Pur avendo raggiunto la notorietà soprattutto grazie alla sua attività di pittrice e narratrice, Lalla Romano (1906-2001) si è cimentata a più riprese anche con la poesia, pubblicando le raccolte Fiore (1941), L’autunno (1955) e infine Giovane è il tempo (1974) che riunisce i componimenti delle precedenti sillogi, con l’aggiunta di altre liriche sino a quel momento inedite [1] .
Si prenderà in esame soprattutto quest’ultima raccolta in cui, per volontà autoriale, la produzione poetica romaniana trova una sua sistemazione organica e offre parimenti una rilettura complessiva e retrospettiva compiuta dall’autrice ormai settantenne sui suoi stessi componimenti, da quelli di sapore adolescenziale ad altri composti in età matura.
In questo volume la fisicità si impone in modo esplicito già a partire dai titoli delle cinque sezioni: I flauti acerbi, Il caro odore del corpo, La bocca arida, Giovane è il tempo, Da una ruvida mano. Seguendo in particolare il vario e sinestetico intrecciarsi delle sfere sensoriali presenti nei versi di questa silloge, emerge l’importanza assunta dal tema del corpo [2] in poesie in cui assume un particolare rilievo l’elemento paesaggistico, riferito segnatamente a un paesaggio interiorizzato [3], o comunque orientato a situazioni e moduli di maniera riconducibili a una ben precisa e codificata tradizione letteraria. Corpo e paesaggio non sono tuttavia in opposizione, ma si integrano perfettamente l’un l’altro, venendo talvolta a configurare un compiuto bodyscape.
Inoltre l’esigenza di narratività, manifesta nella silloge Fiore che costituisce una sorta di giovanile autobiografia sentimentale, risulta attenuata nell’ultima raccolta, ma non scompare del tutto per cui anche Giovane è il tempo presenta un’articolazione di temi ben strutturata, con la presentazione dell’opposizione delle stagioni nella prima parte, la riproposizione della Bildung erotica di Fiore nella sezione Il caro odore del corpo per poi acquisire tutti i tratti della poesia dell’assenza ne La bocca arida, sospesa tra motivo della lontananza fisica dell’amato e dimensione dell’attesa, sino ad assumere marcati caratteri di novità e originalità rispetto alle liriche precedenti che Segre ha opportunamente definito «apocalittici» ed «escatologici» [4].
Tutti le sfere sensoriali appaiono coinvolte nelle sillogi poetiche della Romano, scrittrice «visiva» per eccellenza grazie alla sua parallela attività pittorica e al suo interesse per la fotografia, ma che nelle poesie conferisce una particolare significazione anche agli altri sensi e, segnatamente, all’udito e al tatto.
Prima a imporsi nell’universo poetico della Romano è infatti la sfera uditiva, variamente articolata tra i diversi tipi di emissione di voce («grido», «ululare», «latrato»…) e le diverse modalità di percezione («udire», «ascoltare»; «sentire»). Già la sinestesia «flauto acerbo» della prima sezione si apre all’ascolto dei suoni della Natura («s’odono degli uccelli i flauti acerbi», p. 6) spesso accostati, secondo un procedimento comparativo che è alla base delle liriche romaniane, alle voci umane («acuti erano gridi di bimbi e… stridi di rondini», p. 10), quasi sempre ricondotte a suoni sgradevoli o portatori di angoscia («ululi» e «latrati») cui preferire il silenzio («Un canto lento invano verso il cielo / afoso sale / il canto stagna rauco e sconsolato……/ e quando tace / non trovo più il ristoro del silenzio. / A fianco, enorme / sento la notte come il corpo stanco / di una creatura che non può trovar sonno / sento sul viso l’alito caldo del suo greve respiro», p. 22). Diversamente da tanti notturni della tradizione lirica italiana, ben lungi dalla quiete serenatrice della Sera foscoliana, è proprio la notte a essere paragonata al corpo stanco di una persona insonne, profilandosi come presenza minacciosa e greve che impedisce il «ristoro del silenzio».
Il canto che proviene in lontananza, motivo di chiara memoria leopardiana e più volte ripetuto in queste liriche, non ne ha il fascino dell’indefinitezza e si pone invece come qualcosa di fastidioso e insieme invasivo, ad esempio nella poesia Altri suoni che ritroviamo tra le Poesie disperse (p. 159):
Molti suoni
Molti suoni stanno fuori di me:
le campane,
e i tram che stridono all’alba.
Ma il tonfo
Del tuo passo che scende
Lungo la rampa sonora
Affonda dentro l’essere,
come il minatore nel pozzo.
Sono versi che ci permettono bene di cogliere uno degli aspetti centrali della poesia-del-corpo romaniana in cui particolarmente marcata è la dialettica dentro/fuori, interno/esterno e la corporeità dell’io lirico è vissuta come una barriera, refrattaria all’accoglimento di agenti e soprattutto di presenze esterne, temute e insieme desiderate, che riescono a superare questo diaframma solo imponendosi con la forza.
La dimensione sonora, rivelatrice di un’attitudine non pacificata verso lo spazio circostante, si dispiega nella poesia dedicata ai «canti delle pazze»:
Nella grande casa in fondo al prato
si levavano i canti delle pazze
dapprima dolci e lenti, poi sul pianto
monotono un disperato urlo saliva
e scatenava il coro irto e selvaggio
Breve, e al cupo silenzio rinasceva
più straziato il lamento
Rattristava i sereni campi intorno
quel canto ed ignorava la pietà
ma le sventure ed i futuri mali
annunziava del tempo (p. 171)
Si tratta di una delle poche poesie romaniane non strettamente autobiografica, riferibile semmai all’osservazione di uno spazio esterno dolente la cui valenza si precisa non tanto grazie allo sguardo che si sofferma su un’abitazione in fondo a un prato, dato di per sé non inquietante, quanto attraverso l’insistito impiego di termini riconducibili al campo semantico uditivo che velano di tristezza «i sereni campi», creando una dissociazione tra paesaggio propriamente detto, percepito con la vista, e soundscape, paesaggio sonoro quale si delinea dal dolente «coro irto e selvaggio», denotatore della situazione presente e messaggero di tristi presagi futuri.
È possibile affermare che la disposizione poetica della Romano tenda al silenzio («solo il silenzio vive», leggiamo in conclusione della raccolta), cercando tuttavia nei suoi componimenti di preservare sempre l’esigenza di transitività comunicativa, come dimostra il suo orientarsi verso un linguaggio sostanzialmente d’uso comune e disinteressato a tanti sperimentalismi verbali coevi. Un silenzio che si pone come esigenza interiore, in certi casi difensiva e non, a differenza di tanta poesia novecentesca, come dichiarazione dell’inadeguatezza della parola a nominare, della sua impotenza ad aderire alla realtà.
La sfera visiva è essenzialmente circoscritta a effetti prevalentemente chiaroscurali marcati dalla presenza, ad esempio, delle ombre e della neve, elemento centrale dei prevalenti paesaggi invernali in opposizione all’«oro» degli scenari più assolati. Non abbondano dunque gli aggettivi coloristici, tra cui, oltre le già ricordate tinte bianche o dorate, spicca il rosso nelle sue varie sfumature (vermiglio ecc.), correlato ai «papaveri fatui» e al sangue.
Semanticamente più rilevante è l’ombra che presenta una doppia determinazione: è ciò che si oppone alla luce, ma è anche un’immagine illusoria, emblema della precarietà, dell’irrealtà o della mutevolezza [5]. Già nell’antichità le ombre erano studiate spesso come la seconda natura degli esseri e venivano associate alla morte. Perdere la propria ombra significava non esistere più. Il richiamo all’ombra, e - più in generale - all’immagine, è costante anche in tutte le tipologie testuali prese in esame da Lalla Romano: assume una sua rilevanza nel tessuto poetico come in quello narrativo, negli scritti saggistici come nei romanzi fotografici.
Una delle liriche più pregnanti a questo riguardo è Lontananza, tratta dalla giovanile raccolta Fiore (p. 109):
Quando davanti a me parli e sorridi
tu sei come l’immagine del sogno,
così vicina che si può toccare.
Ascolto la tua voce e so che è un bene
fuggevole; già sento che m’illuse
un’ombra, e vana fu la breve gioia.
Di chiara ascendenza classicheggiante, quasi una riscrittura da Saffo e Catullo [6], ma priva del riferimento alla gelosia, la poesia presenta la stretta contiguità esistente tra ombra e sogno, più volte riproposta dalla Romano, anche in altri contesti. Qui ad essere un’ombra è la persona amata, vicina e insieme sfuggente, in una felice indistinzione tra contesto onirico e realtà.
Le cromie chiaroscurali, del resto, caratterizzano la maggior parte delle poesia della scrittrice cuneese; limitata è pure la rappresentazione dell’olfatto e del gusto: nel primo caso ai denotativi «odor di fiori» (p. 26) e «profumo di fiore» (p. 28) si accosta «l’odore del corpo» (p. 25) atto a rappresentare un momento confusivo di unione totale, mentre l’area gustativa si materia di semplici antonimi come amaro/dolce, quest’ultimo aggettivo nettamente prevalente tra gli altri nelle sue diverse accezioni. Insieme al «dolce vino» (p. 78) e ai «dolci cieli» (p. 86) ritroviamo l’«amaro miele» (p. 151) sino all’efficace richiamo metaforico a «questa / uva del tempo / spremuta in furia» (p. 184).
A configurarsi invece come componente essenziale della poesia di Lalla Romano è la dimensione del tatto a partire dallo scarto positivo, a livello frequenziale, del lemma «mano» quasi sempre correlato, soprattutto nelle poesie che erano presenti anche nella prima raccolta, alla sfera erotica («brucia la mano che lo tocca», p. 17; «mani violatrici», p. 22; «mano contro al mio petto», p. 23) e in primo luogo all’amplesso amoroso (p. 105).
Centrale nei versi della Romano appare infatti il tema dell’ eros, affrontato in modo ossimoricamente inquieto e pudico, per cui le poesie di maggiore sensualità sono quasi sempre associate alla sfera onirica (si leggano ad esempio Vertigine, I sogni, I campi eterni, Un sogno, Il sogno). Nella “realtà del sogno”, l’autrice vive, in tutta la loro fisicità, delle esperienze e delle sensazioni, generalmente riconducibili all’ambito erotico, come se fossero reali, presentando talvolta allusivamente, in modo violento e predatorio, l’atto sessuale («Allor non invocato / tu entri nei miei sogni / e vinta mi accarezzi / con mani violatrici», Vertigine, vv. 5-8). Il sogno si inserisce entro una costruzione del tessuto lirico fondato sulla sovrapposizione tra il punto di vista attuale e quello del ricordo [7], inteso non come rimpianto o nostalgia, ma come recupero di quelle verità destinate a essere cancellate dalla corrosione del tempo e che in tal modo possono essere recuperate nel loro carattere rivelatore. È quanto si può riscontrare nella poesia Il pianto in cui nella dimensione onirica avviene un incontro con una persona, immerso nel totale silenzio e interrotto solo dalle lacrime del suo interlocutore. E ancora nella poesia I galli, il sogno è un rifugio sicuro («il sonno è dolce: tu non mi destare») in cui l’autrice si nasconde per sfuggire alla vita «greve». Il canto del gallo al mattino fa però svanire i sogni, sancendo l’illusorietà della sensazione di leggerezza provata durante la notte.
Tutte le poesie di Lalla Romano, pur nella diversità tra le varie raccolte, sono costruite intorno alla prevalente figura della similitudine, ponendo frequentemente come termini di paragone immagini zoomorfe [8]. Si legga, ad esempio, la seguente lirica:
Siedono i pensieri di pietra
Intorno, nella cava stanza
E ancor vi siedono
Quando levandosi al mattino
I sogni come grandi uccelli
Dispiegano le pigre ali
Sbattendole ai muri e dileguano
Dalla finestra aperta.
La quotidianità della vita diurna è appesantita dai pensieri che vengono metaforicamente associati alle pietre, caratterizzati dalla pesantezza, ma anche dall’immobilità (sopiti nella «cava stanza») cui si contrappongono i s...