Una giornata con Alan Turing
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Una giornata con Alan Turing

Capire l'intelligenza artificiale

Rachid Guerraoui,Hoang Lê Nguyên

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Capire l'intelligenza artificiale

Rachid Guerraoui,Hoang Lê Nguyên

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Un giorno gli esseri umani saranno dominati da algoritmi?
Mettetevi nella vostra miglior poltrona e lasciatevi guidare lungo la strada che porta dalle prime idee del genio inglese Alan Turing alle spaventose capacità dei computer quantici e alle promesse dell'intelligenza artificiale. I progressi sono stati immensi, tumultuosi, ma gli ostacoli che ingombrano il cammino sono ancora grandi e numerosi. Ma quando chiuderete il libro che avete in mano, non potrete più guardare il vostro computer allo stesso modo…

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Information

Year
2020
ISBN
9791280134059

CAPITOLO 1

AL CUORE DELL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE

A che cosa assomiglierebbe una macchina dotata di intelligenza artificiale? E di che cosa sarebbe capace? Saprebbe «pensare»? Per rispondere a queste domande, Alan Turing si preoccupò innanzitutto di precisare la natura delle macchine e di definire le loro capacità. Così facendo, giunse a formalizzare la nozione di algoritmo. Stando a quest’ultima, l’intelligenza delle macchine risiede di necessità nell’algoritmo che esse eseguono.
Addizionare 6 a 7 è facile. Sappiamo che il risultato è 13, non occorre ragionarci. L’informazione è immagazzinata da qualche parte nel nostro cervello, l’abbiamo registrata dopo averla ripetuta meccanicamente sui banchi di scuola. Lo stesso vale per l’addizione di qualunque paio di cifre: conosciamo il risultato perché ce lo ricordiamo.
Sommare i numeri 57 e 76 è appena meno facile. Ma l’operazione resta molto semplice, anche senza calcolatrice. Ecco il metodo da seguire su un foglio di carta: per cominciare, si incolonnano i numeri da addizionare, mettendoli uno sopra l’altro. Si sommano quindi le cifre più a destra (6 e 7). Si scrive il risultato (3) sotto la riga, annotando il riporto di 1 accanto alle due cifre della colonna vicina, a sinistra. Si aggiunge il riporto alle due cifre sulla sinistra (5 e 7). Infine si scrive sotto il risultato (13). L’addizione è compiuta, il risultato ottenuto è 133.
Abbiamo appena eseguito un algoritmo, ovvero una lista di istruzioni elementari e di operazioni logiche.
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Che cosa accade sommando 757 e 876? E sommando 987 654 327 689 757 e 768 976 966 876? Il compito è poco più difficile. Basta applicare il medesimo algoritmo usato per 57 e 76, vale a dire ripetere gli stessi passaggi elementari: (a) addizionare le cifre di una colonna, (b) annotare il risultato e il riporto, (c) spostarsi a sinistra. Si procede così finché non restano più cifre da addizionare.
Ma perché quest’algoritmo funziona? Perché dà il risultato corretto, anche con numeri grandi? È raro che ci poniamo simili domande. Ci accontentiamo di eseguire l’algoritmo seguendo le istruzioni alla lettera, come una ricetta di cucina.
Questo algoritmo di addizione, in particolare, ci è così familiare che non sempre ci rendiamo conto che dipende dal sistema di numerazione, vale a dire dal modo di rappresentare i numeri. Eppure esso ha rivoluzionato la storia della matematica: si tratta del sistema di numerazione indo-arabico, anche detto «notazione posizionale decimale». È questo tipo di notazione a permetterci di ricorrere all’astuzia dei riporti e di ridurre così un’addizione di numeri alla ripetizione di addizioni di singole cifre. Se i numeri vengono scritti secondo la notazione romana, per esempio LVII e LXXVI al posto di 57 e 76, l’algoritmo non può essere applicato.
Per molto tempo, infatti, la capacità di compiere addizioni (e più ancora moltiplicazioni) di numeri è stata una competenza rara, riservata agli scribi, agli agrimensori-geometri e a qualche altro erudito. Poi arrivò Algoritmi3.

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UN UOMO DI NOME «ALGORITMI»

Nel IX secolo, un matematico persiano si soffermò sui metodi di addizione dei numeri. Il suo obiettivo non era soltanto quello di eseguirne lui stesso, ma di trovare uno stratagemma che permettesse a chiunque di effettuare qualunque tipo di somma. Per riuscirci, adottò la notazione decimale proposta da alcuni dotti indiani. Essa rappresenta i numeri servendosi di cifre che vanno da 0 a 9. E – punto cruciale – accorda particolare importanza alla collocazione delle cifre: il valore di ciascuna di esse dipende dalla posizione in cui si trova. Come ben sapete, 109 e 910 sono numeri diversi, benché composti dalle medesime cifre.
Grazie a questa notazione, l’algoritmo di addizione divenne facile sia da descrivere sia da eseguire. Bastava saper addizionare cifre semplici e seguire metodicamente le istruzioni dell’algoritmo, per riuscire a sommare numeri molto grandi. Questo algoritmo è così semplice che, ormai, la stragrande maggioranza dei bambini lo padroneggia fin dalla più tenera età.
Ritratto immaginario del matematico persiano Algoritmi.
Ritratto immaginario del matematico persiano Algoritmi.
Il matematico che semplificò il problema dell’addizione si chiamava al-Khuwārizmī (780-850 circa); in Occidente, è meglio conosciuto con il nome di Algoritmi. A lui, scienziato della Casa della Sapienza di Baghdad, il Califfo aveva chiesto di istruire il popolo, immaginando procedimenti che mettessero la soluzione dei problemi matematici alla portata di tutti. Certo non sospettava che la parola «tutti» avrebbe incluso, alcuni secoli più tardi, perfino alcune macchine, che applicando quelle istruzioni sarebbero sembrate intelligenti.
Algoritmi non si accontentò delle addizioni: inventò tutta una serie di procedimenti e li riunì in un libro intitolato al-Kitāb al-mukhtaṣar fī ḥisāb al-jabr wa al-muqābala, inaugurando con ciò una nuova branca della matematica, l’algebra, dedicata ai numeri e alle equazioni. Il suo libro di istruzioni di calcolo è stato il primo libro dedicato agli algoritmi. Conteneva per esempio la moltiplicazione basata sulla notazione posizionale decimale, che avete appreso molto presto sui banchi di scuola. Questo, di algoritmo, è un po’ più complesso di quello dell’addizione. Da un lato, richiede di aver memorizzato le tabelline, dall’altro di eseguire diverse operazioni elementari. Ci torneremo nel capitolo seguente.
Il libro esponeva anche un metodo semplice, oggi insegnato al liceo, per risolvere tutte le equazioni di secondo grado. Ancora una volta, e a differenza di altri, Algoritmi non cercò solo di trovare le soluzioni di una data equazione. Questo sapevano già farlo tutti i matematici. Essi si servivano di quelle che si chiamano «identità notevoli» o «prodotti notevoli», vale a dire delle uguaglianze che permettono di modificare la scrittura delle equazioni per mezzo di fattorizzazioni e ulteriori sviluppi. Tuttavia, la manipolazione dei prodotti notevoli si rivelava talvolta complicata, soprattutto prima dell’arrivo dell’algebra di Algoritmi.
Il genio di Algoritmi consistette nell’escogitare una «ricetta» sistematica. Grazie a tale ricetta, è sufficiente eseguire alcune operazioni aritmetiche semplici, per la precisione tre moltiplicazioni e una sottrazione, per calcolare un primo numero, il famoso «discriminante». Il suo valore fornisce indicazioni preziose sul numero di soluzioni dell’equazione, che poi si esprimono con molta facilità a partire dal discriminante stesso.
Queste ricette non sono state chiamate da subito «algoritmi». Dovettero passare circa due secoli prima che un monaco inglese del XII secolo, Adelardo di Bath, suggerisse di usare il nome latinizzato del matematico persiano per dare il nome di «algoritmi» ai procedimenti di calcolo.
Grazie a questi algoritmi, chiunque può sembrare «intelligente». Basta eseguire i calcoli prescritti. E, curioso a dirsi, per sembrare intelligente non occorre capire perché l’algoritmo funzioni, né che cosa stiamo facendo.
Se Algoritmi fu verosimilmente il primo a raccogliere in un libro un insieme di algoritmi, e a descriverli con un linguaggio unificato, non fu però il primo a immaginarne. Gli algoritmi esistono da quando gli esseri umani hanno avuto l’idea di formulare procedure che permettessero di risolvere problemi complessi a partire da semplici passaggi elementari.
Più di 5000 anni fa, per esempio, i pastori della Mezzaluna fertile applicavano già un algoritmo per controllare di non aver perduto alcuna pecora nello spostamento di un gregge. Al momento di partire, all’uscita di ogni pecora dal recinto, il pastore deponeva un sassolino in un recipiente inizialmente vuoto. All’arrivo, dal medesimo contenitore veniva rimosso un sassolino per ogni animale che entrava nel recinto. Una volta ammassato il gregge al suo interno, i sassolini rimasti nel recipiente corrispondevano al numero di pecore smarrite. In un certo senso, il recipiente e le pietruzze servivano da calcolatrice. Del resto, la parola latina calculus, che significa appunto «sassolino», darà origine al termine «calcolo», l’unità elementare di esecuzione di un algoritmo.
L’esecuzione di un algoritmo non è altro, quindi, che una successione di calcoli tanto semplici quanto l’aggiunta o la rimozione di un sassolino da un contenitore.
Più tardi, nell’antichità, il matematico greco Euclide (attivo attorno al 300 a.C.) descrisse un algoritmo per trovare il massimo comun divisore tra due numeri interi. Il semplicissimo algoritmo si limita a ripetere alcune divisioni dette «euclidee», nelle quali sono messi in evidenza il quoziente e il resto. Gli storici riportano anche alcuni esempi di algoritmi presso i Babilonesi, così come nelle antiche civiltà egizia, indiana e cinese – è il caso dell’uso di un triangolo dai lati pari a 3, 4, e 5 per tracciare un angolo retto.
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Alcuni algoritmi sono diventati celebrità della storia della matematica, come quello di Archimede, che fornisce approssimazioni sempre più precise del numero π con l’aiuto di poligoni circoscritti a un cerchio. Chi ha visto il film Jean de Florette, di Claude Berri, ricorderà forse l’algoritmo di Fibonacci, che il gobbo spiega alla figlia Manon (la «Manon delle sorgenti» del film successivo) e che calcola la crescita di una popolazione di conigli nel corso dei mesi.
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Tutti questi algoritmi sono stati concepiti da esseri umani per altri esseri umani. Ma la natura non è da meno, e sembra averne creati a sua volta (ne parleremo nel capitolo 7). Quelli che però ci interessano adesso sono gli algoritmi che fanno funzionare delle macchine.

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MACCHINE E ALGORITMI

La caratteristica principale degli algoritmi è che possono essere eseguiti da chiunque, senza alcuna competenza matematica, perché è sufficiente applicarli meccanicamente. Non sorprende, quindi, che alcuni studiosi abbiano pensato di affidarne l’esecuzione… a delle macchine.
Nel 1640, Blaise Pascal (1623-1662) inventò una macchina calcolatrice, la famosa «Pascalina», per aiutare il padre Étienne, contabile, che ogni sera vedeva sfinirsi a far calcoli ripetitivi sui suoi registri. La Pascalina fu ideata per eseguire algoritmi di addizione senza errori e senza fatica, grazie a un ingegnoso sistema di ruote numerate da 0 a 9, azionato da ingranaggi e nottolini. Nel 1698, il dotto tedesco Gottfried Leibniz (1646-1716) si ispirò alla Pascalina per costruire quella che chiamò «Replica», una macchina per il calcolo delle moltiplicazioni, il cui meccanismo sfruttava un cilindro munito di 9 denti.
Una Pascalina risalente al 1652, conservata al Musée des arts et métiers di Parigi.
Una Pascalina risalente al 1652, conservata al Musée des arts et métiers di Parigi.
In un certo senso, queste macchine da calcolo erano intelligenti. In ogni caso, sembravano tanto intelligenti quanto lo sembra un essere umano che esegua un algoritmo di addizione o moltiplicazione. Tuttavia, le macchine di Pascal e Leibniz erano limitate. Arrivavano, è vero, a eseguire degli algoritmi, ma non più di uno ciascuna. L’algoritmo era, per così dire, «saldato» alla macchina, nella particolare configurazione dei suoi meccanismi. Da questo punto di vista, tali strumenti erano ben lontani dall’eguagliare gli esseri umani, che sono in grado di imparare algoritmi diversi ed eseguirli al bisogno.
Due secoli dopo Pascal, l’inventore britannico Charles Babbage (1791-1871) delineò il progetto di un...

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