Grazia Deledda: Opere complete di prosa e poesia
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Grazia Deledda

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Grazia Deledda

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Grazia Deledda, in lingua sarda, Gràssia o Gràtzia Deledda (1871 – 1936), è stata una scrittrice italiana, vincitrice del Premio Nobel per la letteratura 1926. È ricordata come la seconda donna, dopo la svedese Selma Lagerlöf, a ricevere questo riconoscimento, e la prima italiana. David Herbert Lawrence, nel 1928, dopo che Deledda aveva già vinto il Premio Nobel, scrive nell'Introduzione alla traduzione inglese del romanzo La Madre: «Ci vorrebbe uno scrittore veramente grande per farci superare la repulsione per le emozioni appena passate. Persino le Novelle di D'Annunzio sono al presente difficilmente leggibili: Matilde Serao lo è ancor meno. Ma noi possiamo ancora leggere Grazia Deledda, con interesse genuino». Parlando della popolazione sarda protagonista dei suoi romanzi la paragona a Hardy, e in questa comparazione singolare sottolinea che la Sardegna è proprio come per Thomas Hardy l'isolato Wessex. Solo che subito dopo aggiunge che a differenza di Hardy, «Grazia Deledda ha una isola tutta per sé, la propria isola di Sardegna, che lei ama profondamente: soprattutto la parte della Sardegna che sta più a Nord, quella montuosa». E ancora scrive: «È la Sardegna antica, quella che viene finalmente alla ribalta, che è il vero tema dei libri di Grazia Deledda. Essa sente il fascino della sua isola e della sua gente, più che essere attratta dai problemi della psiche umana. E pertanto questo libro, La Madre, è forse uno dei meno tipici fra i suoi romanzi, uno dei più continentali».INDICE:VERSI E PROSE GIOVANILIALTRI VERSIE PROSE GIOVANILISANGUE SARDOMEMORIE DI FERNANDAVENDETTE D'AMORENUOROLEGGENDE SARDESTELLA D'ORIENTERACCONTI SARDIL'OSPITELE TENTAZIONIDOPO IL DIVORZIOLA REGINA DELLE TENEBREANIME ONESTELA VIA DEL MALEAMORI MODERNIL'OMBRA DEL PASSATOIL NONNOSINO AL CONFINENEL DESERTOCOLOMBI E SPARVIERICANNE AL VENTONOSTALGIEMARIANNA SIRCAFIOR DI SARDEGNAIL RITORNO DEL FIGLIOLA BAMBINA RUBATAIL VECCHIO DELLA MONTAGNANAUFRAGHI IN PORTOL'EDERAIL NOSTRO PADRONELE COLPE ALTRUILA MADREI GIUOCHI DELLA VITACHIAROSCUROIL FANCIULLO NASCOSTOCATTIVE COMPAGNIEL'INCENDIO NELL'OLIVETOIL SEGRETO DELL'UOMO SOLITARIOIL DIO DEI VIVENTIIL FLAUTO NEL BOSCOLA DANZA DELLA COLLANALA FUGA IN EGITTOIL SIGILLO D'AMOREANNALENA BILSINIIL VECCHIO E I FANCIULLIIL TESOROELIAS PORTOLUNELL'AZZURROCENERELA GIUSTIZIALA CASA DEL POETAIL DONO DI NATALEGIAFFÀIL PAESE DEL VENTOLA VIGNA SUL MARESOLE D'ESTATEL'ARGINELA CHIESA DELLA SOLITUDINECOSIMAIL CEDRO DEL LIBANO

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Information

Publisher
l'Aleph
Year
2020
ISBN
9789176377826

MEMORIE DI FERNANDA

(1889)
Oh! fu il fatto più atroce... il fatto più empio di cui mai si udisse.Shakespeare, Il re Riccardo III

I

...Allorché mi svegliai vidi ch'io era in un'angusta cameretta, se così potevasi chiamare quella bruna e fetida muda.
Il suolo, le pareti, la volta scomparivano sotto uno strato di musco verde linfatico e causato dall'eccessiva umidità; da un lato v'era una porta di ferro con catenacci arrugginiti, dall'altro una finestra con grossa inferriata.
Il letticciuolo di legno ove ero stesa io, una sedia di paglia, vecchia e tarlata, un tavolino dello stesso genere e stato, un'anfora e una tazza ne erano i mobili.
Quel bugigattolo conteneva un solo bene: l'abbondante luce che si precipitava dalla gran finestra di stile gotico.
Dapprima credetti di continuare a dormire e sognare, ma mi accorsi che era realtà dalla troppa lunga durata di quella specie di sonno.
Non ostante non mi mossi se non dopo molto tempo.
Ma quando m'inchinai per cercare nella sedia la mia veste bianca, gettai un grido.
Avevo trovato una sottana di tela azzurra con una cintura di cuoio nero, da cui pendeva un cordonetto al quale era attaccata una piastra rotonda col numero 17.
Calze di lana azzurra e scarpette di cuoio nero completavano quell'abbigliamento che mi aveva strappato un grido.
Perché?
Avevo riconosciuto la toeletta prescritta alle prigioniere di San Makao... E che cos'era questo San Makao?
Era una torre nera, alta e merlata che sporgeva tra due orribili rupi e guardava sul mare.
Là si custodivano i prigionieri dei dintorni.
Una leggenda diceva che una volta, nel medio evo (?!.) là v'era un castello abitato da misteriosi personaggi.
Ma un nebuloso e terribile delitto vi era stato commesso, e d'allora il castello fu abbandonato.
Gli anni, i secoli avevano distrutti i giardini e resi ruderi le altre torri.
Ma un giorno il governo poco superstizioso in fatto di leggende e molto in fatto di quattrini, aveva fatto esplorare l'unica e ancora forte torre che restava, e vedendo che ciò procurava una piccola economia ne aveva fatto una prigione.
Stuzzicata dalla strana leggenda, una volta io avevo voluto visitare da cima a fondo la torre di San Makao, e certo, mi trovai un po' delusa nel trovarvi umidi e malsane celle ammobigliate sullo stesso stampo di quelle dove allora mi trovavo...
Mi vestii silenziosamente. Avevo fame.
Mangiai con ribrezzo un tozzo di pane nero che trovavasi sopra la tavola, e bevetti una tazza d'acqua.
Il mio pensiero ancora confuso non si posava in nessun luogo, sentivo come una folla di idee indistinte ballare la ridda del caos nel mio cervello.
Ebbi un sorriso amaro.
Barcollando mi avvicinai alla finestra e cercai di aprirla. Essa cedette ai miei sforzi.
Allora mi appoggiai al davanzale di mattoni corrosi e alle sbarre di ferro, e mi strinsi la fronte fra le mani agghiacciate.
Disotto a me il mare delle coste orientali di Spagna si stendeva limpido, azzurro, colle sue onde brillanti, colle sue lunghe striscie di spuma argentea.
E al di sopra, nel cielo turchino, il sole, d'autunno, un po' pallido, vibrava i suoi raggi d'oro sul mare infinito...
Un alito fresco di vento, impregnato di profumi marini, passò sulla mia arida fronte, fra i ricci dei miei capelli biondi.
Fu come un soffio divino.
Le idee mi tornarono; mi ricordai di tutto e fremetti.
Sorrisi ancora amaramente.
Stesi ambe le mani verso il mare, verso il cielo, nello infinito, poi col pugno chiuso mi battei la fronte: la fronte pallida, ardente, ove era passato un pensiero sanguinoso, terribile.
Ma per spiegarvi quel pensiero bisogna che io ritorni indietro e vi narri una storia di orrore...

II

Ero nata a Berlino.
Mio padre era protestante e si chiamava Fritz Guëzmburg.
Io non avevo conosciuta mia madre, ma sapevo che era ebrea e si chiamava Sarah von Mark.
Sino ai dieci anni risiedetti a Berlino.
Ho pochi ed indistinti ricordi circa la mia infanzia.
Mi ricordo solamente che mio padre era giovanissimo; si era ammogliato a venti anni, nobile, straricco ed aristocratico. Percorreva la carriera diplomatica.
Abitavamo in uno stupendo palazzo di marmo, dietro cui si stendevano magnifici giardini.
Non andavo a scuola. Una bella signora che abitava un appartamento del nostro palazzo, m'insegnò a scrivere, a leggere, a suonare e a ballare.
Quella stessa signora mi conduceva a chiesa, a passeggiare e a visitare le mie piccole amiche, sempre in bella carozza di seta a due cavalli.
Avevo cameriere e abiti di velluto: era a mia disposizione un grande appartamento mobiliato con lusso.
Facevo colazione e pranzo con mio padre, che non invitava mai nessuno ai nostri pasti luculliani.
Fritz Guëzmburg era, come ho detto, giovinissimo, e aristocratico sino all'estremità delle unghie.
Aveva capelli e baffi morbidi e biondi, la pelle bianca, pallida, il profilo regolare, e grandi occhi verdi grigi, contorniati da ciglia brune, e da un cerchio leggermente lucido.
Quei grandi occhi mi mettevano un brivido ogni volta che si volgevano su me. Si è che avevano una strana impressione, un'impronta di cupa tristezza; un raggio delle passioni di Guëzmburg, che passava traverso le ciglia semi-chiuse continuamente.
Egli parlava poco, non rideva mai, e una strana linea si disegnava nella sua fronte pallida, fra le sopraciglia nere e aggrottate. Era sempre vestito di nero.
Io l'amavo poco, mi pareva di amare di più la mia amica Edvige Scoël, e il mio pappagallo Giove: e del resto anche Fritz mi mostrava poca affezione, benché mi facesse dare una educazione brillante.
A dieci anni cominciavo ad avere del chic.
Suonavo e ballavo maravigliosamente, dipingevo e balbettavo qualche poco di francese, di inglese e italiano. Ordinavo le mie toelette e leggevo giornali colle loro rispettive appendici.
Guëzmburg diceva che avevo dell'ingegno precoce, e la mia institutrice (mi pare che si chiamasse Lena Wintorg) lo affermava...
Infine io vivevo felice nella mia solitudine, in mezzo al lusso delle sale del mio palazzo e dei domestici in livrea, colle mie bambole più alte di me e coi fiori.
Io amavo i fiori dall'acre odore, dalle foglie color sangue, specialmente i geranii e i cactus.
Ma un giorno la mia felicità fu turbata.
Guëzmburg mi disse:
– Fernanda, tra un mese dovremo lasciare Berlino.
Guardai stupefatta mio padre.
– Perché? – domandai.
Fritz mi guardò anch'egli coi suoi occhi grigi, privi d'ogni raggio di gioia, ma non rispose.
– Perché? – ripetei.
– Andremo in Ispagna, – seguitò poi – sono stato addetto all'ambasciata germanica presso la Corte di Sua Maestà Cattolica.
– A Madrid?
Fritz non rispose. Uscì stringendosi nelle spalle.
Io mi sdraiai più comodamente sul divano del mio salotto e seguitai a leggere le notizie del Wossische Zeitung.
In verità, poco mi premeva l'andare in Ispagna o rimanere a Berlino, purché avessi dei vestiti, delle bambole, dei giornali e dei fiori rossi...
La nostalgia per la mia fulva patria non sarebbe di certo passata nella mia anima.
Che volete?
Avevo dieci anni e leggevo le appendici dei giornali!..

III

Due mesi dopo, io e Fritz eravamo a bordo della Marie; una stupenda nave che viaggiava da Marsiglia ad Alicante.
Prima eravamo passati a Parigi, dove mio padre aveva affari da sistemare.
Non ho nessun ricordo della gran città, perché l'attraversai in carrozza, e il giorno che vi stetti, stetti rinchiusa nell'albergo, in una camera le cui pareti mi moltiplicavano all'infinito colle loro grandi specchiere di St. Gobain a cornici di bronzo.
Poi andammo a Marsiglia e partimmo sulla Marie.
Annottava.
S'era in alto mare vicini alle ...

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