«Ah, sì? – disse con un nuovo brusco sussulto – dov’è l’oratore, dunque, dov’è Lèbedev? Dunque Lébedev ha finito? Di che cosa ha parlato? È vero, principe, che una volta diceste che il mondo sarà salvato dalla bellezza? Signori – si mise a gridare a tutti – il principe afferma che il mondo sarà salvato dalla bellezza! E io affermo che ha idee giocose perché è innamorato. Signori, il principe è innamorato; me ne sono convinto poco fa, appena è entrato. Non arrossite, principe, mi fareste pena. Quale bellezza salverà il mondo? È Kolja che me l’ha riferito… Siete un fervente cristiano? Kolja dice che voi stesso vi dite cristiano. Il principe l’osservò con attenzione, ma non rispose».
In questo celebre passo de L’Idiota di Dostoevskij (tr. it. F. Faccioli, Rizzoli, Milano 2004, p. 458) a parlare è Ippolìt Terènt’ev, malato di tisi, «un giovane di diciassette, forse diciotto anni, dal viso intelligente ma dall’espressione perennemente corrucciata, sul cui volto la malattia aveva impresso i suoi terribili segni…». La polifonia dostoevskjana prende voce nel suo punto di vista, prossimo alla morte e alla disperazione, un punto di vista lucidissimo: chi può dire che il mondo, la nostra abitazione, la pace della nostra ricerca, il senso per la nostra vita, sarà salvato dalla bellezza, se non folle? Un innamorato, un cristiano, un “idiota”. Qualcuno che sente oltre la sfera della razionalità. Del resto l’innamoramento non è forse prossimo all’esperienza della bellezza, quasi a non potersene distinguere per la profonda parentela che li unisce? Inutilità, eventualità: non possiamo volerci innamorare, così come non possiamo evitare l’incontro con la bellezza, anche nel dolore. Si tratta di eventi che avvengono rompendo lo spazio-tempo dell’abitudine percettiva e gli schemi della vita, che quando si incrociano non sono soltanto inutili ma anche pericolosi, e si avvolgono l’uno nell’altro producendo ambiguamente esperienza di pienezza e desiderio di ulteriorità. Ci innamoriamo di ciò che è bello, è bello ciò di cui ci innamoriamo: in questi casi l’esperienza non è né soggettiva né oggettiva, e insieme è quanto di più profondamente, evidentemente, soggettivo e insieme oggettivo ci sia per noi. Ma perché sia il “mondo” a essere salvato dalla bellezza il principe non soltanto deve essere innamorato, deve anche assumere lo sguardo di Cristo. Solo da quel punto di vista la bellezza è trascendentale dell’essere: per lo sguardo di Dio tutto ciò che esiste è bello, perché tutto è stato creato dal suo amore. Cristo, che è Dio, ama le sue creature, che sono per lui vere, buone e belle. Si pongono a questo punto alcuni semplici problemi, che sono tra i maggiori della filosofia, perché gli esseri umani, nemmeno il principe Myskin tutto sommato, non sono il Cristo: il nostro non è lo sguardo di Dio, per noi non è vero che tutto è bello e buono, che «bellezza è verità, verità è bellezza», come vorrebbe Keats. Alla dimensione di “mondo”, alla dimensione trascendentale, forse si avvicina lo sguardo dei santi, sovente con tremore e circospezione, talvolta con meraviglia festiva. A noi resta il silenzio e la pietà («Il principe l’osservò con attenzione, ma non rispose»).
