Il lamento della natura. De planctu naturae
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Il lamento della natura. De planctu naturae

Alano di Lilla, Giancarlo Giuliani, Giancarlo Giuliani

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Alano di Lilla, Giancarlo Giuliani, Giancarlo Giuliani

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Questa edizione e traduzione italiana del "De planctu naturæ", la prima contemporanea, ha il duplice pregio di colmare una lacuna negli studi di settore e di ricostruire la genesi della posizione ufficiale della Chiesa sul tema dell'omosessualità. Inquadrata nel contesto del pensiero di Alano di Lilla, "Doctor universalis", l'opera, di carattere allegorico, si apre con il lamento della Natura che si dice oltraggiata dagli atti illeciti compiuti contro di lei. L'omosessualità assurge così a errore a diversi livelli, non solo sessuale ma anche linguistico-grammaticale, etico, cosmico: crea disordine, scompaginando il progetto concepito da Dio stesso. La scelta della resa in traduzione in versi liberi, insieme all'estrema cura semantica, permette di apprezzare in modo particolare il monologo della Natura che si alterna al racconto in prosa secondo il topos letterario tipico del genere. A cura di Giancarlo Giuliani. Testo italiano/latino.150 pagine, 380.000 caratteri, 55.000 parole.

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Information

Publisher
Ikonaliber
Year
2014
ISBN
9788897778240
1. Il lamento della natura
[basato sul testo curato da Nikolaus M. Häring, in “Studi Medievali” 19, 2 (1978), pp. 797–879]

I
Volgo lacrime in riso, gioia in pianto,
plauso in lamento, allegria in lacrime.
Sono inascoltati i decreti della Natura
e tanti naufragano e periscono
per un mostruoso amore sensuale. Venere
contro Venere combatte, rende femmine
i maschi, con magico artificio priva
l’uomo della virilità. Non la finzione
o il falso pianto ingannatore, non il dolo,
ma il dolore stesso porta in seno
e genera la mestizia. La Musa chiede,
il dolore impone, la natura invoca
che, piangendo, doni loro un lamentoso
canto. Ahi, dov’è mai la grazia della natura?
Dove la bellezza dei costumi, la norma
della pudicizia, l’amore per il pudore?
La natura piange, le buone usanze tacciono,
ogni pudore è svenduto, orfano
dell’antica nobiltà. Il sesso
attivo inorridisce con vergogna
per il suo degenerare in passivo[1].
L’uomo è reso donna, macchia l’onore
del suo sesso, l’artificio della magica
Venere lo rende ermafrodito[2].
Egli è insieme predicato e soggetto,
diviene termine con duplice funzione,
spinge troppo oltre le leggi della grammatica.
Barbaro ormai in quest’Arte,
nega l’umanità datagli dalla Natura.
Non ama l’Arte[3], piuttosto il tropo.
Tale trasposizione[4] non può essere detta
tropo, una figura simile cade
piuttosto nell’ambito del vizio[5].
Usa troppo la logica colui per il quale
una semplice alterazione dell’Arte
fa perire i diritti della natura.
Batte un’incudine che nulla produce,
il maglio stesso ne ha vergogna.
La forma della sua matrice non imprime
il proprio segno su alcuna materia,
piuttosto il vomere ara una terra
sterile. Uso al piede dattilico
di Venere[6], male adopera il giambo,
in cui alla lunga non può seguire la breve.
Sebbene ogni bellezza dell’uomo
sia supplice di fronte alla bellezza
femminile, inferiore sempre alla gloria
di lei, sebbene la bellezza sia al servizio
di Elena e, sconfitto, il fascino
di Adone e Narciso la adori,
tuttavia essa è disprezzata, sebbene
parli come la bellezza stessa
e la divinità dell’aspetto affermi
il suo essere dea. Per lei
il fulmine nella destra di Giove
languirebbe inerte e ogni corda
di Apollo sarebbe indolente e inattiva.
Per lei l’uomo libero diventerebbe
schiavo e per godere del suo amore
Ippolito venderebbe il proprio pudore.
Perché tanti baci riposano
sulle labbra della Vergine e nessuno
vuole farne raccolto? Se una volta
ricevessi i suoi baci, sarebbe dolce
il loro succo, e divenuto miele
formerebbe un favo nella mia bocca.
Il respiro si volgerebbe ai baci,
tutto dedito alla bocca, e giocherebbe
con se stesso sulle labbra,
sí che, purché io muoia cosí,
finito il mio corso di vita,
come un altro me stesso in quei baci
io goda di una vita felice.
Non piú il Frigio adultero
cerca la figlia di Tindaro,
Paride con Paride compie atti
mostruosi e indicibili. Non piú
Piramo attraverso le fessure cerca
i baci di Tisbe, a lui nessuna fessura
di Venere dà diletto. Non piú il Pelide
finge il portamento di una giovinetta
per provare alle fanciulle il suo essere uomo,
ma vende il suo sesso per amore
di guadagno e male ricambia il dono
della natura. Quanti negano a Genio[7]
decime e diritti, meritano
una scomunica dal tempio del Genio.
[1] Qui l’omosessualità viene descritta con termini che derivano dalla grammatica. Nel XII secolo furono molti i tentativi di usare le parole della grammatica nell’interpretazione della scrittura e nella spiegazione di elementi teologici. Ne parla diffusamente ANGELINI Giuseppe, L’ortodossia e la grammatica, Gregoriana Editrice, Roma, 1972, p. 15: «M.D. Chenu in un articolo dedicato ai rapporti tra grammatica e teologia nel sec. XII, mostra le radici originalmente teologiche dell’interesse di Gilberto e di Alano per la grammatica speculativa; essi paiono guidati in questo solo dall’esempio di Boezio negli opuscoli teologici. Ma questo articolo non poteva ancora avvantaggiarsi delle conoscenze storiche sulla grammatica del XII secolo elaborate da Hunt e De Rijk».
[2] [Ermafrodito, nato da Ermes e Afrodite, deriva il nome dalla combinazione di quello dei genitori. Alcuni dicono che è un dio che a volte appare tra gli uomini, e che è nato con un corpo che è combinazione di quello di un uomo e di quello di una donna, bello e delicato come quest’ultimo, ma con qualità e vigore maschili. Altri dicono che tali creature sono mostruosità…] (Diodoro Siculo, Bibliotheca Historica, IV, 6, 5). Di lui, in Caria, s’innamorò la ninfa Salmace, che ottenne dagli dei di essergli sempre unita. I due divennero cosí un essere unico, metà donna e metà uomo.
[3] «Ars» è la grammatica; «tropus» è l’allontanamento dal significato appropriato.
[4] «Translatio». Cfr. DURAND Gilbert, Le strutture antropologiche dell’immaginario, Edizioni Dedalo, Bari, 2009, p. 516: «Tutta la retorica riposa sul potere metaforico di trasposizione (translatio) del senso. Ogni espressione aggiunge al senso proprio l’aura, l’“alone” dello stile e la retorica si incammina verso la poesia».
[5] «Vitium» è l’errore grammaticale. Per gli esegeti medievali la linea tra grammatica e retorica era difficile da definire. Gli usi figurativi del linguaggio erano concepiti sia come trasposizione (translatio), sia come allontanamento dal significato proprio (tropus). La translatio e il tropus possono essere classificati sia come figura del discorso (figura) sia come errore grammaticale (vitium), a seconda dell’interpretazione. Se una translatio attinge lo status di figura, diventa ambito dei retorici, ma se diventa vitium attiene al campo dei grammatici.
[6] Raynaud de Lage ha indicato l’opera di Matteo di Vendôme come fondamentale per il De Planctu Naturæ (la notizia è in BARTÒLA, Filosofia, Teologia, poesia nel De Planctu naturæ e nell’Anticlaudianus di Alano di Lilla, in “Ævum”, anno 62, 1988, fasc. 2, pag. 231. Proprio Matteo di Vendôme ebbe ad associare i genitali maschili a un piede dattilico (lunga-breve-breve): Ars Versificatoria, 79-80. Per il giambo, cfr. Orazio, Ars Poetica, 251-2: «Syllaba longa breui subiecta uocatur iambus, / pes citus» [una sillaba lunga che segue una breve è detta giambo, “piede veloce”]. Cfr. anche SHERIDAN, 1980, p. 70.
[7] Su Genius, cfr. SHERIDAN, 1980, pp. 59-62. Varrone, citato da Agostino, lo descrive come il dio che ha in carico “la generazione di tutti gli esseri”: «Quid est Genius? Deus – inquit – qui præpositus est ac vim habet omnium rerum gignendarum» (De Civitate Dei, 7, 13). William of Conches (1080-1154 ca.) lo definisce «naturalis concupiscentia». Di William of Conches ricordiamo una De philosophia mundi. In Alano Genius è un alter ego della Natura, il tramite tra l’uomo e il cielo, l’elemento che nella natura umana «lo spinge subliminalmente a ricercare la sua originaria perfezione». Per tutto ciò cfr. SPEARING AC, Medieval Dream-Poetry, Cambridge University Press, Cambridge, 1976, p. 22.
II
Mentre con lamentoso canto ripetevo piú e piú volte questa elegia, una donna, discesa dalla parte piú interna del palazzo dell’impassibile[8] universo, sembrava affrettarsi verso di me. I suoi capelli, brillanti di luce propria e non riflessa, mostrando non per mera somiglianza aspetto di raggi, oltrepassando per la loro nativa chiarità la natura stessa, su un corpo di stella contornavano il capo di fanciulla a guisa di un gruppo di stelle; un duplice cerchietto ne divideva i capelli, non abbandonando le regioni superne, non disdegnava di sorridere alla terra con un bacio. Una piccola linea, candida come un giglio, incrociandosi obliquamente, divideva la contesa delle ciocche, ma quell’obliquità – io dico - non era di alcun danno per il volto, piuttosto ne esaltava la bellezza. Un diadema aureo, riunendo l’oro dei capelli in un’unica danza armoniosa, si meravigliava di aver trovato un aspetto conforme a se stesso. L’immagine del colore che bordava l’oro confondeva infatti lo sguardo e lo induceva a falsa conclusione[9].
In verità la sua fronte, piana e spaziosa, chiara come un giglio, sembrava gareggiare con esso in candore. Le sopracciglia, fulgide come stelle, non folte come selve, non ridotte in eccessiva povertà, mantenevano una giusta misura. La calma serena degli occhi, che emanava dolcezza con amorosa luce, mostrava la straordinarietà[10] di una duplice stella. Il naso, come un balsamo dal dolce profumo, non piccolo oltre misura né prominente rispetto al volto, aveva...

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