Ultime confessioni di Tomas Moya
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Ultime confessioni di Tomas Moya

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" Ultime confessioni di Tomas Moya ” è un romanzo drammatico, fatto di intrecci, da cui si avverte un forte senso di inesorabilità; perché come credevano i greci, le azioni dei padri segnano il destino dei figli, macchiando un anello della catena dopo l’altro. SINOSSI “ Io dico che i morti uccidono i vivi ” recita un verso delle Coefore di Eschilo. Quei morti la cui storia è ancora pulsante e viva, e che influenzano, attraverso il loro passato, il presente e il futuro dei loro discendenti. Tra la selva di questi ricordi, a tratti dolorosa, a tratti colma di un amore che supera il limite della fragilità umana, a tratti sepolta da segreti inconfessabili, si muove Lorenzo. Sulle tracce di una storia che sembra non appartenergli, ma da cui verrà travolto, fino a trovarsi intrappolato nelle maglie di un destino che abbraccia e collega tutti come una ragnatela. Ne avvolgerà il filo partendo da una semplice busta postale contenente gli ultimi ricordi, le ultime confessioni, dell’uomo che ha cresciuto lui e il suo migliore amico, Aurelio, inseparabile compagno di vita e di scoperta. Saranno queste pagine a rivelare un destino che, di padre in figlio, giungerà fino a loro: gli ultimi anelli della catena.

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Information

Subtopic
Drama

1

Per molti anni nessuno fece più caso alla libreria, incastrata tra le altre botteghe del corso, fino al giorno in cui non chiuse i battenti e al suo posto aprì una pasticceria. Allora qualcuno si chiese cosa avesse occupato la vetrina prima di quei pasticcini dalle glasse colorate e di quelle torte, la cui decina di strati sfidava le leggi di gravità.
La domanda però aleggiò nell’aria per meno di una settimana, perché tutti adoravano il nuovo negozio di dolci e nessuno aveva notato il foglietto appiccicato sulla cassetta della posta del negozio, che recava il saluto del vecchio proprietario ai suoi affezionati clienti.
In realtà il biglietto lo avevo scritto io, perché mi piacciono le cose fatte bene e non volevo che qualcun altro che avesse conosciuto la libreria nei suoi anni migliori pensasseche il proprietario fosse stato scortese a non lasciare nemmeno un addio. Sapevo che lui non mi avrebbe biasimato. Un po’ perché era una di quelle persone che sembrano sempre sul punto di arrabbiarsi, ma che non se la prendono mai davvero per qualcosa; un po’ perché io in quella libreria ci ero cresciuto e avevo acquisito il diritto ereditario di attaccare biglietti sulla sua cassetta della posta.
Quando ero piccolo, non mi interessava leggere libri. A dire la verità, mi viene difficile ricordare qualcosa che amassi davvero fare. La mia storia, i miei amori, sarebbero cominciati dopo. Prima di allora, ho i ricordi di ogni bambino, quelli che sembrano appartenere a tutti: il peso di un pallone tra le mani, l’odore della torta al cioccolato, la faccia sporca di terra.
Come per tutte le cose della mia vita, fu una donna a farmi cambiare idea. Non perché mi avesse insegnato chissà che, ma perché la voglia di conquistarla mi avrebbe portato a fare qualunque cosa, compreso entrare in quel negozio dalla porta stretta e l’insegna sbiadita.
Il primo impatto non fu dei migliori. Avevo quindici anni e, avendo vissuto in quel paese da quando ero nato, avevo ascoltato le molte leggende che si tramandavano di bocca in bocca, di cortile in cortile, sullo scorbutico proprietario che cacciava i ragazzini che si fermavano davanti alla sua vetrina per aspettare il bus navetta per la scuola.
Ma io ero il figlio del preside e nessuno meglio di me poteva conoscere il pesante fardello della reputazione che potevano affibbiarti quei pettegoli dei compaesani. Un anno mi ero fatto bocciare volontariamente, per dimostrare che non ero privilegiato perché mio padre era quello che dettava legge. Ma nemmeno quello servì, perché i miei compagni dissero che le bocciature erano capricci che un figlio di papà come me poteva permettersi e che nessuno mi avrebbe arrossato il sedere a forza di schiaffoni, una volta tornato a casa.
Così avevo deciso di non dare credito alle calunnie che giravano sul libraio e di entrare in quel posto che odorava di polvere, di carta e di speranza. Il libraio mi accolse con un saluto mugugnato e il tentativo di sorriso si smorzò quando si accorse che ero solo un ragazzino.
Gli dissi che cercavo un libro di poesie per una ragazza molto speciale. Dovetti fargli un po’ tenerezza, o forse pena, perché sembrò prendere in considerazione l’idea di aiutarmi.
“Com’è lei?”
“Bellissima” risposi subito.
“Sì, ma com’è?”
Arrossii. Non mi ero mai ritenuto un genio nel comprendere gli altri, soprattutto gli adulti, ma quell’omone dalla barba brizzolata, con il fisico di un cacciatore, mi fece sentire l’analfabeta più vile sulla faccia della Terra.
“Beh, lei è...”
“Una volta mi chiesero di descrivere una pustola che avevo sulla schiena e ci misi più fervore e passione” tagliò corto, ammutolendomi del tutto.
“Ragazzino, sei entrato in un negozio di scarpe senza sapere il numero che porta la persona a cui vuoi regalarle. Posso darti il paio più bello e potrebbe non calzarle mai.” La verità di quelle parole mi inebriò di consapevolezza e di vergogna. “Sparisci” mi intimò.
Non avrei potuto sapere che da quel giorno, e per i successivi dieci anni, quella sarebbe diventata la mia casa. Quando mi dissero che era morto, poco tempo dopo la chiusura della libreria e l’apertura del negozio di dolci, non mi stupii. Erano settimane che mi aspettavo di ricevere quella notizia, e quello era il primo vero giorno di autunno dell’anno, con il cielo scuro e il vento freddo. Fino ad allora c’erano state calde giornate di sole e avevo immaginato che nessuno sarebbe potuto morire con un sole così bello.
Così era morto alla prima vera giornata di autunno dell’anno. Seguii il corteo funebre mantenendo una certa distanza. Forse è azzardato definire corteo la decina di persone che si radunò, compresi i due ragazzi mandati dal fioraio per recapitare la corona di fiori. Arrivati al cimitero, mi voltai indietro verso la chiesa. Sopra il campanile, il cielo era grigio e pesante, come una nuvola di polvere da sparo. Ma, sopra il cimitero, il cielo era sgombro, tinto delle ultime luci del giorno che andava finendo. Mi commossi nel realizzare quel nostro breve pellegrinaggio dall’oscurità alla luce più pura.
Mi soffermai a parlare con il guardiano del cimitero, fingendomi interessato a sapere i giorni in cui fosse aperto, solo per restare in disparte dal rito. Sentii qualcuno che mi chiamava.
“Grazie per essere venuto.”
“Sai cosa mi avrebbe detto lui? Che almeno qui il mio vestito da becchino non stona con il contesto.” Ridemmo guardandoci negli occhi.
“Ti va di andare a bere qualcosa?”
Ci incamminammo verso l’osteria alla fine della via principale del paese. Lì ci conoscevano per nome, il figlio del preside e il figlio del libraio. Ordinammo da mangiare e della birra.
“Oggi fa molto freddo.”
“Già, doveva succedere oggi.”
Lo guardai interrogativamente.
“Doveva succedere oggi che il tempo è cambiato. Finora c’è stato sempre il sole” spiegò lui, pensieroso. “Mi chiedo come si possa morire in una bella giornata di sole.”
Gli sorrisi, sapendo di volergli bene.
“Ricordi la prima volta che ci siamo visti? La prima volta che sono entrato nella libreria.”
“Eri talmente spaesato che avrei potuto venderti un libro di entomologia, spacciandolo per uno di ricette culinarie orientali.”
“Tuo padre mi aveva spaventato. Pur di uscire da lì avrei comprato anche un breviario.”
“E invece ti ho fatto uscire da lì con il miglior libro di poesie che quella ragazzina di cui eri cotto leggerà mai in tutta la sua vita.”
“Peccato che poi lei uscì con te” risi, scuotendo la testa.
“Già, anche lei” ghignò lui, sollevando il bicchiere colmo di birra e brindando a quel ricordo lontano. Brindai anch’io, ingoiando il rigurgito di un rancore passato, di volti di donne di cui mi ero innamorato, decine ogni giorno, che Aurelio mi aveva sottratto da sotto gli occhi, una dopo l’altra. Consapevole che le avevo amate più io, in quei frammenti di sguardi che avevo rubato loro, piuttosto che lui spogliandole sul tappeto di quella mansarda sopra la libreria, che era stato il nostro ritrovo segreto per dieci anni.
Bevemmo a lungo, fino a notte fonda.
“Aurelio, devo dirti una cosa.”
“Se sei innamorato di me, sono costretto a rifiutarti, vecchio mio. Sei come un fratello per me.”
“Per lasciarti aggiungere una tacca in più alla tua pistola? Giammai.”
“Amen. Vuota il sacco” disse, agitando la mano con fare distratto.
“Qualcuno ha lasciato qualcosa nella cassetta della posta di tuo padre. Dopo la chiusura del negozio.”
Gli mostrai la busta gialla che avevo trovato il giorno in cui avevo appiccicato il biglietto d’addio, rivolto a dei clienti che ormai avevano dimenticato quel luogo. Aurelio divenne serio, in un modo talmente repentino che pensai stesse accusando i malesseri della sbornia. Estrasse dalla busta i fogli che io non avevo avuto il coraggio di esaminare. Li rimise dentro con cura e li posò sul tavolo.
“Buttali via.”
“Cosa?”
“Non mi interessa più niente.”
“Più niente?”
“Ho già letto quelle pagine e le ho lasciate esattamente dove le ho trovate. A quanto ho capito sono cose che appartengono a un passato in cui non ero nemmeno nato. Non importa più.”
“Il passato di tuo padre?”
“Un passato che non mi riguarda.”
“Non sei nemmeno curioso di...”
“Se tu lo sei, leggile.”
“Sai che tuo padre mi...”
“Non era mio padre, Lorenzo.” Rabbrividii, senza riuscire a reagire. Lo guardai alzarsi, barcollando un po’. “Adesso lo sai.”
Riposi la busta gialla nella tasca interna della giacca, con un gesto meccanico, come fossi in trance. La sua rivelazione mi aveva scosso, al punto che per poco non uscii senza pagare. Continuai a pensarci fino a quando non fui sotto casa e quasi non mi accorsi della donna che mi aspettava davanti al portone. Mi sorrise debolmente, avvolta nel suo impermeabile nero.
“Non sei venuta al funerale.” Ero stanco e non avrei voluto farlo sembrare un rimprovero.
“Volevo molto bene a Tomás, ma mi sono preoccupata delle conseguenze che questa scelta avrebbe avuto sui vivi, più che sui morti.” Appena entrati in casa si tolse scarpe e impermeabile.
“Aurelio non ti avrebbe mandata via.”
“Sono io che non sarei potuta restare.” Il vestito color panna le ondeggiava lungo i fianchi, mentre si sfilava le calze.
La guardai con tristezza. “Beviamo qualcosa?”
Annuì. Ines non mi lasciò nemmeno il tempo di riempire i due bicchieri, che già premeva le labbra sul mio collo. Sentivo il suo seno contro la mia schiena e le sue mani che scendevano lungo i miei fianchi.
Dimenticammo il vino, il funerale e la tristezza dei nostri venticinque anni.
La seconda volta che entrai nella libreria di Tomás fu traumatica almeno quanto la prima. Sgattaiolai senza farmi vedere (o meglio, Tomás fece finta di non vedermi dal suo bancone) tra gli scaffali, fino a trovare lo scrittoio con ribaltino di Aurelio, nel suo angolo tra la finestra stretta che si allungava fino al soffitto e il muro alle sue spalle.
Sbucciava una mela. Da allora mi abituai a vedere ogni più piccolo e insignificante gesto quotidiano sotto una luce del tutto nuova e inebriante, se fatto da Aurelio. Mi fece segno di sedermi lì, su uno sgabello davanti alla finestra. La luce del giorno lo rendeva più pallido di come lo ricordassi, o forse era solo il contrasto con i capelli neri come la pece.
“La ragazza ha apprezzato il libro?”
“Mi ha ringraziato.”
“Che persona educata” disse, mentre metteva in bocca un pezzo di mela, con un sorriso sghembo intriso di un significato che non riuscivo a cogliere. “Tu ti fidi di me, Lorenzo?”
Lo chiese come se mi chiedesse i capitoli di storia da studiare per l’indomani. “Sì” gli risposi, perché mi dava la sensazione di uno cui non si potesse mai dire di no.
“Dammi la mano.” La richiesta mi mise addosso una forte inquietudine. Gliela porsi comunque.
La voltò dalla parte del palmo: con la sua mano sinistra mi strinse il polso, in una morsa che mi spaventò, con la destra impugnò il coltello e lo tenne perfettamente perpendicolare al mio palmo. Sentivo la punta che mi solleticava il centro della mano.
“Noi saremo amici, Lorenzo. Cominceremo a fidarci l’uno dell’altro, a condividere le nostre vite, i nostri sogni, i pensieri più oscuri. Questo ci darà grande potere l’uno nei confronti dell’altro. Come un coltello puntato al centro della mano. Potrei ferirti, perché affidandoti a me, me ne darai il potere. Ma ti prometto che il coltello resterà sempre qui, non lo userò mai contro di te.”
Io non sono mai stato una persona religiosa. A volte mia madre mi costringeva ad andare a messa. Mia nonna mi raccontava delle vite dei santi, le piacevano le storie di miracoli. Una volta mi aveva detto che il figlio della sua vicina di casa aveva avuto un incidente d’auto ed era entrato in coma, ma la donna aveva fatto un voto e il figlio si era svegliato. “Il Signore ascolta le richieste dei suoi figli” diceva mia nonna, “se in cambio gli fai una promessa”.
Mi venne in mente mentre Aurelio premeva il coltello contro il mio palmo. Non ne ...

Table of contents

  1. PREFAZIONE
  2. RICORDI D’INCHIOSTRO
  3. 1
  4. 2
  5. 3
  6. 4
  7. 5
  8. RICORDI DI CENERE
  9. 1
  10. 2
  11. 3
  12. 4
  13. 5
  14. RICORDI DI TERRA E ACQUA
  15. RINGRAZIAMENTI