Le elegie anglosassoni
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Le elegie anglosassoni

Voci e volti della sofferenza

Maria Grazia Cammarota, Gabriele Cocco

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Le elegie anglosassoni

Voci e volti della sofferenza

Maria Grazia Cammarota, Gabriele Cocco

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Le cosiddette "elegie anglosassoni" sono raccolte in un'ampia antologia di testi poetici in inglese antico compilata nel X secolo. Intrecciando l'ethos germanico con la prospettiva cristiana, rispecchiano un patrimonio culturale remoto, spesso opaco, a volte enigmatico. Questa guida alla lettura fornisce strumenti metodologici e possibili chiavi interpretative per entrare in quel mondo, che attraverso le elegie dà una voce e un volto alle molteplici forme della sofferenza e propone una riflessione sulle situazioni fondamentali vissute dall'essere umano di ogni tempo: dallo struggimento per amore alla contemplazione di edifici costruiti dai giganti diventati un ammasso di rovine, fino al rancore del mitico fabbro Weland che medita la sua atroce vendetta.

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Information

Publisher
Meltemi
Year
2020
ISBN
9788855193184
Capitolo terzo
Commento ai testi
3.1 Errante / The Wanderer
L’Errante, che assieme al Navigante costituisce una delle due “elegie maggiori” del corpus poetico antico inglese, conta 115 versi trascritti ai ff. 76v-78r, tra la poesia di argomento cristiano Giuliana e il componimento sapienziale Doni agli uomini.
3.1.1 Le voci all’interno del testo
L’Errante ha suscitato un intenso dibattito tra gli studiosi sulla sua struttura bipartita e sulla pluralità di voci che lo caratterizzano. La prima parte (vv. 1-57) racconta la mesta vita di un esule lontano dalla patria e dai propri congiunti, il quale alterna la descrizione di gelidi paesaggi marini a quella delle proprie afflizioni nel ricordare gioie passate alla corte del suo signore. La seconda parte (vv. 58-115) ha invece un tono prevalentemente moraleggiante ed omiletico, raccomandando il distacco dalle cose terrene e la ricerca della gioia eterna, che deriva dalla grazia celeste elargita da Dio. Superata ormai l’ipotesi che il testo non fosse originariamente unitario, la questione della struttura è stata riconsiderata tenendo conto delle possibili voci narranti. L’Errante è stato letto infatti ora come un soliloquio esposto da un io lirico che prima racconta la propria infelice esperienza di esule alla ricerca di un signore e poi riflette sulla transitorietà della vita terrena e ricerca la salvezza eterna; ora come la sequenza di due monologhi pronunciati da figure distinte, l’errante e il saggio; ora come un monologo incorniciato da un’introduzione (vv. 1-7) e da una conclusione (vv. 110-115) affidate a una seconda voce, che interviene anche in vari punti con riflessioni di carattere gnomico (Orchard).
Queste incertezze sono dovute all’assenza dei segni grafici che indichino il discorso diretto e alla presenza di variazioni stilistiche e sintattiche che non rispondono ai moderni criteri di coerenza logica e unità compositiva. Dal punto di vista metodologico, come ha precisato Saibene, l’analisi va condotta tenendo conto delle tecniche di composizione dei testi poetici anglosassoni, che diversamente da quelli in latino conservano tratti della tradizione orale (§ 2.4). Ci troviamo, dunque, in presenza di un testo costituito da sezioni giustapposte, per lo più evidenziate nel manoscritto da una o più lettere di corpo maggiore (small capitals). Tali sezioni sono collegate tra loro mediante parole-eco, immagini tradizionali, espressioni formulari: un insieme di richiami intratestuali e intertestuali che permettevano al destinatario di ricreare l’unità del testo o, come direbbe Pasternack, di ricomporre di volta in volta un nuovo “mosaico”.
La difficoltà di individuare le diverse voci del testo e di stabilire i confini del discorso diretto si pone sin dall’esordio. Osserviamo infatti che i primi sette versi sono in terza persona singolare, con la tradizionale formula “swa cwæð” che al v. 6a (Swa cwæð eardstapa, ‘Disse così l’errante’) segna il passaggio alla prima persona singolare: Oft ic sceolde (‘Io ho dovuto spesso’, v. 8a). La maggior parte degli studiosi interpreta i primi sette versi come un prologo (Muir). Altri ritengono che anche i vv. 1-5 facciano parte del monologo dell’errante, mentre i vv. 6-7 sarebbero un inciso della voce narrante (Klink). È ormai abbandonata, invece, l’idea che i versi iniziali non facessero parte del testo originario, ma fossero stati aggiunti per dare una cornice cristiana a un componimento secolare (§ 2.3).
In definitiva, il nucleo del testo è costituito da un monologo. Questo aspetto lo accomuna ad altre elegie, come il Navigante: Mæg ic be me sylfum / soðgied wrecan (‘Posso di me stesso raccontare una storia vera’, v. 1); il Lamento della moglie: Ic þis giedd wrece / bi me ful geomorre, // minre sylfre sið (‘di me tristissima racconto questa storia, il mio viaggio’, v. 1); oppure il Deor: Þæt ic bi me sylfum / secgan wille (‘questo di me stesso voglio dire’, v. 35) (§ 3.2.2, § 3.6.1). Nel suo monologo il protagonista di questa elegia rivela un complesso percorso evolutivo ch...

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