L'investitore intelligente
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L'investitore intelligente

Aggiornata con i nuovi commenti di Jason Zweig

Benjamin Graham

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Benjamin Graham

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Benjamin Graham, il più grande consulente finanziario del Novecento, ha istruito e ispirato gli investitori di tutto il mondo. La sua filosofia del "value investing", che tutela l'investitore dagli errori più gravi e gli insegna a sviluppare strategie a lungo termine, ha fatto di questo classico la bibbia del mercato azionario fin dalla sua prima pubblicazione nel 1949. Non a caso Warren Buffett lo ha definito "il miglior libro sugli investimenti che sia mai stato scritto". Nel corso degli anni, gli sviluppi del mercato hanno poi dimostrato l'efficacia delle strategie proposte da Graham. Preservando l'integrità del testo originale, questa edizione riveduta dal noto giornalista finanziario Jason Zweig, inquadra la trattazione nel contesto odierno, traccia parallelismi tra gli esempi di Graham e i grandi temi dell'economia di oggi, e offre ai lettori un quadro più esteso delle possibili applicazioni dei suoi principi. Attuale e indispensabile, questa edizione del classico di Graham è il libro più importante che possiate leggere per capire come si muovono i mercati finanziari e per centrare i vostri obiettivi.

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Information

Publisher
Hoepli
Year
2020
ISBN
9788820398330
CAPITOLO 1
Investimento e speculazione: i risultati che l’investitore intelligente può attendersi
Questo capitolo elencherà i principi che saranno poi esposti nel resto del libro. In particolare desideriamo sviluppare fin dall’inizio la nostra idea della strategia di portafoglio più appropriata per l’investitore individuale e non professionista.
Investimento e speculazione
Cosa intendiamo con «investitore»? In tutto il corso di questo libro il termine sarà usato in opposizione a «speculatore». Già nel 1934, nel nostro testo Security Analysis,1 tentavamo una formulazione precisa della differenza tra i due termini, scrivendo: «Un’operazione di investimento è un’attività che, dopo un’analisi approfondita, promette la sicurezza del capitale e un rendimento adeguato. Le operazioni che non soddisfano questi requisiti sono speculative.»
Siamo rimasti tenacemente fedeli a questa definizione per i successivi 38 anni, ma vale la pena di notare la profonda trasformazione dell’uso del termine «investitore» in questo arco di tempo. Dopo il grande crollo del 1929-1932 molte persone consideravano speculative per natura tutte le azioni ordinarie. (Una delle massime autorità nel campo sentenziò che si poteva investire solo in obbligazioni.2) Così, in seguito abbiamo dovuto difendere la nostra definizione di investimento dall’accusa di essere troppo ampia.
Oggi la nostra preoccupazione va nel senso opposto. Dobbiamo impedire che i lettori prendano per buono il gergo comune che applica il termine «investitore» a chiunque operi sul mercato azionario. Nell’edizione precedente citavamo questo titolo apparso sulla prima pagina del principale quotidiano finanziario statunitense a giugno del 1962:
I PICCOLI INVESTITORI SONO RIBASSISTI,
VENDONO SPEZZATURA ALLO SCOPERTO
Nell’ottobre 1970 lo stesso quotidiano pubblicò un editoriale in cui criticava gli «investitori incoscienti», che in quel momento erano impegnati a comprare.
Queste citazioni illustrano bene la confusione che da molti anni domina l’uso dei termini «investimento» e «speculazione». Pensiamo alla definizione di investimento da noi proposta poco fa e confrontiamola con la vendita di alcune azioni da parte di un comune cittadino inesperto, che non sa neppure cosa sta vendendo ed è convinto, su base perlopiù emotiva, che riuscirà a ricomprarle a un prezzo molto più basso. (Non è irrilevante notare che, quando uscì quell’articolo nel 1962, il mercato aveva già vissuto un forte calo e ora si preparava a un rialzo ancor più grande. Era il momento peggiore possibile per lo short selling.) In un senso più generale, la definizione successiva di «investitori incoscienti» potrebbe essere vista come una ridicola contraddizione in termini – qualcosa del tipo «avari spendaccioni» – se questo uso errato del linguaggio non fosse così in malafede.
Il giornale usava il termine «investitori» in questo contesto perché, nel linguaggio semplice di Wall Street, chiunque compri o venda un titolo è diventato un investitore, a prescindere da quello che compra, o per quale scopo, o a quale prezzo, in contanti o a margine. Confrontiamo questa situazione con l’atteggiamento dell’opinione pubblica nel 1948, quando oltre il 90 per cento degli intervistati si diceva contrario all’acquisto di azioni ordinarie.* Effettivamente è paradossale (ma non sorprendente) che gli acquisti di azioni di ogni tipo fossero quasi universalmente considerati altamente speculativi o rischiosi in un’epoca in cui le azioni erano molto attraenti e alla vigilia del periodo di maggiore crescita della storia; all’inverso, il fatto stesso che fossero avanzate fino a livelli indubbiamente pericolosi a giudicare dall’esperienza passata le trasformò successivamente in «investimenti», trasformando in «investitori» l’intero pubblico degli acquirenti di azioni.
La distinzione tra investimento e speculazione nelle azioni ordinarie è sempre stata utile e la sua scomparsa è motivo di preoccupazione. Abbiamo detto ripetutamente che Wall Street come istituzione farebbe bene a ripristinare questa distinzione e a sottolinearla in tutte le sue comunicazioni con il pubblico. Altrimenti un giorno le borse mondiali potrebbero essere incolpate di gravi perdite speculative, le cui vittime non erano state avvertite a sufficienza. Paradossalmente, anche qui, gran parte dei recenti imbarazzi finanziari di alcune aziende che operano in borsa sembrano provenire dall’inclusione di azioni speculative nei loro fondi di capitali. Confidiamo che i lettori di questo libro maturino una percezione abbastanza chiara dei rischi insiti nelle transazioni azionarie: rischi che sono inseparabili dalle opportunità di profitto che offrono e, al pari di queste ultime, vanno considerati nei calcoli dell’investitore.
Ciò che abbiamo appena detto indica che potrebbe non esistere più una strategia di investimento concreta che comprenda azioni ordinarie rappresentative: nel senso che si può sempre aspettare di comprarle a un prezzo che non implichi il rischio di una perdita di mercato o «quotazionale» tanto ingente da preoccupare. Nella maggior parte dei periodi, l’investitore deve riconoscere l’esistenza di un fattore speculativo nelle azioni che detiene. Il suo compito è mantenere questa componente entro limiti ristretti e tenersi preparato finanziariamente e psicologicamente a risultati avversi di breve o lungo periodo.
Vanno aggiunti due capoversi sulla speculazione azionaria di per sé, distinta dalla componente speculativa oggi insita nella maggior parte delle azioni rappresentative. La speculazione esplicita non è né illegale, né immorale, né (per la gran parte delle persone) capace di far ingrossare il portafoglio. Anzi, un po’ di speculazione è necessaria e inevitabile, perché in molte situazioni azionarie ci sono concrete possibilità di profitto e di perdita, e i relativi rischi devono essere assunti da qualcuno.* Esiste una speculazione intelligente così come esiste un investimento intelligente. Ma ci sono molti modi in cui la speculazione può mancare di intelligenza. I principali sono: (1) speculare quando si pensa di stare investendo; (2) speculare sul serio anziché come passatempo, quando non si possiede la necessaria competenza; e (3) rischiare con la speculazione più soldi di quanti ci si possa permettere di perdere.
Nella nostra ottica di prudenza, ogni persona non professionista che operi a margine dovrebbe riconoscere che di fatto sta speculando, e il suo broker è tenuto a dirglielo. E chiunque compri un titolo azionario cosiddetto «caldo», o compia un acquisto analogo, sta speculando o giocando d’azzardo. La speculazione è sempre affascinante e può essere molto divertente finché si riescono a prevenire le mosse del mercato. Se volete tentare la fortuna, mettete da parte una porzione – più sarà piccola e meglio è – del vostro capitale in un fondo separato, appositamente destinato a questo scopo.
Mai aggiungere altri soldi a quel conto solo perché il mercato è salito e inizia a dare profitti (quello è il momento giusto per togliere denaro dal proprio fondo speculativo). Mai mescolare le operazioni speculative e di investimento nello stesso conto, né in nessuna area del vostro pensiero.
I risultati che l’investitore difensivo può attendersi
Abbiamo già definito l’investitore difensivo come un investitore interessato primariamente alla sicurezza e alla libertà dalle scocciature. In generale, quale strada dovrebbe seguire e quali rendimenti può aspettarsi in «condizioni di media normalità», sempre che condizioni del genere esistano davvero? Per rispondere a queste domande considereremo dapprima quanto da noi scritto sull’argomento sette anni fa, poi vedremo che cosa è cambiato da allora nei fattori che governano il rendimento atteso per gli investitori, e infine ci chiederemo che cosa l’investitore dovrebbe fare e cosa è lecito si aspetti nelle condizioni attuali (inizio 1972).
1. Cosa dicevamo sei anni fa
Raccomandavamo all’investitore di suddividere il capitale tra obbligazioni high-grade e le principali azioni ordinarie; che la proporzione dedicata alle obbligazioni non sia mai inferiore al 25 per cento o superiore al 75 per cento, mentre l’inverso vale di necessità per la componente azionaria; che la sua scelta più semplice sarebbe mantenere una proporzione del 50-50 tra le due, con aggiustamenti per ripristinare la parità quando gli sviluppi del mercato l’abbiano alterata del 5 per cento circa. Come strategia alternativa, l’investitore può scegliere di ridurre la componente azionaria al 25 per cento «se gli sembra che il mercato sia pericolosamente alto», mentre può alzarla fino al massimo del 75 per cento «se pensa che un calo dei prezzi delle azioni le renda sempre più attraenti.»
Nel 1965 l’investitore poteva ottenere circa il 4,5 per cento sulle obbligazioni tassabili high-grade e il 3,25 per cento sulle buone obbligazioni non tassabili. Il dividendo delle principali azioni ordinarie (con il DJIA a 892) non superava il 3,2 per cento. Questo fatto, insieme ad altri, suggerisce cautela. Sottintendevamo che «ai livelli normali del mercato» l’investitore avrebbe potuto ottenere un dividendo iniziale tra il 3,5 e il 4,5 per cento sull’acquisto di azioni, cui aggiungere un aumento continuo del valore sottostante (e del «prezzo normale di mercato») di un listino rappresentativo di circa lo stesso valore, ottenendo così un rendimento complessivo da dividendi e rivalutazione di circa il 7,5 per cento l’anno. La divisione al 50-50 tra obbligazioni e azioni avrebbe reso circa il 6 per cento al lordo delle imposte. Aggiungevamo che la componente azionaria avrebbe dovuto comprendere sufficienti tutele contro la perdita di potere d’acquisto causata dall’inflazione su larga scala.
È da notare che questi calcoli aritmetici indicavano l’aspettativa di un tasso di avanzamento del mercato azionario molto inferiore a quello effettivamente verificatosi tra il 1949 e il 1964. Quel tasso aveva fatto registrare una media molto superiore al 10 per cento per il complesso dei titoli inclusi nel listino, ed era quasi universalmente considerato una sorta di garanzia per la possibilità di contare in futuro su risultati altrettanto soddisfacenti. In pochi erano disposti a considerare seriamente la possibilità che l’alto tasso di avanzamento del passato significasse che i prezzi delle azioni erano «diventati troppo alti», e che quindi «gli straordinari risultati successivi al 1949 lasciassero presagire risultati negativi per il futuro.»4
2. Cos’è successo dopo il 1964
Il cambiamento principale dopo il 1964 è stato l’aumento dei tassi di interesse sulle obbligazioni first-grade fino a livelli record, benché successivamente ci sia stata una notevole ripresa rispetto ai prezzi minimi del 1970. Il rendimento ottenibile da buone emissioni societarie ammonta oggi a circa il 7,5 per cento e anche di più, contro il 4,5 per cento del 1964. Nel frattempo, i dividendi delle azioni del tipo DJIA sono aumentati notevolmente anche durante il calo del mercato nel 1969-70, ma al momento della stesura di queste pagine (con «il Dow» a 900) è inferiore al 3,5 per cento contro il 3,2 per cento di fine 1964. La variazione dei tassi di interesse in corso ha prodotto un calo massimo di circa il 38 per cento nel prezzo di mercato delle obbligazioni a medio termine (per esempio quelle ventennali) in questo arco di tempo.
Questi sviluppi hanno un risvolto paradossale. Nel 1964 avevamo parlato estesamente della possibilità che il prezzo delle azioni potesse essere troppo alto e destinato a calare notevolmente, ma non avevamo preso in considerazione la specifica possibilità che lo stesso succedesse al prezzo delle obbligazioni high-grade. (Non ci risulta che qualcun altro ci avesse pensato.) Avvertivamo però (a p. 90) che «un’obbligazione a lungo termine può subire forti oscillazioni di prezzo in reazione alle variazioni dei tassi di interesse.» Alla luce degli eventi successivi, riteniamo che questo avvertimento – con i relativi esempi – fosse espresso con forza insufficiente. Sta di fatto che, se l’investitore avesse avuto una certa somma nel DJIA al suo prezzo di chiusura di 874 nel 1964, ne avrebbe tratto un piccolo profitto a fine 1971; anche al livello minimo (631) nel 1970 avrebbe perso meno che sulle buone obbligazioni a lungo termine. D’altro canto, se avesse limitato i suoi investimenti obbligazionari ai buoni di risparmio statunitensi, alle emissioni societarie a breve termine o ai conti di risparmio, non avrebbe subito perdite sul valore di mercato del suo capitale in quel periodo e avrebbe ottenuto un reddito molto superiore a quello offerto dalle azioni di buona qualità. Se ne deduce che nel 1964 i veri «mezzi equivalenti» si rivelavano investimenti migliori rispetto alle azioni ordinarie: nonostante l’esperienza dell’inflazione che, in teoria, avrebbe dovuto favorire i titoli rispetto alla liquidità. Il calo del valore del quoted principal delle buone obbligazioni a lungo termine era dovuto all’evoluzione del mercato monetario, un’area complessa che di solito non influenza le strategie di investimento dei singoli.
È solo l’ennesima di una lunga serie di esperienze che con l’andar del tempo hanno dimostrato come il futuro dei prezzi degli strumenti finanziari non sia mai prevedibile.* Quasi sempre le obbligazioni hanno oscillato molto meno delle azioni, e in genere gli investitori hanno sempre potuto comprare buone obbligazioni a qualsiasi scadenza senza doversi preoccupare delle variazioni del loro valore di mercato. A questa regola ci sono state alcune eccezioni, e il periodo successivo al 1964 si è dimostrato una di esse. In uno dei prossimi capitoli torneremo a parlare della variazione dei prezzi delle obbligazioni.
3. Aspettative e strategie tra fine 1971 e inizio 1972
Verso la fine del 1971 era possibile ottenere un interesse tassabile dell’8 per cento sulle buone obbligazioni a medio termine e il 5,7 tax-free sui buoni titoli statali o municipali. Nel breve termine, l’investitore poteva ottenere circa il 6 per cento sulle emissioni governative americane con scadenza entro cinque anni. In quest’ultimo caso l’acquirente non deve preoccuparsi di una possibile perdita di valore di mercato, dal ...

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