui ha preso a chiamare «babbo» non sa resistere a esprimersi in senso didattico: « – Vedi dunque, – osservò Geppetto – che avevo ragione io quando ti dicevo che non bisogna avvezzarsi né troppo sofistici né troppo delicati di palato. Caro mio, non si sa mai quel che ci può capitare in questo mondo. I casi son tanti!!» (31 – più tardi il Colombo confermerà il suo spietato ammonimento: «quando la fame dice davvero e non c’è altro da mangiare, anche le vecce diventano squisite! La fame non ha capricci né ghiottonerie», 108-109). Ma Pinocchio, dopo essersi lasciato andare a un empito di tenerezza («non potendo frenare l’impeto del suo buon cuore, saltò al collo di Geppetto e cominciò a baciarlo per tutto il viso», 35), venderà l’Abbecedario per andare al teatro dei burattini. Come deluderà la Fata dai capelli turchini, che lo aveva curato amorevolmente «con tutta la pazienza di una buona mamma» (74) quando gli assassini lo avevano impiccato alla Quercia grande, dandogli una medicina che lui aveva accettato con molte difficoltà, solo perché terrorizzato dalla morte. Anche in quel caso, nonostante dichiarazioni melodrammatiche (« – Quanto siete buona, Fata mia, – disse il burattino, asciugandosi gli occhi – e quanto bene vi voglio», 80), alla prima occasione si lascerà abbindolare dagli stessi lestofanti che lo avevano impiccato.
Volgiamoci ai lestofanti, dunque, che per quasi tutto il tempo hanno in pugno Pinocchio e, a dispetto delle sue manifestazioni di rammarico, lo convincono a fare quel che vogliono loro. I già citati Gatto e Volpe, tanto per cominciare, che prima lo assalgono nottetempo (gli assassini sono loro) per rubargli le monete d’oro che gli aveva dato il burattinaio Mangiafoco e poi, non riuscendo con la forza, raggiungono il loro obiettivo con la frode: lo portano al Campo dei miracoli (che, non a caso, si trova nei pressi della città Acchiappa-citrulli) e gliele fanno «seminare» perché ne germoglino mille o duemila. Qualche ora dopo, le quattro monete originarie sono sparite e, fra le risate e i sermoni di un’altra figura parentale (un pappagallo), Pinocchio deve riconoscere di essere stato turlupinato.
Più tardi, a scuola, incontra Lucignolo, che di tutti i suoi compagni «era il ragazzo più svogliato e più birichino» (153); fedele alla sua vocazione di citrullo, gli si lega a filo doppio e ascolta incantato le sue descrizioni del Paese dei balocchi – tanto più persuasive perché Lucignolo è il primo a crederci. «Dove vuoi trovare un paese più salubre per noialtri ragazzi? Lì non vi sono scuole: lì non vi sono maestri: lì non vi sono libri. In quel paese benedetto non si studia mai. Il giovedì non si fa scuola: e ogni settimana è composta di sei giovedì e di una domenica. Figurati che le vacanze dell’autunno cominciano col primo di gennaio e finiscono coll’ultimo di dicembre. Ecco un paese, come piace veramente a me! Ecco come dovrebbero essere tutti i paesi civili!» (154).
Pinocchio lo segue ed entrambi cadono nelle grinfie dell’omino di burro, la cui fisionomia è il ritratto della truffa e del raggiro: «Figuratevi un omino più largo che lungo, tenero e untuoso come una palla di burro, con un visino di melarosa, una bocchina che rideva sempre e una voce sottile e carezzevole come quella d’un gatto che si raccomanda al buon cuore della padrona di casa» (159). Costui li accompagna alla meta agognata su un carro colmo di ragazzi e trainato da dodici pariglie di ciuchini; dopo cinque mesi di cuccagna, i due si sono trasformati a loro volta in ciuchini e lui si presenta a riscuotere. «Da principio l’Omino li lisciò, li accarezzò, li palpeggiò: poi, tirata fuori la striglia, cominciò a strigliarli per bene. E, quando a furia di strigliarli, li ebbe fatti lustri come due specchi, allora messe loro la cavezza e li condusse alla piazza del mercato, con la speranza di venderli e di beccarsi un discreto guadagno» (175). Collodi, sempre in vena di prediche, ce ne offre una molto eloquente ed esplicita: «E ora avete capito, miei piccoli lettori, qual era il bel mestiere che faceva l’Omino? Questo brutto mostriciattolo, che aveva una fisionomia tutta latte e miele, andava di tanto in tanto con un carro a girare per il mondo: strada facendo raccoglieva con promesse e con moine tutti i ragazzi svogliati, che avevano a noia i libri e la scuola: e dopo averli caricati sul suo carro, li conduceva nel “Paese dei balocchi” […]. Quando poi quei poveri ragazzi illusi, a furia di baloccarsi sempre e di non studiar mai, diventavano tanti ciuchini, allora tutto allegro e contento s’impadroniva di loro e li portava a vendere sulle fiere e sui mercati. E così in pochi anni aveva fatto fior di quattrini ed era diventato milionario» (176-77). Un vero e proprio spacciatore d’altri tempi, insomma, che istupidisce e sfrutta le sue vittime arricchendosi a loro spese.
Una terza categoria di personaggi, anch’essi malvagi, non usano però l’inganno ma la violenza – e alcuni di loro si ravvedono: aveva ragione Dante nel giudicare la doppiezza un peccato più orribile, e da punire più severamente, della brutalità. Apre la sfilata il già citato Mangiafoco, che minaccia «Stasera faremo i nostri conti» (41) e ordina di bruciare prima Pinocchio e poi Arlecchino per rosolare il montone che è destinato alla sua cena ma in entrambi i casi si commuove e li risparmia, anzi regala a Pinocchio le monete d’oro che saranno rubate dal Gatto e dalla Volpe. Si prosegue con «un grosso serpente, disteso attraverso alla strada, che aveva la pelle verde, gli occhi di fuoco e la coda appuntata, che gli fumava come una cappa di camino» (92); ma questo ostacolo si elimina da solo morendo di risa come il gigante Margutte nel Morgante di Luigi Pulci. C’è il contadino cui Pinocchio aveva tentato di portar via due grappoli d’uva e che si rivale sul burattino con gli interessi: «Lascia fare a me, che ti darò una lezione da ricordartene per un pezzo. […] Detto fatto, gl’infilò al collo un grosso collare tutto coperto di spunzoni di ottone, e glielo strinse in modo da non poterselo levare passandoci la testa dentro. Al collare c’era attaccata una lunga catenella di ferro; e la catenella era fissata al muro» (97-98). E c’è l’orrendo pescatore dai capelli verdi (il verde non è un buon segno), il quale, come l’orrendo Polifemo voleva fare a Odisseo il favore di mangiarlo per ultimo, propone a Pinocchio di scegliere di quale morte morire: «In segno di amicizia e di stima particolare, lascerò a te la scelta del come vuoi essere cucinato. Desideri essere fritto in padella, oppure preferisci di essere cotto nel tegame colla salsa di pomidoro?» (141).
Ancora a seguire, incontriamo il Direttore del circo cui è stato venduto il ciuchino Pinocchio, e che alle sue lamentele risponde con sonore frustate e una drastica lavata di capo: «Credi forse, mio bel ciuchino, ch’io ti abbia comprato unicamente per darti da bere e da mangiare? Io ti ho comprato perché tu lavori, e perché tu mi faccia guadagnare molti quattrini [sempre soldi, vera ossessione in un’economia di ristrettezze: i soldi che mancano per comprarsi da mangiare e quelli che crescono sugli alberi, quelli che qualcuno ti regala e quelli che qualcun altro ti estorce]. Su, dunque, da bravo! Vieni con me nel Circo, e là ti insegnerò a saltare i cerchi, a rompere col capo le botti di foglio e a ballare il valzer e la polca, stando ritto sulle gambe di dietro» (178). Al culmine dell’aggressività e dello sgomento, la biblica balena di Giona ricompare nelle vesti di un più mediterraneo, ma non meno agghiacciante, pescecane: «Quel mostro marino era né più né meno quel gigantesco Pesce-cane, […] che per le sue stragi e per la sua insaziabile voracità veniva soprannominato “l’Attila dei pesci e dei pescatori”» (191).
In un ambiente umano (e non) così definito, l’odissea di Pinocchio assume connotati familiari. Le varie forme di autorità che incontra si adoperano per farlo rigare diritto, non risultando efficaci: ci sono da parte sua ripetuti pentimenti e piagnistei, ma il suo atteggiamento rimane lo stesso. Continua cioè imperterrito a lasciarsi gabbare da tutti gli imbroglioni e, come conseguenza della sua dabbenaggine, a ricevere ogni sorta di maltrattamenti e vessazioni da parte di profittatori e tiranni, cavandosela in ogni circostanza solo per il rotto della cuffia – e solo, in apparenza, perché una sua precoce dipartita non termini bruscamente la storia (i tempi di Psycho, in cui Hitchcock uccide la sua protagonista a metà film, erano di là da venire – chissà come sarebbe stato Le avventure di Pinocchio senza Pinocchio).
Tutto questo finché la storia termina davvero, con un finale hollywoodiano degno del libro Cuore. Il Gatto e la Volpe sono ridotti al rango di mendicanti assai male in arnese: «Figuratevi che il Gatto, a furia di fingersi cieco, aveva finito coll’accecare davvero: e la Volpe invecchiata, intignata e tutta perduta da una parte, non aveva più nemmeno la coda. Così è. Quella triste ladracchiola, caduta nella più squallida miseria, si trovò costretta un bel giorno a vendere perfino la sua bellissima coda a un merciaio ambulante, che la comprò per farsene uno scacciamosche» (205; il Franti di Cuore avrà fatto la stessa fine). Il Grillo-parlante risuscita, senza provocare nessuna sorpresa (ma solo un po’ di rimorso) in chi lo aveva fatto fuori con un martello (in precedenza, di lui era comparsa solo l’ombra e poi lo si era visto fra i tre medici chiamati al capezzale di Pinocchio, nell’atmosfera magica che circondava la Fata); si rivela anzi il nuovo padrone di casa (o meglio: di capanna) di Geppetto e Pinocchio. Il quale si mette a sgobbare duramente tirando su cento secchi d’acqua da una cisterna per ricevere un bicchiere di latte (e lo fa per cinque mesi! Alzandosi prima dell’alba!) – una fatica che prima di lui toccava al ciuchino/Lucignolo, che ne è stato stroncato e infatti spira subito dopo aver rivisto l’amico. (Il lavoro minorile era una realtà ben presente all’epoca: secondo una statistica compilata nel 1876 dal futuro ministro delle finanze Vittorio Ellena, risultavano impiegati nel settore tessile del nostro paese più di 90 mila ragazzi, che costituivano il 23% della forza-lavoro del settore. Pagati un terzo degli adulti e molto richiesti per ...

Table of contents