Perché E=mc²?
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Perché E=mc²?

(E perché dovrebbe interessarci?)

Brian Cox

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Perché E=mc²?

(E perché dovrebbe interessarci?)

Brian Cox

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Brian Cox e Jeff Forshaw si spingono alla frontiera della scienza del ventunesimo secolo per riflettere sul vero significato della sequenza di termini matematici che creano l'equazione-simbolo di Einstein, E=mc². Spiegando i termini uno per uno, si chiedono: cos'è l'energia? Cos'è la massa? Cosa c'entra con energia e massa la velocità della luce? Per rispondere, ci portano fino a un esperimento tra i più grandi mai esistiti: l'acceleratore di particelle noto con il nome di Large Hadron Collider, che si snoda per 27 km nel sottosuolo di Ginevra, a cavallo del confine tra Francia e Svizzera. Usando questa macchina gigantesca - in grado di ricreare le condizioni dell'universo poche frazioni di secondo dopo il Big Bang - Cox e Forshaw descrivono la teoria contemporanea sull'origine della massa. Insieme a energia e massa, la terza componente dell'equazione è c, la velocità della luce, probabilmente la più affascinante. Perché la velocità della luce permette la conversione tra energia e massa? La risposta è davvero il cuore della questione: gli autori mostrano che per comprendere realmente E=mc² si deve prima capire perché si può viaggiare nel futuro ma non nel passato e come si muovono i corpi del nostro mondo tridimensionale in uno spaziotempo a quattro dimensioni. In altre parole, si deve capire come è fatta la struttura fondamentale e profonda del nostro mondo.

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Information

Publisher
Hoepli
Year
2020
ISBN
9788820399511

7.L’origine della massa

La scoperta di E=mc2 ha segnato un punto di svolta nel modo in cui i fisici interpretano l’energia, insegnando ad apprezzare la vastissima energia latente immagazzinata dentro la massa stessa. Un magazzino di energia molto al di là di qualsiasi immaginazione: l’energia racchiusa dentro la massa di un solo protone si avvicina a 1 miliardo di volte l’energia liberata da una normale reazione chimica.
A prima vista sembra d’aver trovato la soluzione ai problemi energetici del pianeta, e forse lo sarà nel lungo termine, in parte. Ma qualcosa mette i bastoni tra le ruote, e in modo pesante. Distruggere completamente la massa è davvero complesso. Nel caso delle centrali a fissione nucleare solo una minuscola frazione del combustibile è disintegrato davvero, il resto è trasformato in elementi più leggeri, che in parte costituiscono scorie altamente tossiche. Anche all’interno del Sole i processi di fusione sono decisamente poco efficaci e non soltanto perché si disintegra solo una piccola frazione di materia. Per il singolo protone, la probabilità di fusione è bassissima, essendo già un evento molto raro il primo passo del processo: la trasformazione di un protone in un neutrone. Così raro che occorrono in media circa 5 miliardi di anni perché un protone nel nocciolo del Sole si fonda con un altro protone generando un deutone e rilasciando energia. In effetti il processo non avverrebbe proprio se a quelle distanze brevissime non regnasse sovrana la teoria quantistica. Nella visione del mondo pre-quantistica, il Sole semplicemente non sarebbe abbastanza caldo per spingere i protoni vicini a sufficienza per innescare la fusione, dovrebbe essere circa 1.000 volte più caldo della temperatura del nocciolo, 10 milioni di gradi. Questo problema fu prontamente rinfacciato al fisico britannico Sir Arthur Eddington quando, per primo nel 1920, indicò la fusione come la sorgente di energia del Sole. Eddington, invece, era fermamente sicuro che la fusione dell’idrogeno in elio fosse la sorgente e che quanto prima l’enigma della temperatura troppo bassa sarebbe stato risolto. “L’elio che abbiamo a disposizione deve essere stato generato in un bel momento in un certo luogo”, diceva. “Possiamo anche smettere di discutere se le stelle siano abbastanza calde per il processo, possiamo benissimo dire all’elio di andarsene e trovarsi un posto più caldo.”
La conversione dei protoni in neutroni è così faticosa che il Sole, “chilogrammo per chilogrammo”, è molto meno efficiente del corpo umano nel trasformare la massa in energia. Un chilogrammo del Sole in media genera soltanto 1/5.000 watt, mentre il corpo umano crea più o meno 1 watt per chilogrammo. Certo, il Sole è enorme, e compensa così la sua relativa inefficienza.
Abbiamo abbastanza enfatizzato che la natura funziona in accordo con alcune leggi. Perciò non dovrebbe essere molto eccitante avere un’equazione come E=mc2 che ci dice cosa potrebbe accadere. C’è una bella differenza tra la nostra immaginazione e ciò che realmente accade e, anche se E=mc2 entusiasma con le sue possibilità, dobbiamo ancora capire come possano le leggi della fisica disintegrare la materia e liberare l’energia. Di sicuro l’equazione da sola non implica per pura logica il diritto di trasformare a piacere la massa in energia.
Uno dei meravigliosi sviluppi della fisica dell’ultimo secolo è la possibilità di usare una manciata di leggi fisiche per descrivere molto bene tutta la fisica, almeno in via di principio. Se guardiamo indietro al XIX secolo, Newton sembrò raggiungere un risultato simile scrivendo la sua legge del moto e, per i seguenti duecento anni, ci furono scarse prove del contrario. A tal proposito, Newton era un po’ più modesto. Una volta disse: “Mi sembra di essere stato solo come un bambino sulla spiaggia che si diverte nel trovare qua e là una pietra più liscia delle altre o una conchiglia più graziosa, mentre il grande oceano della verità giace del tutto inesplorato davanti a me.” Il che cattura splendidamente la modesta meraviglia che può regalare il tempo speso a fare della fisica. Davanti alla bellezza della natura, sembra difficilmente necessario, per non dire temerario, affermare d’aver trovato una teoria definitiva. Nonostante questa modestia filosofica sull’impresa scientifica sembri appropriata, la visione del mondo dopo Newton era in accordo con la possibilità che ogni cosa sia composta da minuscole componenti rispettosamente obbedienti alle leggi della fisica espresse da Newton stesso. In effetti rimanevano alcune questioni irrisolte, in apparenza minori: come possono realmente le cose restare unite? Di cosa sono fatte realmente le minuscole componenti?
Tutti erano convinti che la teoria di Newton fosse il cuore della natura, il resto era solo questione di rifinire i dettagli. Più avanti, nel XIX secolo, cominciarono a manifestarsi nuovi fenomeni che contraddicevano Newton e che alla fine aprirono le porte alla relatività di Einstein e alla teoria quantistica. Newton era completamente sorpassato o, più esattamente, si rivelò un’approssimazione di una descrizione della natura più precisa e, dopo cento anni, siamo di nuovo qui che, ignorando forse le lezioni del passato, esultiamo per aver (quasi) un’unica teoria per tutti i fenomeni naturali. Certo, potremmo sbagliarci di nuovo, e non sarebbe cattiva cosa. Vale la pena di ricordare che nel passato l’arroganza degli scienziati si è rivelata una follia; e non solo, in un certo senso la percezione di saperne abbastanza o addirittura tutto su come la natura funziona ha danneggiato e sempre danneggerà lo spirito dell’uomo. Humphry Davy, durante una lezione pubblica del 1810, lo ha affermato con eleganza: “Nulla è così mortale per il progresso della mente umana della presunzione di una verità scientifica definitiva; di una natura senza più misteri; di un trionfo definitivo che ci consegna un mondo privo di nuove conquiste.”
Magari tutta la fisica che conosciamo è solo la punta dell’iceberg, oppure siamo davvero vicinissimi a una “teoria del tutto”. In ogni caso, una cosa è certa. Al momento, grazie agli sforzi impegnativi di migliaia di fisici di tutto il mondo, abbiamo una teoria ben collaudata che funziona con un’ampia gamma di fenomeni. Una teoria stupefacente, che pur unificando così tanti aspetti della natura, ha come sintesi un’equazione che si scrive su una cartolina:
Images
Formula 1
La chiameremo equazione fondamentale, al cuore della teoria nota come Modello Standard della fisica delle particelle. Ve la mostriamo, anche se a prima vista dirà poco alla maggior parte dei lettori.
Ovviamente, solo un fisico professionista capirà i dettagli dell’equazione, ma non la mostriamo per quello. Per prima cosa, volevamo farvi vedere una delle più strepitose equazioni della fisica; fra poco dedicheremo diverse pagine a spiegare perché è tanto meravigliosa. E poi, è davvero possibile assaporare come vadano le cose semplicemente parlando dei simboli che la compongono e senza conoscere la matematica.
Cominciamo il riscaldamento descrivendo l’obiettivo dell’equazione fondamentale. Qual è il suo compito? Che lavoro fa? Il suo compito è stabilire le regole con cui ogni particella dell’universo interagisce con le altre. L’unica eccezione è che non tiene conto della gravità, una spiacevole mortificazione per tutti i fisici. Gravità a parte, il suo obiettivo è d’ammirevole ambizione. La scoperta dell’equazione fondamentale è sicuramente uno dei più grandi risultati della storia della fisica.
Cerchiamo di essere chiari su cosa intendiamo per “particelle che interagiscono”. Significa che qualcosa accade al moto delle particelle come risultato della loro interazione. Per esempio, due particelle potrebbero disperdersi allontanandosi e cambiando direzione; oppure potrebbero mettersi a girare in orbita tra loro, ognuna intrappolando l’altra in quello che i fisici chiamano “stato legato”. Un atomo è un esempio di stato legato: nel caso dell’idrogeno, un singolo elettrone e un singolo protone sono legati tra loro in accordo con le regole definite dall’equazione del Modello Standard. Nel capitolo precedente abbiamo parlato molto dell’energia di legame: le regole di calcolo per l’energia di legame di atomi, molecole o nuclei sono contenute tutte nell’equazione fondamentale. In un certo senso, conoscere le regole del gioco significa descrivere il modo in cui l’universo si comporta a un livello molto profondo. Così, quali sono queste particelle di cui è composto l’universo e come interagiscono tra loro?
Il punto di partenza del Modello Standard è l’assunto dell’esistenza della materia. Più precisamente, il Modello presuppone l’esistenza di sei tipi di quark, tre tipi di leptoni carichi, tra cui l’elettrone, e tre tipi di neutrino. Guardiamo come compaiono nell’equazione fondamentale le particelle di materia: sono indicate dal simbolo ψ (si pronuncia “psi”). Per ogni particella esiste anche un’antiparticella corrispondente. L’antimateria non è roba da fantascienza, ma un ingrediente necessario dell’universo. Il primo ad accorgersi della necessità dell’antimateria fu il fisico teorico britannico Paul Dirac alla fine degli anni Venti, quando predisse l’esistenza di un compagno dell’elettrone chiamato positrone, dotato esattamente della stessa massa ma di carica elettrica opposta. Abbiamo già incontrato i positroni come prodotti della reazione di fusione di due protoni in un deutone. Prevedere l’esistenza di qualcosa mai vista prima è una delle proprietà meravigliosamente convincenti di una teoria scientifica di successo. L’osservazione successiva di quel “qualcosa” in un esperimento offre l’evidenza inoppugnabile d’aver davvero compreso almeno una parte del funzionamento dell’universo. Spingendoci oltre, una teoria sarà tanto più impressionante quanto più numerose saranno le sue predizioni, una volta confermate dall’esperimento. Al contrario, se l’esperimento non trova quanto previsto, la teoria non può essere corretta e sarà affossata. Non c’è spazio per il dibattito, in questa competizione intellettuale. L’esperimento è un arbitro definitivo. Il momento di gloria per Dirac arrivò pochi anni dopo, quando Carl Anderson osservò per primo in modo diretto i positroni usando i raggi cosmici. Per questi risultati Dirac prese il Nobel nel 1933 e Anderson nel 1936. Per quanto esoterico possa apparire, il positrone oggi è usato normalmente negli ospedali di tutto il mondo. I tomografi PET (acronimo di Positron Emission Tomography, Tomografia a Emissione di Positroni) sfruttando i positroni permettono ai medici di costruire mappe tridimensionali del corpo. È improbabile che, alle prese con l’idea di antimateria, Dirac avesse in mente un’applicazione tomografica in medicina. Ancora una volta sembra che la comprensione dei meccanismi profondi dell’universo ritorni piuttosto utile.
C’è un’altra particella di cui si prevede l’esistenza, anche se parlarne ora significa spingersi un po’ troppo avanti: è rappresentata dalla lettera greca ϕ (si pronuncia “fi”), tra le ultime componenti dell’equazione. A parte questa “altra particella”, i quark, i leptoni carichi e i neutrini insieme ai loro partner di antimateria sono stati tutti osservati sperimentalmente. Ovviamente non a occhio nudo, ma con rivelatori di particelle, una sorta di macchine fotografiche che scattano un’istantanea delle particelle elementari che fugacemente vengono al mondo. Molto spesso individuarne una ha fruttato un Nobel. La penultima a essere stata osservata – completando le dodici particelle note della materia – è stata nel 2000: il neutrino tau, il cugino evanescente del neutrino elettronico che fuoriesce dal Sole come risultato delle reazioni di fusione.
I quark più leggeri si chiamano up e down e compongono i protoni e i neutroni. I protoni sono essenzialmente composti da due quark up e uno down, mentre i neutroni da due down e un up. La materia ordinaria è fatta di atomi e gli atomi hanno un nucleo di protoni e neutroni, circondato a una distanza relativamente grande dagli elettroni. In definitiva, quark up e down ed elettroni sono le particelle dominanti nella materia ordinaria. Per inciso, i nomi delle particelle non hanno nessun significato tecnico. La parola “quark” fu presa dal fisico americano Murray Gell-Mann dal poema Finnegans Wake di James Joyce. Gell-Mann aveva bisogno di tre quark per spiegare le particelle allora conosciute e un passaggio di Joyce sembrava molto appropriato:
Three quarks for Muster Mark!
Sure he has not got much of a bark
And sure any he has it’s all beside the mark.1
Gell-Mann in seguito precisò che la parola che aveva in mente avrebbe dovuto pronunciarsi “quork”, aveva questo suono in testa prima di imbattersi nel testo di Joyce. Ma poiché “quark” in Joyce fa chiaramente rima con “bark”, qualcosa non tornava. Gell-Mann osservò allora che la parola, oltre al significato ordinario di “grido di gabbiano”, poteva anche indicare il “quarto di gallone”, una misura di capacità, in inglese “quart” (pronunciato “quort”), permettendogli così di conservare la sua idea iniziale di pronuncia. Forse non sapremo mai come si dovrebbe pronunciare davvero.
La scoperta di altri tre quark, culminata nel 1995 con l’osservazione del quark top, ha contribuito a rendere l’etimologia della parola davvero inadeguata, offrendo una lezione per il futuro ai fisici desiderosi di cercare oscuri passaggi letterari per battezzare le proprie scoperte.
Tribolazioni del nome a parte, l’ipotesi di Gell-Mann che i protoni e i neutroni siano costituiti da oggetti più piccoli si dimostrò corretta nel 1968, quattro anni dopo la sua predizione teorica, quando i quark furono osservati nell’acceleratore di particelle di Stanford in California. Sia Gell-Mann sia i fisici autori dell’esperimento furono premiati con il Nobel.
Oltre alle particelle di materia di cui abbiamo parlato e alla misteriosa ϕ, ci sono altre particelle che occorre introdurre. Sono il fotone, il gluone e le particelle W e Z. Spendiamo due parole sul loro ruolo: sono le particelle responsabili delle interazioni tra le altre particelle. Senza di loro, nulla interagisce con nulla: l’universo sarebbe un luogo di una noia mortale. Diciamo che il loro compito è di portare la forza dell’interazione tra le particelle di materia. Il fotone è la particella responsabile del trasporto della forza tra particelle cariche elettricamente come l’elettrone e i quark. In un senso molto concreto è il fondamento di tutta la fisica scoperta da Faraday e Maxwell e così costituisce la luce visibile, le onde radio, i raggi infrarossi, le microonde, i raggi X e quelli gamma. È perfettamente corretto pensare a un getto di fotoni emesso da una lampadina, che rimbalza dalle pagine del libro nei nostri occhi, sofisticati rivelatori di fotoni. Un fisico direbbe che i fotoni mediano la forza elettromagnetica. Il gluone non è onnipresente nella vita quotidiana come il fotone, ma il suo ruolo non è meno importante. Nel cuore di ogni atomo c’è il nucleo, una palla di carica positiva (i protoni sono carichi, i neutroni no): come accade avvicinando i poli uguali di due magneti, i protoni si respingono per via della forza elettromagnetica. Semplicemente, preferirebbero disperdersi lontani tra loro, invece di essere costretti tutti vicini: ma ciò non accade, l’atomo esiste. Il gluone media la for...

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