PARTE SECONDA
Fenomenologia
a cura di Adriana Polveroni
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I collezionisti: chi e che cosa
Nel 1895, anno di nascita della Biennale di Venezia, accanto all’esposizione figurava anche un ufficio vendite che negli anni quaranta sarà gestito da Ettore Gian Ferrari, padre di Claudia, nota collezionista e gallerista scomparsa nel 2010. Il mondo dell’arte era piccolo, le grandi mostre si mischiavano al mercato, dando l’opportunità ai collezionisti di vedere nella stessa occasione le proposte critiche che di lì a poco diventavano offerte commerciali. L’ufficio vendite della Biennale di Venezia chiude negli anni sessanta per la pressione di alcuni galleristi che si ritengono penalizzati dall’iniziativa. Anche a seguito di questo episodio che esprime simbolicamente il cambiamento in atto, il sistema dell’arte si fa più complesso, articolandosi in primis tra profit e non profit – la Biennale di Venezia rientrerebbe in questo secondo settore – sebbene i loro confini rimangano per certi versi labili. Nel frattempo le biennali sono aumentate in modo esponenziale, tanto da raggiungere come un virus ogni angolo del pianeta, e parallelamente si è rafforzato il potere del mercato, con aste e fiere che crescono sia nel numero sia per lo spessore culturale che dovrebbero garantire.
Oggi che il collezionismo riveste un ruolo sempre più forte nel sistema dell’arte, anche i suoi attori ne hanno seguito lo stesso destino espansivo. Fra i collezionisti non si annoverano più solo singoli individui o famiglie che hanno alle spalle diverse generazioni di art addicted, ma banche, aziende, fondazioni. L’Italia presenta una particolarità in più. La divisione più significativa non è tanto fra collezionisti grandi o piccoli, ma tra chi sceglie la strada della visibilità, anche in assenza di fondazioni private, concedendosi spesso all’attenzione dei media con interviste e occasioni pubbliche volte a far conoscere la propria collezione, e chi invece sceglie di rimanere nascosto, uno zoccolo duro del bel mondo del collezionismo che fonda la propria ricerca, qualcuno dice il proprio potere, su un severo anonimato. Uno dei deterrenti più forti alla visibilità è il fisco che, sebbene in Italia sia argomento conflittuale e spesso disatteso, sulle transazioni in materia d’arte grava con un’IVA al ventuno percento, superiore di svariati punti a quella esistente rispettivamente in Francia (5,5 percento), Paesi Bassi (sei percento), Germania e Spagna (sette percento), Austria (dieci percento).1 Una certa tradizione di understatement, radicata più al Nord specie nel collezionismo piemontese che risulta tuttora tra i più consolidati, e l’idea che meno ci si espone e più si conta davvero fanno il resto. Comportamento a dir poco strano per un paese come il nostro vocato all’esibizione del lusso e del bello, inclinazione che ha una radice nella cultura cattolica e lontano quindi dal rigore protestante e calvinista che connota la forma di vita dei paesi del Nord Europa e degli Stati Uniti, dove invece il collezionismo tanto è più solido e tanto è più “aperto“ alla comunità. Eppure da noi è preferibile non mostrare la propria collezione di tesori, perché spesso questa è “frutto del peccato”: il denaro e i suoi risvolti a volte poco trasparenti.
Il presente volume tratta di numerosi e autorevoli collezionisti italiani – oggi più frequentemente interessati a dialogare con il pubblico – di alcuni dei quali proponiamo interviste, incursioni nel loro pensiero e in quella fetta della loro vita privata che ha a che fare con il possesso dell’arte, dettato più da passione che da intenti speculativi. Ma non è stato possibile censirli tutti, tanto meno dar loro la parola, per la reticenza incontrata. Rimandando alle interviste in appendice e ai diversi capitoli in cui ricorrono le testimonianze dei singoli collezionisti, riguardo il tema dei soggetti vogliamo concentrarci su chi oggi occupa una posizione decisamente visibile: le corporate collections, le banche – con i suoi trentamila pezzi, la Chase Manhattan Bank possiede la più grande collezione di arte contemporanea del mondo –, le fondazioni ex bancarie, le fondazioni private, che data l’espansione del fenomeno meritano un capitolo a parte, e quei segmenti di mercato, aste e fiere, che negli ultimi anni hanno acquisito un peso crescente.
Del collezionismo espresso dai privati non si può tuttavia non segnalare alcuni cambiamenti decisivi. Non solo l’essere diventato globale e aperto ai suggerimenti che vengono da luoghi molto lontani dalla cultura di appartenenza, tratto che emerge a partire dagli anni novanta e che è analizzato nel capitolo storico riguardante questo periodo, ma anche il valore simbolico che esprime nella società e il ruolo che riveste nel mercato.
I collezionisti di oggi
In un denso libro dedicato al collezionismo, Il possesso della bellezza,2 Alessandra Mottola Molfino, storica dell’arte ed ex direttrice del museo milanese Poldi Pezzoli, e la sorella Francesca, psicoanalista, si soffermano sovente sulla trasformazione del senso del collezionare:
Nel nostro secolo la diminuzione del tempo di lavoro, l’alienazione dal prodotto del lavoro, il diffuso benessere hanno indirizzato ogni classe verso l’attività collezionistica. Si tratta di un nuovo tipo di etica, che è andato crescendo a dismisura, che era stato codificato negli anni trenta come hobby: uno “svago serio”.3
Un’analisi simile è estendibile al collezionismo nelle sue molteplici declinazioni, non necessariamente con riferimento specifico all’arte. Tuttavia, è innegabile che il collezionismo di oggetti d’arte abbia conosciuto negli ultimi anni un impulso rilevante e un’esposizione mediatica altrettanto forte. La sua identificazione come status symbol capace di accrescere il prestigio dell’individuo nella società, arrivando a soddisfare quello che con un’analisi alquanto impietosa Alessandra e Francesca Mottola Molfino definiscono la «vanità e il desiderio di scalata sociale», che poggiano su complessi meccanismi psicologici relativi alla «costruzione della propria identità […] all’aumento della stima di se stessi […] alla creazione di identità sostitutive, “fittizie”» e schiudono anche una prospettiva di crescita culturale,4 collocata però nel mondo attuale segnato da una straordinaria offerta di occasioni di consumo, sposta il profilo del collezionista dall’arte al mercato, trasformandolo spesso in consumatore tout court. Seguiamo il ragionamento delle due autrici.
Collezionare è una inesausta acquisizione di beni inutili sul piano pratico, è una continua ricerca di completezza e di soddisfacimento attraverso il possesso di oggetti. A ben vedere ciò si potrebbe applicare anche al concetto di consumismo, dal momento che nella nostra società gli oggetti sono diventati il centro di ogni desiderio e aspirazione. Collezionare non è solo una particolare forma di consumismo, ma nella cultura occidentale il consumismo è la forma collettiva in cui si è trasformato quel particolare modo di costruire l’identità individuale e di organizzare la relazione con la realtà: il modo del collezionare che dal Rinascimento si è imposto come modello culturale e sociale.5
Da questo punto di vista, il collezionismo non si distanzierebbe molto dallo shopping e gli oggetti artistici si porrebbero sullo stesso piano di quelli di design, di abbigliamento o high-tech, i maggiori oggetti del desiderio del nostro tempo. In effetti, l’arte ha assunto negli ultimi anni un ruolo per certi versi ibrido: le occasioni di vedere una mostra incentivano il turismo, sia pure culturale; i pellegrinaggi per raggiungere fiere d’arte dall’altra parte del globo si mischiano a viaggi di piacere, e a conferire valore all’oggetto è il gran tour oggi mondiale, il percorrimento defatigante di centinaia o migliaia di chilometri mentre mostre e fiere sotto casa sono decisamente meno attraenti. Se si va in una città nuova, non si manca la visita al museo, che quasi mai conserva l’arte del passato. È la contemporaneità che ha fatto della mobilità un valore e un obbligo, comportamento fino a pochi anni fa sconosciuto e promosso non tanto da un disinteressato amore per il bello, quanto da una penetrante persuasione mediatica che decide anche che cos’è bello.
L’oggetto artistico, l’opera per meglio dire, non è esente da tutto questo. «Il collezionismo cambia a metà degli anni novanta quando diventa uno status symbol e non mira più al possesso del pezzo raro, ma al possesso del pezzo conosciuto e riconoscibile: se l’opera ha una risonanza nella percezione collettiva, allora funziona» afferma Luca Massimo Barbero,6 additando un fenomeno che l’analisi di Alessandra e Francesca Mottola Molfino ci aiuta a definire “democratizzazione della bellezza”: allargamento della base dei fruitori della stessa con evidente decremento della rarità del pezzo. Fatto che però, sottolinea Barbero, non è vissuto come perdita ma, semmai, come aumento di prestigio. È piuttosto evidente che tutto ciò non discende dal nulla e non ha un carattere neutro, ma poggia le sue fondamenta nel progressivo depauperamento del valore del pezzo unico − viviamo pur sempre in un’epoca di riproducibilità tecnica dell’opera − e la serialità, la pluralità degli oggetti che popolano la nostra vita ne definiscono la temperie culturale. Ma è anche legato all’ambiente particolarmente strutturato, dotato di regole precise che ruotano intorno a interessi economici, in cui si è trasformato il sistema dell’arte, nel quale gli artisti, come attori della rete commerciale e di una catena del consenso, hanno svolto il loro ruolo.7
Che cosa ha che fare tutto questo con il collezionismo come lo abbiamo storicamente e culturalmente conosciuto? Molto e poco. Molto, perché i “dati” e le premesse riportati sono innegabilmente veri: il benessere ha consentito a molti di avvicinarsi all’arte, frequentazione che fiere, mostre ed aste hanno reso estremamente accessibile. E, paradossalmente, la stessa crescita vertiginosa delle quotazioni dell’arte contemporanea ha favorito il mercato anziché restringerlo: «È l’incremento dei costi delle opere che in certi anni ha spinto il collezionista a comprare molto per paura di ritrovare poco dopo l’artista a prezzi irraggiungibili» ha affermato il collezionista romano Mario Croce.8 Ma vi ha a che fare poco, perché tali atteggiamenti connotano più che altro i molti compratori che si sono affacciati sul mercato negli ultimi anni, alcuni dei quali hanno scontato notevoli perdite per acquisti fatti negli anni ottanta e più recentemente all’epoca del boom dell’arte contemporanea, mentre alcuni fra i maggiori collezionisti sono diventati grandi mercanti. L’esempio più clamoroso è Charles Saatchi, l’ex pubblicitario inglese che negli anni novanta ha costruito il fenomeno della Young British Art lanciandone gli artisti sul mercato che di lì a poco sarebbe diventato globale. Saatchi, come François Pinault e i molti collezionisti americani che tra Miami, Los Angeles e New York hanno dato vita a raccolte di proporzioni decisamente museali, dettano l’agenda di comportamenti particolarmente aggressivi sul piano del mercato ed estremamente autorevoli per la definizione degli artisti di successo. Inoltre, poiché non sempre le collezioni presentano un indirizzo organico – un collezionista può iniziare con un certo criterio d’acquisto e poi, nel corso degli anni, può interessarsi anche ad altri artisti o linguaggi − e la spinta all’acquisto è costante, capita che il collezionista alimenti il mercato sommerso attraverso una continua compravendita al di là del filtro delle aste e delle gallerie. Da questo punto di vista la figura del collezionista si mischia a quella del piccolo mercante e del dealer, personaggio che svolge un ruolo di mediazione tra artista e acquirente, e che a volte si presta a speculazioni tendenti a far lievitare il costo delle opere.
Tra la nutrita platea dei compratori che affollano le molte fiere sparse per il mondo e i collezionisti-dealer, tali per scelta strategica o semplicemente perché organici alle regole del mercato, stanno i collezionisti di cui questo libro ha l’ambizione di trattare. La genealogia è rintracciabile in quel mondo abbastanza circoscritto, costituito dalla borghesia illuminata, presente soprattutto al Nord e legata all’ambiente imprenditoriale, che si afferma tra gli anni quaranta e sessanta e che è analizzata nei primi capitoli storici. Allora, la raccolta d’arte era indirizzata soprattutto alla produzione italiana e, dopo la fertile stagione delle avanguardie, i cui echi risuonano fino agli anni trenta, per i collezionisti non fu facile legarsi all’arte che germinava in quegli anni. Riviste con gli occhi di ora, alcune scelte paiono poco coraggiose, limitate al linguaggio più classico – la pittura – e tuttavia animate da un criterio di ricerca, dalla decisione spesso consapevole di voler esprimere la cultura del proprio tempo, al di là delle indicazioni più o meno pressanti del mercato. Le quali esistevano anche allora ed erano incarnate da gallerie intraprendenti, come Il Milione e Il Naviglio di Milano, alle quali molto spesso i critici erano particolarmente vicini.
Con il rischio di essere accusati di un certo passatismo, va detto che la differenza sostanziale tra i collezionisti di qualche decennio fa e quelli attuali sta nella difficoltà che questi ultimi hanno oggi nel conoscere artisti che non rispondono a criteri commerciali, pur tra le tante vetrine in cui l’arte viene proposta, le molte occasioni di avere una visione globale della produzione e i molti siti di associazioni di collezionisti.9 Non è tanto la rarità delle gallerie che fanno ricerca – ce ne sono per fortuna, specie tra le più giovani e non solo – quanto il fatto che se un artista non vende, non viene sostenuto più di tanto. La crisi globale iniziata nel 2008 ha colpito anche le gallerie, le quali possono sempre meno permettersi investimenti a perdere. D’altra parte, è quasi impossibile conoscere artisti che non abbiano dietro una galleria sufficientemente forte, non si vedono nelle fiere, ma nemmeno nei musei, i quali, a loro volta, sono sempre più obbligati a legarsi al mercato per sostenere i costi produttivi delle opere. E gli “artisti clandestini”, senza una patria espressa dalla galleria, non arrivano sui giornali, non fanno notizia. Non sono riconoscibili, come afferma Luca Massimo Barbero, e quindi non risuonano nel gusto del momento.
Da questo punto di vista il collezionista ha davanti a sé un percorso più difficile che in passato. Ha bisogno di un’informazione costante, che vada oltre anche le tante riviste del settore, ha necessità dei suggerimenti delle gallerie più autorevoli, senza però fermarsi a esse. E il rapido turnover degli artisti – i giovani talenti spesso invecchiano nel giro di cinque anni – non lo aiuta. Deve viaggiare, non solo nel circuito delle fiere maggiori, ma anche tra quelle satellitari, senza tirarsi indietro nella visita a centri non profit e spazi autogestiti. È anche qui che si possono incontrare gli artisti del futuro.
Ad aiutarlo sarà il suo fiuto. Quell’“appetito dell’occhio” di cui ha parlato Lacan, prezioso mix di intelligenza, curiosità, intuizione e cultura che oggi, come ieri, distingue il collezionista da chi non lo è.
Banche e fondazioni ex bancarie
Come si intuisce già dal nome, le corporate collections si sviluppano soprattutto in area anglo-americana negli anni settanta, ma il fenomeno si afferma nel 1986 quando Ronald Reagan vara una riforma che riduce le agevolazioni fiscali, fissando la possibilità di detrazione non sul valore di mercato della donazione ma sulla fattura dell’acquisto. Misura severa per evitare le frodi fiscali dovute alla possibilità di far lievitare le quotazioni soprattutto nel contemporaneo, settore particolarmente sensibile alle manovre speculative. Il provvedimento disincentiva le donazioni ai musei da parte di collezionisti e aziende, spingendoli a creare la propria corporate collection o fondazione. Il caso italiano, dove negli ultimi anni la nascita di fondazioni ha avuto una forte accelerazione,10 è ancora diverso, essendo le agevolazioni fiscali per le donazioni ancora più scarse.11 Non è solo la statunitense Chase Manhattan Bank, di cui si è già accennato, a possedere una corporate art collection, anche in Europa sono soprattutto alcune banche, come le olandesi ING Group e ABN AMRO, la tedesca Deutsche Bank, la belga Dexia, e grandi aziende come la francese Société Générale, la norvegese Statoil e l’olandese Turmac Tobacco Company, a dare vita a tali iniziative. Quest’ultima, cui appartiene la Peter Stuyvesant Collection, andata parzialmente all’asta nella sede di Amsterdam di Sotheby’s nel 2010, vanta un interessante primato: all’inizio degli anni cinquanta, il direttore Alexander Orlow inizia una collezione d’arte contemporanea invitando tredici artisti a realizzare altrettante grandi opere che rendano più gradevole l’enorme tabacchificio, inaugurando così la tradizione dell’arte nel luogo di lavoro.
Ma il miglioramento estetico di fabbriche e aziende non è la spinta principale per la creazione di queste strutture. Spiega Francesco Poli:
Le corporate art collections hanno contribuito ad allargare l’interesse per l’arte contemporanea legittimando l’intreccio funzionale dei valori simbolici dell’arte con le più concrete e produttive strutture economiche e finanziarie. In questo senso l’arte svolge una funzione di prestigio non solo per i singoli imprenditori e finanzieri, ma anche per le aziende secondo precise strategie di immagine gestite con logiche manageriali.12
Tuttavia, l’individuazione della collezione come risorsa strategica per la comunicazione e il marketing, cui recentemente si affiancano programmi educational rivolti al personale e al pubblico generico, come fa per esempio Deutsche Bank, in Italia segna il passo. Molte delle banche e aziende appena citate fanno parte dell’IACCCA (International Association of Corporate Collection of Contemporary Art) con sede a Parigi ma, tra i trenta membri presenti, per l’Italia figura solo UniCredit. Negli anni la banca, attraverso la fusione con altri istituti di credito italiani e l’assorbimento di realtà straniere soprattutto tedesche e dell’Europa dell’Est, ha messo in piedi un’ingente collezione contemporanea, con opere di Baselitz, Richter, Christo, Fischli & Weiss, Paolini, Warhol, tra gli altri, e nella quale un grande spazio è dato alla fotografia (quattromila esemplari); l’insieme della raccolta più recente affianca quella storica avuta in eredità e in totale oggi la collezione conta seimila opere. UniCredit è anche l’unica banca italiana a utilizzare le arti nell’apprendimento organizzativo, mettendo in contatto attraverso Unimanagement, il centro internazionale di sviluppo della leadership situato a Torino, i propri manager con gli artisti e i dipartimenti educazione dei musei. Inoltre con UniCredit Art Day, il sabato dedicato ai dipendenti e alle loro famiglie, con attività nei musei dei ventidue paesi in cui il gruppo lavora, l’arte è entrata direttamente nella vita dell’impresa. Si tratta di una strada avviata con il progetto UniCredit per l’Arte, ideato e curato fino al 2009 da Catterina Seia, proveniente dal mondo della formazione.13
Con la collezione, UniCredit realizza un’autonoma attività espositiva in Italia e all’estero, ma soprattutto ha messo in piedi un programma di committenza in collaborazione con alcuni musei d’arte contemporanea, intervenendo nella progettazione e finanziando la produzione di alcune opere, che, pur entrando a far parte della sua collezione, sono concesse in comodato d’uso. Con il MAXXI di Roma ha avviato il progetto “Committenze Contemporanee”, dove un artista di oggi dialoga con un maestro presente nella collezione della Galleria Borghese e con il MAMBO di Bologna realizza il “Focus on Italian Contemporary Art”. Con il Castello di Rivoli collabora invece per la realizzazione di un programma di educazione all’arte, con il MART è coinvolta nell’attività editoriale e nella produzione di mostre di giovani artisti e con il MACRO su progetti specifici, come l’opera permanente di Daniel Buren Danza tra triangoli e losanghe in tre colori. La partnership con i musei può rappresentare ...