CAPITOLO 1 PRATICHE DIDATTICHE
Valentina Biino
1.1 LA DIMENSIONE COGNITIVA, AFFETTIVA E SOCIALE DEL BAMBINO
Giochi ed esercitazioni devono insegnare perché il bambino piccolo sente e ritiene che imparare sia giocare. E quando impara, gioca. Mentre invece non è sempre vero il contrario: giocare non significa necessariamente imparare. Lo dimostra il fatto che i bambini piccoli spesso, senza che si riesca a capire una chiara motivazione, smettono di utilizzare un giocattolo pensato proprio per loro con lo scopo preciso di assolvere a una funzione: incastro, causa-effetto, seriazione o altro ancora.
Perché? Perché il bambino piccolo non prova un interesse adeguato al giocattolo appena regalato? Per quale motivo, dopo qualche breve utilizzo, il bambino si stanca?
Forse il gioco più bello per i bambini è imparare. E più sono piccoli, più sono convinti che imparare sia divertente. E più è facile per loro trovarsi a conoscere qualsiasi cosa.
Sono più di cent’anni che nella scuola dell’infanzia il bambino viene educato a un agire secondo la propria natura, ricca di potenzialità inespresse e impensate, di capacità evidenziabili, di rigore e impegno. Ma in questi anni trascorsi abbiamo imparato che egli può molto di più.
Il bambino può andare oltre a un materiale per lui studiato che lo prepari agli apprendimenti futuri.
I professionisti del settore perseverano con tutta la loro grazia e determinazione a fornire ai bambini un materiale sempre più preciso, di una misura sempre più giusta a compiere quel passo miracoloso che gli consenta l’apprendimento. Antonio Calvani definisce la didattica come la scienza teorico-pratica che si occupa di progettare, allestire, valutare ambienti atti a favorire processi acquisitivi. L’allievo è molto più di un soggetto attivo nella relazione educativa se pensiamo che lo scopo del nostro insegnamento sia dotare le persone di competenze spendibili in contesti non scolastici o, semplicemente, un domani.
Di tutte le creature, solo l’uomo è dotato di corteccia. Il livello più alto di sviluppo del cervello è la corteccia cerebrale. Ed egli gode da solo di tre funzioni che sono di natura motoria. Così il bambino può camminare, correre, saltare in posizione eretta. E in schema incrociato, muovendo l’arto superiore e inferiore opposto. Può parlare una lingua codificata. Due, tre, quattro. Può scrivere. Queste capacità fisiche appartengono unicamente all’uomo. E il legame tra intelligenza e mobilità sembra la cosa più singolare. Oggi l’apprendimento motorio non è più ritenuta una capacità coordinativa, ma un vero e proprio processo cognitivo.
Lo scopo dell’impegno verso l’educazione al movimento è duplice: migliorare la condizione fisica e mentale ed educare al benessere affinché credenze, comportamenti, ovvero disposizioni interne ed emozioni, creino un atteggiamento positivo verso l’attività motoria, perché essa rimanga un’esperienza da portare avanti per tutta la vita. Comunque vada.
In questo senso l’attività fisica è educativa. Essa non coincide necessariamente con lo sport, che può peraltro non essere educativo, sebbene oggi tenda a formare atleti secondo parametri socialmente e universalmente accettabili. Scuola, gruppi giovanili e tante altre agenzie di socializzazione primaria, essendo frequentemente a carattere sedentario, hanno suggerito la necessità di aprire ai bambini le attività sportive alle sezioni mini degli sport individuali e di squadra che garantiscono la pratica dell’attività fisica mentre preparano più o meno precocemente a prestazioni buone, soddisfacenti e a risultati molto spesso gratificanti.
1.2 GLI “STRUMENTI” DEL LAVORO
Gli strumenti del nostro lavoro sono sempre la cordicella metrica, un cronometro ben tarato e il fischietto? Certo, ma c’è dell’altro
Se si considera l’importanza di questi strumenti che consentono di portare in campo l’oggettività e quel minimo di scientificità di cui un allenatore deve disporre, la cordicella metrica, un cronometro ben tarato e magari un rilevatore del lattato, costituiscono i mezzi più semplici con i quali ogni pratica può spaziare.
“Ogni” presuppone una quantità interessante di procedure da scegliere; noi insegnanti ormai ne conosciamo molte, ma perché non sono altrettanto applicate?
Per quali difficoltà? Qual è il passaggio mancante?
Ciò che permette di superare il divario tra il sapere e il saper “far fare” è mettere in pratica ciò che si conosce. Esercitare ciò che si ha imparato. E da lì approfittare dell’instaurarsi dei diversi nessi che si vengono a creare tra gli aspetti di un contenuto e l’altro.
Se si partecipa a uno stage, se ci si sofferma sullo studio di un gesto atletico che può cambiare la visione di una pratica di insegnamento, allora bisogna cambiarla. Insegnare subito ciò che si è appreso; provare sul campo ciò che si è ricercato, superando il noto di un insegnante dal quale è sempre più difficile allontanarsi.
“Portai in campo due tavole verticali con applicate su ciascuna tre palline da tennis. Giravano su loro stesse come le unità di un pallottoliere. Lo scopo era che i bambini simulassero con la racchetta l’effetto top spin da imprimere alla pallina. Un palleggio e un dritto sul pallottoliere; un palleggio e un rovescio sulla tavola. Capii che era una simulazione perfetta; un rinforzo ipercorretto che presto si sarebbe riprodotto sui colpi veri, dandogli quell’effetto che cercavo senza che nemmeno se ne accorgessero. E mentre provavano la novità della mia ricerca sullo spin, li sentii cominciare a contare i punti, imbastire una sorta di partita a rotazione sulle quattro zone del campo. Quella spontanea competizione accese l’esercizio di un agonismo non previsto, ma necessario, che rese lo spin aggiungendo alla velocità della palla una rotazione su se stessa non ancora mai vista.”
Un nesso reso esplicito dall’esecuzione autonoma e significativa dell’esercizio.
Occorre osservare il lavoro dei bambini, senza interromperlo. Aspettare a correggere l’allievo, rispettarlo quando si riposa, quando guarda gli altri lavorare. Il tempo è una variabile importante nell’insegnamento. Fin da principio occorre semplicemente fondare la pratica del proprio insegnamento su due principi del comportamento umano:
1.3 VALORIZZAZIONE PERSONALE E DIVERTIMENTO
L’insegnante può creare un “certo clima” che ha un impatto sulla valutazione che l’allievo dà di quel contesto. In questo senso diventa importante il ruolo dell’insegnante. L’arma forte è la relazione perché ha una componente grande di affettività. Il maestro ha molte occasioni e disparati contesti per agire sulla relazione positiva con il proprio allievo; i momenti ludici della lezione, gli attimi precedenti le gare, i tempi veri e propri delle stesse…
È di fondamentale importanza non incrinare in alcun modo ciò che si costruisce a “bocce ferme”. Perciò anche le osservazioni, le valutazioni che talvolta si esprimono, non andrebbero mai rivolte all’allievo, ma piuttosto al compito. La persona non andrebbe toccata, anche quando la valutazione è stata positiva. Si può dire:
“Brava, sei stata brava!”
La persona sente di essere stata brava a giocare, a venire, a stare attenta… tutti compiti.
Poi aggiungere:
“Sono proprio contenta!”
Quando si esprime un apprezzamento positivo, se ne ricava l’occasione per avvicinarsi alla persona.
La mancanza di valorizzazione personale è causa spesso di frustrazione, condizione in cui si trova l’individuo quando è ostacolato nella soddisfazione dei propri bisogni. Essa è legata:
•all’aggressività: i bambini non mascherano questo sentimento come gli adulti;
•alla repressione: l’inibizione volontaria di un impulso per ridurre l’ansia e mantenere integra l’autostima.
In contesti di insegnamento, può capitare che si chieda al bambino di compiere un’azione diversa da quella che vorrebbe in quel momento e ciò ridesta il problema della ricompensa o punizione.
Esaminiamo per un attimo la situazione. Il bambino non vuole compiere un’azione richiesta dall’adulto, quest’ultimo lo minaccia con una punizione, strumento di potere posseduto dall’adulto.
Il bambino in questo modo vive due situazioni a ...