Il selvaggio di Santa Venere
Nota dell’editore
La presente edizione è fedele al testo dell’edizione Arnoldo Mondadori nella collana Oscar narrativa gennaio 1987.
Mio padre parlava e lavorava. Lavorava come un treno in corsa. Era sempre in moto, anche mentre mangiava il suo pezzo di pane con olive o fichi secchi o frutta. Mangiava, parlava e faceva sempre qualcosa. Tagliava un rametto, aggiustava una vite, toglieva una foglia, portava erba ai conigli, preparava il beverone per i porci. Era bravo a potare, a innestare, a seminare; a mietere non c’era un altro che l’eguagliasse. Allevava la vigna come gli uomini di lassù che da un filare di viti ricavavano mosto che noi non ne ricaviamo, a causa della vecchia maniera, neanche da mille viti. E mille viti richiedono più del doppio del doppio terreno e più della doppia della doppia fatica. Fra l’altro lassù ormai usano la macchina in tutto. Bisogna ponderare e, dopo aver dissodato la terra, fare uno sforzo e comprare magari un piccolo trattore. Comprare una motozappa per la vigna e il giardino, così non si è schiavi di quei pochi poveracci che sono rimasti e al tempo della vigna non sanno dove andare per primo. Bisognava che io, che ero giovane, frequentassi una scuola di agraria, visto che non avevo avuto intenzione di compiere studi seri, dopo le medie. Bisognava svecchiare il cervello e, di conseguenza, i metodi di lavoro e di produzione. Altrimenti si rimarrà sempre indietro, mentre il resto del mondo progredisce. Egli si rende conto di queste cose tramite la rivista di agricoltura che riceve, che si fa mandare. Non è possibile continuare a vivere a occhi chiusi... Ah, la vita militare per lui era stata una scuola grandiosa! Come per suo padre d’altro canto. Aveva visto mondo, conosciuto popoli diversi, imparato un mare d’insegnamenti che altrimenti avrebbe ignorato per sempre... Ora per me, per via di tutto quanto è sorto di nuovo, cinema televisione giornali scuola d’obbligo che bene o male avevo frequentato fino a quattordici anni, la vita militare è un’assurdità. Fino alla sua generazione no. Fino alla sua generazione, si attendeva l’ora di partire per soldato con segreto piacere, giacché si sapeva di scoprire altri luoghi, altre mentalità che ti sarebbero certo stati d’ammaestramento; giacché si sapeva di rompere con la monotonia dell’ambiente che non ti dava nessuno stimolo.
Nemmeno l’ascoltavo. Era tale l’abitudine di sentirlo parlare, che già conoscevo l’argomento che seguiva a quello che stava trattando. In certo senso io conoscevo, e conosco, mio padre e la sua vita più di com’egli non immaginasse o sospettasse. Dalla nascita fino a quel momento in cui mi stava davanti a parlare e a faticare. Era inoltre un uomo strano, a giorni estroso, divertente. Era capace d’interrompere il lavoro e di dirmi:
«Su, Dominic, vieni sotto. Lottiamo. Vediamo se sei capace di mettere a terra tuo padre».
Se esitavo, se non ero pronto a muovermi, mi si accostava e mi abbrancava, mi stringeva nelle sue braccia che sembravano di ferro e mi sbatteva sulla terra zappata come un salame. Usciva in una risata spesso rumorosa, scrollava la testa e commentava:
«Quando avevo la tua età, mio padre non riusciva a farmi cascare. Alla tua età io ero più forte di mio padre».
Un giorno m’impegnai e mi riuscì di mettergli lo sgambetto e lo feci stramazzare a terra. Mio padre si levò da terra moscio moscio, si grattò il capo ed esclamò con dolore: «Stai invecchiando, Leo!» e pareva rassegnato; e io gli risi in faccia.
Mi fissò cupo, mi corse addosso, mi agguantò e, in una furia che mi spaventò, mi fece volare due metri in aria e cascare come un sacco di stracci sulla terra zappata.
«Impara a fare lo sgambetto a tuo padre!» disse e si stropicciò perfino le mani dalla soddisfazione.
Anche il nonno, all’età verde, era come mio padre.
Erano, anzi sono, due personaggi strambi e interessanti, mio padre e il nonno, don Mico Arcàdi. Il nonno ha ottantacinque anni e ancora è attivo, energico. Vive in campagna a guardia della roba. Sale raramente al paese e ancora è lucido. Mio padre spesso gli diceva, e non so se dentro c’era spirito di vendetta:
«Una volta corre la lepre e un’altra il cane, pà... Ti ricordi di quando io ero ragazzino e tu mi lasciavi solo qua?»
«Io ci sto volentieri e non sono fifone come te» gli ribatteva pronto il nonno.
«Tu dai del fifone a me?! Ritira la parola!» e mio padre prendeva suo padre per il polso e gli ripeteva: «Ritira, mangiati la parola!»
A volte il nonno s’irritava di questi giochi e scherzi di cani, come se ancora fossero dei bambini; altre volte faceva come un gallo pronto ad attaccare. Alla fine ridevano, padre e figlio, e cominciavano a beccarsi a parole. Il nonno ha la lingua appuntita e non raramente è lui a vincere. Non raramente si mette, anche lui, a parlare del suo passato e dei progressi che ha fatto. È orgoglioso, il nonno, del fondo che ha acquistato quasi mezzo secolo fa con i soldicelli della pensione di mutilato della prima grande guerra. Si vanta che il suo fondo sta a modello in tutta la contrada per com’è coltivato e curato.
«E il mio lavoro?» si ribellava mio padre quand’io ero giovinetto.
«A dare il via è stato Broccia» faceva il nonno e si batteva la mano legnosa sul petto. «Certo, anche tu stai facendo la tua parte e sicuramente tuo figlio farà ancora qualcosa di più».
Ma io ormai ho salutato quella terra. Lavoro e vivo altrove, deludendo anche in questo sia il nonno che mio padre.
Avevamo già lavorato tutta l’estate in quel pezzo di terra accanto al fondo del nonno che mio padre aveva acquistato per poche centinaia di migliaia di lire dal padre di Nannina che si era imbarcato per l’Australia. Avevamo roncato olivastri e perastri e ginepri e rovi e mirti e ginestre spinose. Anzi li avevamo tolti via dalle radici, in modo da renderne per sempre libera la terra... Tutta quella zona, per quanto l’occhio riusciva ad abbracciare, era abbandonata, dato che contadini e giornalieri da anni avevano preso il volo per altre regioni e altre nazioni e altri continenti. C’era da comprare quote da un ettaro per cinquantamila lire; c’era da comprare oliveti e vigneti per pochi dindi. Per pochi dindi uno avrebbe potuto comprare un’intiera baronia. Ma nessuno amava più la terra, all’infuori di mio padre. Mio padre infatti s’era messo in coccia di decuplicare il podere di suo padre dov’era nato e cresciuto e che curava con sistemi moderni specie per l’ambiente. Visto che pure la mia, diceva, come la sua testa precisa e sputata, era nata per fare pidocchi, valeva la pena darsi anima e corpo alla campagna e creare un’ampia, moderna azienda agricola come quelle che aveva viste in Emilia Romagna, come quelle di cui c’erano illustrazioni nella rivista che riceveva. Ci sarebbe stato di certo da smerciare vino e olio e pollame e conigli e agrumi e verdure, per via della carestia di roba che si produce in loco. Ormai, non lo vedi da te?, tutto arriva da fuori. Perfino i pomodori; perfino la carne di capretto. Tutto. Bisogna, mi ripeteva, usare il cervello, come avviene lassù dove la gente, tutta tutta, grandi e piccini, pensa e medita sul lavoro da intraprendere. Perciò sono produttivi, perciò sono ricchi, perciò sono progrediti, perciò prosperano.
Parlava e lavorava. Lavorava ogni giorno – anzi lavora – come un treno in corsa, come un treno che travolge. Per me era veramente una fatica intollerabile, sconvolgente, sfibrante stare accanto a lui.
Settembre con le sue belle giornate se n’era andato e s’era presentato ottobre con tanti colori diversi e anche tanta frescura e mille profumi di uva e di pere e di fichi.
Negli ultimi giorni di questo mese piovve parecchio. La terra s’imbrosacò, o inzuppò, s’ammollò parecchio e zappare era assai più pesante che trascinare la croce la sera del venerdì santo. Lavoravamo col piccone per poter pulire perbene la terra dalle erbacce. Non avevamo più unghie, dato che a ogni colpo ci toccava levare manate di gramigna, di radici di pulicarie, di menta selvatica, di ortiche e di tante altre schifezzerie che divorano le sostanze della terra. Dietro di noi c’erano mucchi di zavorra. Montagne. La terra coltivata ne era letteralmente coperta. A metterci i buoi con l’aratro di ferro non avrebbero combinato nulla di buono. Anche il trattore non avrebbe combinato nulla di buono, visto che il terreno era veramente intessuto, proprio come la trama di una coperta, di radici da estirpare una volta per tutte. Certo, osservava mio padre – il nonno faceva lavorucci più leggeri nel giardino – il trattore avrebbe sconcato in poche ore la terra; ma le radici di quest’erbacce? Perciò bisogna dissodare con le nostre braccia, con le nostre mani – la mano dell’uomo è e sarà per sempre insostituibile – una volta per sempre. Il terreno dev’essere pulito radicalmente di ogni nodo di radice, se abbiamo veramente intenzione di allevare un buon quadro di bergamotti e una piantagione di gelsomini. E così annaspavamo come dannati dalla mattina alla sera tardi e speranza di un’esistenza diversa e migliore non balenava per coloro che si ostinavano a rimanere lì. Io non avevo in mente di rimanere un cacciavermi in eterno, dato che altre alternative non esistevano: o zappare o studiare. Perciò meditavo di smammare e me ne fregavo dei progetti di mio padre. No, capivo da me, per istinto, a diciottenni, che tutto il sistema va cambiato dalla a. Mi rendevo anche conto che per cambiare occorrono decenni di attività operosa e diligente e di buona volontà. Che manca. Giacché si tratta di operare in modo che la mentalità dell’uomo muti, migliori, in modo che l’uomo sia in grado di cambiare l’ambiente. Una catena. Dello stesso parere erano altri miei amici con i quali nei giorni di festa discorrevamo. Discorrevamo della necessità d’emigrare o di rimanere. Secondo il partito era opportuno rimanere. Già, ma il lavoro? ci chiedevamo. Zappare non piace più a nessuno. Proprio a nessuno, all’infuori di mio padre che, come suo padre, ancora è là a fare i conti con la sua terra, a curare il suo giardino, la sua vigna, il suo oliveto, i bergamotti e i gelsomini. Ma dopo la sua morte? Be’, con i compagni si concludeva che era un errore partire: avremmo arricchito altre regioni, avremmo votato per altri politici che poi al Parlamento avrebbero badato ai problemi della loro comunità, mentre il Sud sarebbe rimasto indifeso e sempre più emarginato. Colonia. Colonia d’Italia, colonia d’Europa. Al diavolo il Sud e tutti quelli del Sud che aspettano anno dopo anno la manna, invece di rivoltarsi, invece di appiccare fuoco ai politicanti ottusi e disastrosi più del terremoto, io mi dissi, e capivo che il male sta in noi stessi e piantai nel più bello mio padre e partii. Girai mezza Italia, fui in Francia, in Svizzera, in Germania, e ora mi sono sistemato in Emilia dove lavoro da carpentiere e faccio attività politica e me ne strafotto di non aver studiato. Vivo da operaio e non ho problemi di essere cliente del sindaco – a parte il fatto che nel mio paese potrei farlo io il sindaco. Ma a che pro: per essere un firmaiolo alle dipendenze dei mafiosi? No. Vi saluto –, o di questo e quel deputato. Sono un uomo libero, in un ambiente avanzato, che esprime le proprie idee, in piena franchezza e onestà... Al Sud non è lo stesso neanche per quelli del mio partito. C’è sempre una ragione d’impiego, di occupazione, di protezione al fondo delle intenzioni. Lo constato ogni volta che scendo al mio paese per salutare mio padre e mia madre. Il nonno mi rimprovera che ora che ho preso definitivamente il volo, la nostra terra muore. Muore insieme al padrone, la terra. La terra fiorisce insieme al padrone, invecchia insieme al padrone, muore insieme al padrone. E qua fa un lungo discorso, filosofa a modo suo. Lamenta inoltre che l’uomo è peggiorato nell’animo e nel corpo; ma soprattutto nell’animo; ed è tanto vero che l’animo dell’uomo è malato, anzi bacato come diceva il suo signor capitano, che basta buttare uno sguardo alla campagna abbandonata e morente come un vecchio stanco di vivere. In questo corpo malato fiorisce e prolifica la mafia, dice. S’incarognisce, la mafia. Mio padre tace. Davanti a suo padre non parla mai di mafia. Anzi soffre di sentir parlare di mafia. A me, quasi sottovoce, dice che non è come nel passato, la mafia, come ai suoi tempi. Egli da giovane è stato nella ’ndrina. Egli conosce tutto della ’ndrina. Di quella di ieri e di quella di oggi. Ieri si portava rispetto alla gente che ne era degna. Ora si va alla caccia di persone danarose e si inviano lettere minatorie. Dieci milioni lasciati lì, il tale giorno e alla tale ora, altrimenti te la passerai male tu e i tuoi e anche la tua roba. È facile infatti che taglino le piante, se non obbedisci. Tagliano infatti, e non raramente, giovani giardini di bergamotti, di mandarini, giovani vigne, intieramente; oliveti stroncati, mietuti. La gente paga e tace. E tutti sanno chi sono sti mafiosi, sti coraggiosi. Sono personaggi pubblici: occupano posti in Comune come assessori, o addirittura come sindaci. Protetti dai politici – si sussurra che a una riunione plenaria della mafia regionale c’era perfino un ministro. Nell’Aspromonte. Quando lo chiesi a mio padre che sa, egli s’irritò e mi rispose: che ne so io? – e ricchi con macchine e ville e condomini. Anche la legge sa chi sono sti mafiosi, li conosce, è in grado di stabilire da dove vengono loro quei soldi, ma tace; anzi qualche volta li riverisce. Mio padre meglio di tutti è a conoscenza di questi intrighi, perché ci sono vecchi compari che glieli confidano. Anzi ci sono di quelli che tentano d’incoscarlo di nuovo, ma egli, meno male, si tiene alla larga. Ne ha abbastanza; dice, di quella maniata di fetenti. Una volta, aggiunge, si fotte la vecchia. Me ne parla, ogni volta che torno laggiù. Ne è disgustato. Fu una brutta esperienza la sua con questa gentaglia. Brutta proprio, ma istruttiva. Allora però c’erano delle ragioni precise, se un ragazzo si faceva tagliare la coda. Era isolato, non vedeva nessuno, non aveva dove andare, non esisteva una sezione di partito, o un cinema, o un bar. Tutt’al più si stava in piazza, e i vaccari s’aggruppavano fra di loro; e i figli degli artigiani s’aggruppavano anch’essi fra di loro. Divisi dunque si era anche fra poveri. Perciò, per non rimanere tagliato fuori, per non essere sfottuto e ritenuto animale, una povera anima si aggregava alla ’ndrina. Per essere protetto e per sentirsi uomo, dato che gli dicevano: tu sei omo. Ora invece che senso c’è farsi tagliare la coda? Ci sono luoghi dove trascorrere il tempo, dopo una giornata di fitto annaspamento. Ora i giovani non sono più divisi secondo il mestiere. La scuola d’obbligo li unisce, li affiata. I vaccari e i pecorari erano ritenuti poco meno che animali. No, il povero ha pagato a carissimo prezzo, dai tempi dei tempi, la sua miserabile esistenza. Ora sta sorgendo una nuova mentalità. Guardati intorno. Ci sono una cinquantina di studenti in paese, e una decina di laureati. E tutti questi qua sono figli di braccianti emigrati, figli di ex caprai e artigiani. Fra questi studenti qua è finito lo spirito di superiorità che c’era ai miei tempi. Difatti non vedi da te stesso come a casa nostra vengono tutte le studentesse, anche le figlie dei vecchi signori, a trovare tua sorella? T’immagini quarant’anni fa la nipote del barone entrare nella casa del Selvaggio?... Tutto è mutato. Anche la ’ndrina. La ’ndrina s’è però incattivita. Sì, ti rispettano; ma devi saper filare più dritto dell’olio. Certo, se sgarrano con me, devono darmene conto, ché chi ti parla sa come toccare il tasto, sa dove andare, sa le parole da usare, sa chi prendere dal petto, sa a quale giudice della ’ndrina rivolgersi, senza intermediari... Il mio dovere l’ho fatto, e loro lo sanno. Muto sono stato come una tomba; e mi costa anche ora essere stato muto e sordo e cieco. Avrei potuto rovinare parecchie persone, se avessi raccontato. Ma ciò che hanno visto i miei occhi dalla mia bocca non è stato raccontato. Mi sono comportato da omo, secondo le loro regole, e lo sanno, e ne tengono conto... No, questi mafiosi di ora sono sporchi e avidi. Non hanno il senso del rispetto e dell’onore che si aveva un tempo. Ti aggrediscono alle spalle. Non hanno il fegato di affrontarti a viso scoperto, in pubblica piazza. Un tempo si agiva così. Di lui, quand’era volantino, avevano rispetto e anche paura. Ché non si spaventava del coltello, né della pistola. Affrontava la questione a viso aperto, affrontava. Loro lo conoscono. Loro sarebbero felici di averlo a capo. Anche i foresti vorrebbero averlo a capo: perché, fegato a parte, ha la lingua pronta e sa fare di conto. Sa amministrare. Anche di questi tipi hanno bisogno. Anzi ora più che mai, con tutti sti sequestri... Ad avere pochi scrupoli, cataste di bigliettoni potrebbe guadagnare. Ma a che serve la vita! No, pane e cipolla e cuore tranquillo, animo in pace. Rispettare l’uomo, il tuo simile. Questo è il vero coraggio...
Perché s’era lasciato affibbiare e incantare dalla ’ndrina?, gli chiedevo. Mah, così! Per la solitudine, per l’ignoranza e anche per le circostanze del suo destino. Suo padre, don Mico, dal dodicesimo anno in poi, dato che anche lui non aveva inteso studiare, l’aveva piantato al podere e – la sua voce ha un’incrinatura quasi di pianto, quando parla di questo, ma presto si riprende con uno scatto energico e prosegue e parla della sua picciolità, della sua adolescenza –. In maggio, soprattutto in m...