Utili nemici
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Islam e Impero ottomano nel pensiero politico occidentale

Noel Malcolm

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Islam e Impero ottomano nel pensiero politico occidentale

Noel Malcolm

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Tre secoli di relazioni culturali, politiche e commerciali tra l'Impero ottomano e l'Occidente, attraverso una prospettiva inedita basata sui grandi pensatori europei, da Machiavelli a Montesquieu. Dalla caduta di Costantinopoli (1453) fino al XVIII secolo, molti pensatori europei guardarono all'Impero ottomano con interesse quasi ossessivo: da un lato con l'ostilità della cristianità verso l'Islam, dall'altro con la curiosità verso l'evoluto sistema sociale e politico alla base del dispotismo orientale. Noel Malcolm racconta l'interazione tra Oriente e Occidente mostrando come le idee sugli ottomani e sull'Islam si siano intrecciate con i dibattiti interni europei sul potere, la religione, la società e la guerra. Nel pensiero dell'epoca, i nemici orientali non servivano solo da spauracchio, ma anche come occasione per molte delle discussioni che contribuirono allo sviluppo del pensiero politico occidentale.

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Information

Publisher
Hoepli
Year
2020
ISBN
9788836004003

1

La caduta di Costantinopoli: i turchi e gli umanisti

La mattina del 29 giugno 1453 una nave arrivò a Venezia con la notizia della conquista di Costantinopoli da parte del sultano ottomano Maometto II. Le lettere che descrivevano la caduta della città, scritte dai funzionari di stanza in alcuni possedimenti veneziani sulla costa della Grecia, furono lette nel palazzo del doge davanti a un senato sbigottito. Il giorno seguente il governo della Serenissima mandò un messaggero a Roma per implorare l’aiuto del papato. Vi arrivò otto giorni dopo, causando sgomento in Vaticano, e il panico dilagò nelle strade. A Firenze Cosimo de’ Medici descrisse la perdita di Costantinopoli come l’evento più tragico degli ultimi secoli; a Napoli re Alfonso V fece appello all’unità per invocare un intervento militare. Quando le novità sulle sorti della capitale bizantina raggiunsero anche i recessi più remoti di Spagna, Portogallo, Francia, Borgogna, Olanda, Germania, Danimarca e Inghilterra, le reazioni furono simili: un misto di preoccupazione e paura accompagnato, in alcuni casi, da una chiamata alle armi. Era chiaro ovunque che si trattava di un evento di enorme portata storica e geopolitica.1
Di primo acchito, l’importanza attribuita a quella città ha qualcosa di sconcertante: nel 1453 l’«impero» di cui era la capitale era ridotto al lumicino. Il territorio principale su cui esercitava il suo dominio (per lo meno formalmente) era il despotato di Morea nel Sud della Grecia, i cui governanti, indeboliti a loro volta dai recenti attacchi ottomani, non solo non inviarono alcun rinforzo a difesa di Costantinopoli, ma poco dopo chiesero l’aiuto del sultano per reprimere le ribellioni interne. Nel corso dei secoli precedenti, gran parte dell’area balcanica era stata conquistata dai turchi che avevano occupato la Tracia e la Bulgaria, ridotto la Serbia a uno stato vassallo, strappato Salonicco ai veneziani, preso il controllo di quasi tutta l’Albania e condotto numerose incursioni nel regno di Bosnia.2 In termini puramente strategici, la presa di Costantinopoli fu una mera operazione di rastrellamento e le potenze occidentali che tanto si lamentavano della perdita della capitale bizantina non fecero molti sforzi per salvarla. All’inizio della campagna bellica un condottiero genovese mise a disposizione della causa un contingente di soldati, ma poco dopo sia Venezia sia Genova, le più grandi potenze commerciali (ed eterne rivali) che operavano a Bisanzio e sul Mar Nero, rimasero a guardare finché non fu troppo tardi. Solo alla fine infatti mandarono una flotta risicata di navi che non sortì alcun effetto sull’esito del conflitto. Nel 1452 il papa aveva inviato un contingente poco più che simbolico di 200 uomini. Anche il suo contribuito navale nell’aprile del 1453 fu insufficiente e tardivo.3 Le altre potenze occidentali a cui l’ultimo imperatore Costantino XI Paleologo aveva chiesto disperatamente aiuto fecero ancora meno.
In parte quindi il senso di sgomento e dolore espresso da molte delle autorità italiane e dell’Europa occidentale potrebbe essere stato esasperato dalla loro cattiva coscienza. (Questo fu particolarmente vero nel caso della curia pontificia, la cui politica ufficiale per molti decenni fu quella di insistere affinché le autorità bizantine mantenessero le loro promesse di unione ecclesiastica con Roma in cambio di aiuto.)4 Un altro elemento che contribuì a questa reazione emotiva fu il tenore dei primi dispacci ricolmi di storie atroci, storie che furono amplificate in Occidente dagli attivisti intenzionati a scuotere i propri sovrani. Girava voce che 40.000 uomini fossero stati accecati o ammazzati dagli ottomani, che suore e vergini fossero state stuprate sugli altari delle chiese, che i monaci fossero stati massacrati e che per le strade scorressero fiumi di sangue.5 Di certo, nei tre giorni che Maometto II concesse alle sue truppe per saccheggiare la città, si verificarono atti di violenza e profanazione, scorrerie e uccisioni, ma era la prassi comune nei confronti di una città che si era rifiutata di arrendersi. Eppure, nonostante tutto, lo scempio fu probabilmente meno grave di quello inflitto a Costantinopoli dagli invasori occidentali cattolici 249 anni prima. La popolazione non fu decimata dagli omicidi di massa, ma dalla deportazione dei prigionieri destinati al mercato degli schiavi, anche se l’intervento di Maometto II per garantire un futuro alla vicina città di Galata dominata dai mercanti fu rapido. In meno di un anno egli nominò un nuovo patriarca greco, garantì i diritti essenziali della sua Chiesa rassicurando la popolazione ortodossa e concluse un trattato con Venezia, concedendole pieni privilegi commerciali all’interno dell’Impero ottomano.6 Non ci volle molto tempo perché le potenze dell’Europa occidentale che avevano legami mercantili diretti con Galata e Istanbul si rendessero conto che il sultano era un sovrano razionale, pragmatico, desideroso di promuovere la prosperità e la stabilità del suo nuovo dominio e non un mostro animato da fanatismo e sete di sangue, anche se non venne mai meno la tendenza a dipingere la caduta di Costantinopoli come un avvenimento degno di un cataclisma.
Le ragioni erano in parte simboliche. Sebbene l’Occidente non avesse mai mostrato un particolare interesse verso la storia dell’Impero bizantino – curiosamente trascurata fino all’ultima parte del XVI secolo – Costantinopoli era universalmente nota come la città di Costantino, figlio di sant’Elena (che aveva ritrovato la Vera Croce) e primo imperatore a favorire la diffusione del cristianesimo nell’Impero romano.7 Era la «Nuova Roma» che aveva mantenuto intatte le tradizioni imperiali dopo le invasioni barbariche in Italia e nell’Impero d’Occidente ed era le sede del patriarca di una delle principali chiese cristiane, anche se scismatica. Tutti questi fattori conferirono a Costantinopoli un’importanza storico-simbolica che una città come Salonicco non avrebbe mai potuto avere. Quando Niccolò Sagundino, un esperto funzionario greco al servizio di Venezia, inviò un’orazione ammonitrice a re Alfonso V di Napoli all’inizio del 1454, gli spiegò che Maometto II era stato influenzato da «certi vaticini e predizioni che gli promettono la conquista del regno d’Italia e l’espugnazione della città di Roma; gli è stato detto che il trono di Costantino è suo per volere del cielo, e questo non è quello di Costantinopoli, ma quello di Roma e così gli sembra più che giusto e appropriato, dopo aver conquistato la città figlia con la forza, prendere anche la città madre».8
Come vedremo, l’idea che i sultani ottomani potessero rivendicare i diritti storici degli imperatori romani avrebbe messo in difficoltà un certo numero di scrittori occidentali per altri 150 anni, anche se la paura più grande sorse dall’osservazione diretta della potenza militare ottomana e dai suoi probabili obiettivi futuri. Nonostante le difese di Costantinopoli fossero risicate in termini di uomini, la sua imponente fortificazione rappresentava una sfida insuperabile per qualsiasi forza occidentale dell’epoca. L’armata di Maometto II, formata da più di 200.000 soldati, aveva una dimensione che nessuna nazione europea avrebbe potuto eguagliare e la sua abilità nel manovrare l’artiglieria più avanzata del tempo era pari a quella dei migliori esperti d’Occidente. Con la conquista della città, il sultano aveva consolidato la sua posizione nei Balcani (cosa che gli rese più facile spazzare via alcuni piccoli avamposti cristiani a Oriente sulla costa della Crimea e a Trebisonda) e, una volta conquistato il Sud della Grecia, le sue mire espansionistiche si volsero naturalmente a Occidente. Nei precedenti sessant’anni le potenze europee avevano intrapreso delle massicce campagne contro gli ottomani in altre due occasioni: a Nicopoli nel basso Danubio nel 1396 e a Varna sulla costa del Mar Nero nel 1444. Entrambi gli scontri si conclusero con una pesante sconfitta per i cristiani, ma solo dopo che l’incursione crociata aveva raggiunto il cuore dei Balcani. Ora tutto indicava che in futuro le azioni offensive sarebbero state condotte dal sovrano ottomano nella direzione opposta verso la cattolica Europa. Più che la preoccupazione per la rivendicazione dei diritti imperiali fu l’oggettiva situazione militare a spaventare e a rendere per la prima volta guardinghi intellettuali e governanti occidentali. C’era stato un cambio sostanziale negli equilibri di potere – o meglio, era diventato impossibile ignorarlo. Poco dopo la caduta di Costantinopoli, il cronista veneziano Languschi scrisse che Maometto II «hora dice esser mutato le saxon di tempi, sì che de oriente el passi in occidente, come gli occidentali in oriente sono andati». Enea Silvio Piccolomini, il futuro papa Pio II, scrisse a Leonardo Benvoglienti nel settembre del 1453 che «padroni dell’universo furono già gli itali. Ora inizia l’impero dei turchi».9
Per le persone la cui comprensione storica era influenzata dal credo religioso, un cambiamento così profondamente epocale doveva trovare una spiegazione teologica. Il modo più semplice per spiegare la caduta di Costantinopoli fu di imputarla ai peccati dei greci, considerati scismatici fin dall’XI secolo e che più di recente avevano rotto l’accordo stipulato a Firenze nel 1439 che proclamava l’unione con la Chiesa di Roma. Questo atteggiamento corrispondeva a un sentimento anti-greco di lungo corso esemplificato sorprendentemente anche dal Petrarca, che a metà del XIV secolo bollò i greci ortodossi come la peggior specie di eretici e invocò più volte una crociata contro Costantinopoli.10 Tali inclinazioni contribuirono a plasmare anche alcuni dei primi tentativi occidentali di spiegare storicamente l’ascesa del potere islamico in Oriente a spese dell’Impero bizantino. Negli anni trenta del 1400, quando le pressioni sulla Chiesa greca perché si unisse a quella romana raggiunsero il loro apice, il frate agostiniano Andrea Biglia lasciò intendere nei suoi scritti che i cristiani d’Oriente avevano perso il controllo di molti dei loro territori come punizione divina per le eresie di cui si erano macchiati.11
Uno dei primi resoconti della conquista di Costantinopoli a opera di Leonardo Giustiniani, arcivescovo cattolico di Mitilene e testimone oculare della caduta della città, attribuì di buon grado la vittoria ottomana al fatto che Dio avesse negato il suo sostegno ai greci perché si erano rifiutati di portare a compimento l’unione con Roma concordata nel 1439.12 (Poco dopo, il metropolita ortodosso di Mosca arrivò alla stessa conclusione da un’opposta premessa: il Signore aveva punito i bizantini per aver accettato in prima battuta di unirsi a Roma.)13 L’eminente umanista Poggio Bracciolini, in uno scritto del 1455, accusò i greci bizantini di aver sabotato le crociate, rinnegato le loro promesse di unione e, in buona misura, di essere così avari e pigri da essersi rifiutati di spendere le loro immense ricchezze per difendere la città preferendo chiedere aiuto al papato. La loro sconfitta fu frutto, concluse, «non del caso, ma del giudizio divino».14 Diversi intellettuali erano d’accordo con lui: Ubertino Puscolo, umanista bresciano che studiava a Costantinopoli al tempo della conquista, scrisse che se fosse apparso un angelo con la promessa di scacciare le forze ottomane in cambio dell’unione con Roma, i greci avrebbero preferito sottomettersi al dominio ottomano. (La questione dell’unione aveva profondamente diviso gli ecclesiastici greci e alcuni di loro in effetti preferirono il regno del sultano, nel quale la loro Chiesa poteva mantenere la sua essenza, al primato ecclesiastico del papa.) Puscolo dipinse un ritratto molto cinico dei costantinopoliti raffigurandoli come persone accidiose e corrotte che avevano perso ogni virtù cristiana e che erano state abbandonate da Dio a causa dei loro peccati.15 Tale visione divenne un luogo comune. Negli anni ottanta del 1400 il frate francescano Alessandro Ariosto (nel Levante in missione papale presso i cristiani maroniti) dedicò diverse pagine del suo diario di viaggio a stigmatizzare i greci, spiegando che erano stati conquistati e dispersi come punizione divina per la loro «impietas».16 Nel 1520 lo studioso umanista benedettino Ludovico Cerva Tuberon di Dubrovnik dichiarò solennemente che «come affermò l’esito, Dio aveva preordinato di distruggere il nome dei greci, non solo perché avevano rifiutato l’autorità del romano pontefice, ma anche perché ormai avevano abbandonato del tutto il vero rito della religione cristiana».17
Questa concezione, incentrata principalmente sullo «scisma» della Chiesa ortodossa, rispecchiava un modello più ampio di pensiero teologico secondo il quale gli ottomani rivestivano il ruolo di «flagello di Dio». Il paradigma di fondo di tutte queste interpretazioni teologiche va individuato nei vari passaggi del Vecchio Testamento che descrivono le sconfitte, la schiavitù e le altre tribolazioni subite dai figli di Israele per mano umana come espressione della collera e della punizione divina. Alcune implicazioni di questa visione del mondo emersero dopo diverso tempo e furono elaborate più esaustivamente solo dalla letteratura religiosa del XVI secolo: per esempio, l’idea che la mancanza di virtù degli ottomani dimostrasse che il loro successo avrebbe avuto una causa divina e non terrena o, al contrario, che il loro ruolo di veicolo della punizione divina sarebbe stato confermato dal fatto che possedevano proprio quelle virtù che mancavano ai peccatori cristiani.18 C’è una ragione di fondo se il concetto di «flagello di Dio» diventò importante solo in una seconda fase: il modello biblico implicava che le vittime della punizione divina appartenessero in fin dei conti al popolo eletto. Questa implicazione, che era fonte di consolazione e stimolo per un rinnovamento morale e spirituale, poteva essere usata in modo molto efficace dagli scrittori dell’Europa occidentale e centrale che si rivolgevano ai propri concittadini insidiati dagli ottomani, ma non si attagliava ai cattolici che reputavano le sofferenze dei greci ortodossi un contrappasso per il loro scisma.19 Il primo uso significativo dell’argomento del «flagello di Dio» nell’Europa cattolica del XV secolo emerse tra gli intellettuali ungheresi dopo la campagna su vasta scala (ma alla fine senza successo) condotta da Maometto II per impadronirsi della roccaforte strategica di Belgrado nel 1456. Il concetto venne utilizzato sia dall’arcivescovo umanista János Vitéz di Esztergom sia dal poeta croato-ungherese Janus Pannonius che nel poema De inundatione dipinse gli ungheresi come vittime di un’inondazione umana quale punizione per i peccati di tutti i cristiani.20
Finché la funzione punitiva degli ottomani sancita divinamente si limitava a colpire una Chiesa scismatica, i cristiani cattolici non avevano alcuna difficoltà a pensare che la risposta adeguata a ogni avanzata del sultano fosse quella di muovergli guerra: l’interpretazione teologica della minaccia turca risiedeva nel fatto che essi non fossero cristiani e quindi, ovviamente, nemici della cristianità. La tradizione medievale della crociata – o, per lo meno, la tradizione di pensare in termini di crociate, pianificandole e dichiarandole – era ancora viva e attiva nell’Europa del XV secolo. Fu una bolla papale del 1443 a proclamare ufficialmente una crociata contro gli ottomani e a innescare la campagna finita rovinosamente a Varna nel 1444. Tre mesi dopo aver ricevuto la notizia della caduta di Costantinopoli, papa Niccolò V indisse la crociata con un documento che descriveva il sultano Maometto come un feroce persecutore del cristianesimo e lo identificava con il drago a sette teste dell’Apocalisse. Il pontefice invitò tutti i governanti d’Europa a difendere la fede cristiana e offrì piena indulgenza a chiunque partecipasse allo sforzo bellico.21
Un solo sovrano rispose subito con entusiasmo. Il duca di Borgogna, Filippo il Buono, che per anni era stato uno zelante sostenitore di progetti anti-ottomani e anti-mamelucchi, organizzò una festa sontuosa a Lille all’inizio del 1454 per portare la nobiltà alla sua causa.22 Negli altri casi la replica internazionale alla chiamata papale fu deludente. L’imperatore del Sacro Romano Impero Federico III convocò tre diete imperiali tra il 1454 e il 1455 durante le quali i prìncipi vennero arringati da uno dei più grandi oratori latini dell’epoca, Enea Silvio Piccolomini (il futuro papa Pio II); tuttavia, nel corso della seconda assemblea, come ricordò più tardi lo stesso Piccolomini, «i tedeschi cambiarono idea, nessuno di loro era più favorevole all’idea di una crociata … Gran bel trucco [dissero] frodare i tedeschi dei loro tesori indicendo una crociata contro gli ottomani».23 Al principio anche re Alfonso di Napoli espresse un certo entusiasmo, ma mentre Niccolò V e il suo successore Callisto III stavano cercando di unire gli stati della penisola sotto la bandiera di una causa comune, il sovrano partenopeo non smise mai di condurre le sue offensive in territorio italiano in modo del tutto controproducente. Nel frattempo Venezia aveva già firmato un trattato di pace con il sultano. Un’altra bolla papale per indire una crociata venne emessa da Callisto nel 1455 e quando Pio II gli successe nel 1458 il papato si impegnò per anni a raggiungere lo scopo, finché lo sforzo non culminò – anche se non è la parola più adatta – nel tentativo del pontefice di radunare un esercito crociato ad Ancona nel 1464. Condotto in loco in portantina, il papa, malato e prematuramente invecchiato, morì al porto, ma non prima che la maggior parte delle forze raffazzonate che era riuscito a radunare abbandonassero il campo.24
Dato che la tradizione delle crociate risaliva a centinaia di anni prima, si può facilmente supporre che indirne una significasse giustificarla c...

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