Il tempo della fine
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Prossimità e distanza della figura di Gesù

Giancarlo Gaeta

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Il tempo della fine

Prossimità e distanza della figura di Gesù

Giancarlo Gaeta

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Il problema della vita di Gesù va posto nel modo più radicale, vale adire come poté porsi e di fatto si pose a quanti tra i suoi contemporaneiebbero la ventura di vederlo ed ascoltarlo.
Spogliato dal sistema di credenze che lo accompagna da sempre, l'«evangelo» è riproposto dall'autore nella sua figura originaria: racconto molteplice di una credenza segnata dall'eccesso degli atti, dalla parola che stupisce, dalle conflittualità insuperabili, dalla violenza della separazione, dallo sconvolgimento della resurrezione.
Ed è colto nel movimento significativamente contraddittorio che gli èproprio: l'«evangelo di Dio» proclamato da Gesù in vista dell'avvento diun regno di giustizia, trapassa nell'«evangelo di Gesù Cristo» inteso comeannuncio di ciò che la sua morte e resurrezione significa per i credenti, senza tuttavia che venga meno il convincimento di vivere oramai neltempo della fine, inconciliabile con la concezione lineare della storia.
Quanto alla realtà storica di quegli eventi, a ciò che Gesù in particolareha creduto e voluto, alla sua concezione del mondo e del tempo, da questirapidi schizzi emerge una personalità connotata dalla consapevolezza didover assolvere un compito radicale, che non ammette condizionamenti, sostenuta da una fede che contrasta l'accettazione dello stato attuale delmondo destinato a mutare radicalmente in forza del suo evangelo.

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Information

Publisher
Quodlibet
Year
2020
ISBN
9788822911261
1.
Follia e possessione
E i suoi, udite queste cose, uscirono per impadronirsi di lui; dicevano infatti: È fuori di sé.
Marco 3, 21
Tra i materiali tradizionali sulla vita di Gesù accolti nelle narrazioni evangeliche, l’episodio di Marco 3, 20-21 sorprende per la singolarità del contenuto: i familiari avrebbero cercato di sottrarlo al suo ministero giudicando folli i suoi comportamenti. Vero è che nella letteratura evangelica non mancano ulteriori attestazioni di incomprensioni, opposizioni e resistenze da parte del clan di appartenenza; ne abbiamo conferma dall’episodio della ripulsa di Gesù nella sua patria, dove a «scandalizzarsi di lui» sono gli abitanti di Nazaret, poiché con le sue «opere potenti» oltrepassava i limiti imposti dall’appartenenza familiare e sociale (Marco 6, 1-6). Tuttavia nel nostro caso, ed è unico nella letteratura evangelica, ad essere esplicitamente posta in questione è la normalità dello suo stato psichico a causa di ciò che fa, al di là di ciò che predica; attività che stava attirando su di lui un entusiasmo popolare risentito dalla sua gente come perturbante.
L’episodio si colloca subito a ridosso della sezione iniziale del racconto, con la quale l’evangelista ha fornito una rappresentazione essenziale della situazione drammatica destinata a svolgersi fino all’esito mortale. Dopo il battesimo nel Giordano e il soggiorno nel deserto, Gesù dà prova di sé in qualità di predicatore e, soprattutto, di esorcista e guaritore, provocando lo sbigottimento della gente di Cafarnao; si trova perciò subito [16] assediato da moltitudini che accorrono a lui portandogli ammalati e indemoniati. Fama che si sarebbe subito diffusa persino oltre i confini della Galilea, fino in Giudea, in Transgiordania e nel sud del Libano (3, 7 sgg.). A osservare invece con occhio critico i suoi comportamenti sono, oltre ai familiari, gli scribi dei farisei che, lungi dal lasciarsi attrarre dai gesti di potenza che ne accompagnano la predicazione, sono piuttosto attenti a rilevare affermazioni o comportamenti contrastanti con le disposizioni legali e perciò tali da denunciare la sostanziale falsità della sua pretesa profetica.
Questa complessa situazione è stata resa bene da Marco, grazie all’accostamento in uno stesso racconto (3, 20-35) di tradizioni originariamente indipendenti, attestanti le reazioni suscitate dall’attività di Gesù nei contemporanei. In particolare ha posto a contrasto il successo riscosso presso i ceti umili con il risentimento dei familiari e la critica degli esponenti della classe religiosa. Reazioni motivate ora dal conformismo sociale, ora dal conformismo religioso: i familiari si vergognano di lui e vorrebbero sottrarlo ad una pubblica disistima che ricadeva inevitabilmente su di loro; i farisei temono che la folla faccia propri comportamenti dissonanti con gli insegnamenti tradizionali. Motivazioni diverse, ma corrispondenti a preoccupazioni simili: liberandosi dai vincoli della famiglia in conseguenza della sua vocazione carismatico escatologica – «Chi è mia madre e i miei fratelli!», esclama al termine del racconto (3, 31-35) –, Gesù si collocava in una dimensione sociale anomala, che ne faceva uno sradicato indegno di reputazione, ma socialmente e religiosamente pericoloso nella misura in cui la sua predicazione otteneva grande risonanza. In effetti le accuse di disturbo mentale per un verso e di soggezione a potenze demoniache per l’altro convergono nell’evidenziare tale pericolosità: Gesù poteva apparire sia ai «suoi» sia alle autorità religiose in preda a forze oscure, che se per un verso ne facevano un emarginato, e dunque un soggetto socialmente debole da porre sotto controllo, gli fornivano d’altra parte poteri straordinari tali da suggestionare le folle.
Uno sguardo alla terminologia utilizzata per descrivere tale complessa situazione aiuta a cogliere meglio la questione [17] di fondo soggiacente al racconto. L’espressione «è fuori di sé» con cui i familiari giudicano lo stato di Gesù, traduce il verbo greco exístēmi, che designa uno stato di meraviglia, di stupore, di trance, nonché di pazzia. Nel Nuovo Testamento, particolarmente in Marco e nei due scritti di Luca, è normalmente utilizzato per segnalare lo stupore estatico da cui sono colte le persone testimoni di eventi prodigiosi (guarigioni, resurrezioni, epifanie ecc.) operati dal carismatico. È il caso ad esempio dell’effetto provocato dalla resurrezione di una ragazza in Marco 5, 42, i cui genitori «furono fuori di sé per l’estasi grande». Allo stesso modo, secondo Marco 6, 51, i discepoli che avevano assistito all’epifania di Gesù sulle acque cadono in uno stato di stupefazione. A determinare lo stato estatico non è in questi casi un’esperienza soggettiva, come per Pietro o per Paolo secondo il racconto degli Atti degli apostoli (10, 10; 22, 17), bensì un evento esterno vissuto come inconciliabile con l’ordine naturale delle cose; così in Luca 5, 26 si legge che, a seguito della guarigione del paralitico, «tutti furono presi da stupore e glorificavano Dio. E pieni di timore dicevano: “Oggi abbiamo visto cose straordinarie”».
In altri termini, si dà per acquisito che chi è in grado di provocare stati estatici negli altri mediante atti prodigiosi è posseduto da una potenza che eccede le capacità umane. Al riguardo negli Atti degli apostoli si trova il racconto esemplare di Simon Mago, un personaggio in cui la gente riconosceva la presenza della «potenza di Dio detta la grande», perché «da molto tempo li metteva fuori di sé con le sue magie». Ma ecco che, dopo aver ascoltato la predicazione di Filippo ed averne osservato le manifestazioni di potenza, egli si fa battezzare e diventa suo assiduo seguace, «a tal punto i segni e i grandi miracoli che vedeva accadere lo mettevano fuori di sé» (8, 9-13). Assistiamo qui al conflitto tra due carismatici, che si risolve a favore di Filippo in forza di un superiore potere estatico al quale Simone si sottomette, salvo tentare subito dopo di porsi al livello degli apostoli offrendosi di comprare da loro il potere di conferire lo Spirito santo (8, 18 sg.). Ma in tal modo egli svela la sua ambizione ad acquistare un superiore potere carismatico appropriandosi di quello che riteneva essere un rituale magico legato all’imposizione [18] delle mani, piuttosto che una forza intrinseca che poteva essere ricevuta soltanto come «dono di Dio» (8, 20).
In effetti l’autore di Atti è interessato a contrapporre, e lo fa ripetutamente, pratiche taumaturgiche operate sulla base di formule magiche di scongiuro o di rituali magici1, a quelle operate dai seguaci di Gesù di propria autorità sotto la diretta influenza dello Spirito santo. Distinzione che era tuttavia difficilmente apprezzabile da parte delle folle, esclusivamente interessate a valutare il potere di risanare e quindi disposte a lasciarsi prendere ora dai poteri del «mago» Simone ora da quelli del carismatico Filippo. Né la differenza era rilevante per le autorità, poiché si mirava comunque a produrre nelle folle uno stato di soggezione attraverso il quale veicolare l’adesione alla propria causa, per lo più connotata in senso politico-religioso. Pertanto, ad uno sguardo esterno siffatte pratiche potevano apparire, e spesso tali erano, più che atti di compassione verso i sofferenti, dei mezzi finalizzati a sedurre il popolo. «Seduttore» (plános) è in effetti definito Gesù dagli avversari in Matteo 27, 63 e «seduttore del popolo» in Giovanni 7, 12. Più tardi Giacomo sarà accusato, secondo una notizia riportata da Eusebio, di sedurre il popolo dopo essere stato a sua volta sedotto da Gesù2; e «seduttori» saranno a loro volta definiti da Flavio Giuseppe i profeti messianici e i capi zeloti, i quali «fingendo di essere ispirati e macchinando disordini e rivoluzioni, spingevano il popolo al fanatismo religioso»3. Non sorprende perciò che nel secondo secolo il giudaismo ufficiale abbia fatto cadere su Gesù l’accusa di magia, fatta propria dalla polemica pagana.
È di questo che ci parla la pericope di Marco, cioè del giudizio circa l’origine, e perciò lo scopo, dei poteri di cui Gesù disponeva con tale autorità da suscitare nella gente «stupefazione» e «sbigottimento» (1, 22.27); poteri che proprio per questo rendevano problematica la sua figura agli occhi dei custodi della tradizione. Si tratta di una situazione assai frequente nelle narrazioni evangeliche, interessate a rilevare il contrasto [19] tra l’ammirazione per Gesù della gente semplice e l’ostilità dell’ufficialità giudaica, ma nel nostro caso il racconto lascia trasparire una maggiore problematicità. L’indizio più rilevante è indubbiamente la presenza di quel giudizio sorprendente dei familiari su Gesù, giudizio reso esplicito subito dopo dall’affermazione perentoria dei farisei: «Ha uno spirito impuro» (3, 30). Ci viene dunque rappresentata una convergenza da parte di soggetti sociali forti nel rilevare quello che noi chiameremmo uno stato patologico in Gesù, come a voler certificare un suo estremo stato di isolamento, precariamente e penosamente compensato dal successo di popolo.
Per apprezzare la singolarità del racconto marciano basta peraltro un rapido confronto con i passi paralleli di Matteo 12,22-32 e Luca 11,14-23. In questi non solo manca la ripresa dell’accusa dei familiari, ma anche lo svolgimento della disputa sulla possessione demoniaca ha subìto mutamenti importanti, soprattutto per quel che riguarda la conclusione; cosa che ha comportato lo spostamento del detto sulla bestemmia contro lo Spirito santo e di conseguenza l’eliminazione della ripresa dell’accusa di possessione nella formulazione del v. 30. D’altra parte, venuto meno il riferimento all’accorrere della folla e all’azione dei familiari, sostituito da un generico racconto di guarigione che fa da cornice alla disputa, anche il passo sulla vera famiglia di Gesù, che conclude la pericope marciana, poteva trovare migliore collocazione altrove. Così del racconto di Marco altro non resta che un esempio dell’opposizione dei farisei a Gesù sotto forma di controversia, dalla quale egli esce facilmente vincitore. In altri termini, Matteo e Luca, modificando l’articolazione del racconto di Marco o, meglio, preferendo ad esso quello più lineare offerto dalla Fonte dei detti4, lo hanno depotenziato della sua carica problematica per meglio esaltare la superiorità di Gesù sui suoi avversari.
Con questo non intendo sostenere che Marco abbia composto il brano secondo una sua specifica intenzione, anche se [20] complessivamente il suo Vangelo mi pare contrassegnato da un tono più drammatico rispetto agli altri. Direi piuttosto che è stato meno selettivo nel valutare le sue fonti e anche meno propenso a modificarle per renderle funzionali ad un intento letterario e catechetico. Questo è facilmente rilevabile nel nostro brano, dove gli elementi costitutivi del racconto più che fondersi in un’unità letteraria si aggiungono l’uno all’altro, lasciando al lettore il compito di connetterli tra loro. Si è in effetti indotti a collegare l’iniziale azione intrapresa dai familiari di Gesù – lasciata dall’evangelista senza esito così come deve averla trovata nella propria fonte – all’episodio finale contenente il detto sulla vera parentela, chiaramente appartenente ad altra tradizione. In questo modo la memoria del conflitto interno al clan conservata dalla tradizione, su cui le altre narrazioni hanno trovato opportuno tacere, trova spiegazione non solo in comportamenti di Gesù giudicati anomali, ma altresì in una sua presa di posizione incompatibile con il mantenimento dell’assetto sociale, poiché ne...

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