L'inconscio è il mondo là fuori
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Dieci tesi sul capitalocene: pratiche di liberazione

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L'inconscio è il mondo là fuori

Dieci tesi sul capitalocene: pratiche di liberazione

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Viviamo di fatto in un sistema di autodistruzione globale. Il capitalocene, cioè l'era del capitalismo – nata tra il XIII e il XIV secolo e giunta adesso al suo concetto –, preda ogni cosa: la natura, la vita tutta, non solo il lavoro, e svuota l'immaginazione e l'anima, colonizzandole. Questo dominio capillare e virale su ogni aspetto dell'esistente è da noi interiorizzato e di fatto non visto. L'inconscio è il mondo là fuori, come dice Hillman, perché noi oggi siamo abbastanza esperti del nostro intimo, ma siamo diventati cittadini assai passivi e molto poco consapevoli. L'inconscio si è spostato nella polis ed è diventato politico-sociale. Serve una svolta interiore e insieme collettiva, corale. La liberazione è personale, ma insieme comunitaria e coinvolge anche le dimensioni della materia, del cosmo (piante, animali, pianeti, stelle) e del mistero, che alcune tradizioni chiamano Dio, altre con altri nomi (Vuoto, Essere, Non-Essere, Pace, Giustizia, Tao, Brahman, Uomo Cosmico ecc.). Queste dieci tesi sono un piccolo specchio forbito in cui vedersi e un seme che vuole fi orire in ogni luogo disposto, un granello di senape, una goccia di essenza concentrata. Pratichiamo la trasformazione e la liberazione, adesso!

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DIECI TESI SUL CAPITALOCENE, SULLA FINE DI UN’EPOCA E SULLA LIBERAZIONE

Frate, la nostra volontà quieta
virtù di carità, che fa volerne
sol quel ch’avemo, e d’altro
non ci asseta.
(Dante)
La ricostruzione conviviale suppone lo smantellamento dell’attuale monopolio dell’industria, non la soppressione di qualunque produzione industriale.
(Ivan Illich)
I. L’economicismo neoliberista, declinazione esiziale e al suo concetto dell’aggressione capitalista e del capitalocene tutto, è di fatto l’epifenomeno criminale, distruttivo e nichilista di una modernità, la cui cesura i più non vedono ancora chiaramente. La modernità monoculturale1 della quantificazione, del cogito cartesiano assolutizzato, della scienza moderna (che si fa scientismo), di uno stato di coscienza egocentrato, egolatrico ed egoistico, dell’homo conquirens et predator2, della cattiva astrazione, dell’atomizzazione e del monadismo, del dualismo, della ragione strumentale e calcolante, pur tra alcune modalità emancipatorie, è nata profondamente ambigua, manchevole e violenta. La cesura quantificante, riduzionista, che ha anche nel denaro ipostatizzato a vita (il capitale) uno dei suoi simboli, è stata intui-ta, nelle sue fasi germinali, da alcuni grandi spiriti (cfr. Francesco d’Assisi, Dante etc)3. Essi storicamente hanno perso. Ma il loro “futuro del passato” (Bloch, Benjamin) è quanto mai vivo e necessario. La nostra critica della modernità non è reazionaria (tante ne esistono), ma di liberazione. Guarda al passaggio antropologico e spirituale che dobbiamo e possiamo fare, anche a seguito e, paradossalmente, grazie alle varie dissoluzioni/doglie prodotte dalla modernità stessa; aspira e coopera alla seconda possibile e quanto mai necessaria età assiale (Hinkelammert-Duchrow), per essere al passo con l’intelligenza della vita. Pena la catastrofe. O, persino, l’estinzione (umana in primis), che non significa della vita4. Anche se la vita senza l’uomo patirebbe un aborto cosmico, forse incolmabile.
II. “L’inconscio è la polis… è il mondo là fuori”, ci ricorda spesso James Hillman5. In che senso? In questo:
L’impero dell’Economia è differente da tutti gli altri imperi della storia del mondo, dato che non dipende né dalle legioni romane, né dalle navi da guerra inglesi, dalla polizia segreta o dalle riserve di armi nucleari. Il suo potere, come quello delle religioni, è stato interiorizzato. Governa con mezzi psicologici. È l’Economia a determinare chi è incluso e chi è marginalizzato, distribuendo premi e punizioni quali ricchezza e povertà, vantaggi e svantaggi. Proprio perché questa interiorizzazione delle sue idee è così indiscutibilmente e universalmente accettata, è l’Economia il luogo dove oggi risiede l’inconscio e dove il bisogno di analisi psicologica è maggiore. Non è più la nostra vita personale il luogo dell’inconscio – tutte le sedute terapeutiche, i gruppi di recupero e i consultori familiari, tutti i talk-show pomeridiani e le soap-opera hanno spalancato i ripostigli delle passioni e delle sofferenze private. L’inconscio è esattamente quello che la parola dice: ciò che è meno conscio perché è più usuale, più familiare, più quotidiano. È questo il ciclo quotidiano del business. Proprio perché governano il mondo, le idee del business, specialmente l’idea che sostiene il suo potere – l’idea stessa del potere – deve diventare uno dei punti centrali per ogni psicologia che voglia tentare di capire i membri della società attuale. Il business non è semplicemente un fattore, una componente fra le molte che influiscono sulla nostra vita. Le sue idee costituiscono la trama e l’ordito fondamentali e imprescindibili su cui sono tessuti i modelli dei nostri comportamenti. Non si può sfuggire all’Economia. Affrontare separatamente il tema del profitto, il desiderio di possesso, gli ideali dell’equa retribuzione e della giustizia economica, il risentimento nei confronti del fisco, le fantasie di inflazione e di depressione, l’interesse per il risparmio, così come ignorare le psicopatologie del commerciare, del collezionare, del consumare, del vendere e del lavorare, e tuttavia pretendere di comprendere la vita interiore delle persone nella nostra società, sarebbe come analizzare i contadini, gli artigiani, le dame e i nobili del mondo medievale ignorando la teologia cristiana, come se fosse un fatto irrilevante.6
Ma si legga anche il seguente passo, di grande pregnanza:
È questo che rende cosciente l’inconscio, il compito che ci ha affidato Freud? Per fare questo, dovremmo andare là dove l’anima è malata, e dove più oscuro e impenetrabile regna l’inconscio: la polis. Perché l’inconscio non resta immobile. Questo suggerisce la parola. Ma dov’è l’inconscio, oggi? Certamente non nell’infanzia, nella famiglia, nella sessualità, nelle anomalie sintomatiche, nei sentimenti, nei rapporti, nei simboli arcani – tutte cose che troviamo in ogni talk-show, in ogni manuale “fai da te”. Quello che un tempo era l’inconscio, che veniva fuori sotto la forma di un lapsus linguae, adesso è sulla lingua di tutti. Dove invece siamo meno capaci, quello che ci fa più soffrire, e nei cui confronti più ci anestetizziamo, quello che più rimuoviamo – con i tappi per gli orecchi, i catenacci, gli alcolici, l’elettronica, l’hi-fi, il caffè e lo shopping – è il mondo là fuori: la polis.
Rimuoviamo la psiche dalla polis e siamo inconsci nei suoi confronti: è la polis l’inconscio. Siamo diventati pazienti e analisti ipercoscienti, individui molto consapevoli, interiorizzati con molta sottigliezza e cittadini molto inconsci.7
Se questo è vero, abbiamo forse raggiunto una discreta e diffusa conoscenza del nostro inconscio personale, psicologico (anche se soprattutto in senso intimistico). Ma l’inconscio è mutato, è diventato psicosociale, si è spostato fuori: nell’economia, nella mega-macchina, nel compatto e disintegrante sistema di necropoteri e di controlli8, che ci alienano, ci sussumono e ci predano. Ma noi non lo vediamo. Soprattutto non vediamo come questo processo di dominio coli dentro di noi e ovunque, viralmente. Diventando ed essendo, appunto, inconscio e passivamente assunto, proprio perché usuale, “familiare”, naturale, quotidiano, scontato, “mitico” (nel senso di orizzonte di comprensione non-pensato del mondo). Per fare esempi macroscopici ed esteriori: la maggior parte crede ancora che questo sistema possa produrre lavoro (reale, vivo), quando invece cresce solo il capitale (morto e sui morti). Non a caso è il sistema del “capitalismo suicidario” (Beck) o “parassitario” (Bauman), della “crescita senza occupazione”, dell’“impoverimento assoluto”, dell’“apartheid globale” (Amoroso); la disoccupazione non è un problema o una disfunzione del sistema, ma è connaturale e consustanziale ad esso e gli è utile, come già avevano intuito Adorno e Horkheimer. Così la distruzione della natura non è un possibile effetto: il “capitalocene” (J.W. Moore) è nato sulla subordinazione della natura all’accumulo di ricchezza, di potere e alla predazione (cfr. infra, t. IV e t. IX)9; il sistema-mondo (Wallerstein) deve essere smascherato e ripensato nell’ottica di un’ecologia-mondo. Molti ritengono ancora che le nostre, pur logore, siano democrazie, non vedendo che sono almeno anche a-democrazie, pluto-crazie, finanz-crazie e, certo, techno-burocrazie, probabilmente sempre più biosecuritarie. Molti qualificano caricaturalmente come peregrina, pessimistica, apocalittica, da “chi vede solo nero”, la realissima possibilità della sesta estinzione di massa. Bofonchiano e/o pontificano: “Niente di nuovo sotto il sole, le crisi ci sono sempre state, dopo la tempesta il sereno etc. etc.”; oppure: “questo è il prezzo del progresso, comunque inarrestabile”: le magnifiche sorti e progressive. Riformismo esangue o cecità da mito del progresso frusto e spietato. In qualunque caso, si rimuove rimuovendo, fatalizzando, banalizzando, non vedendo, abdicando a se stessi, alla ragione, al cuore, all’anima, allo spirito. Trattasi anche di un’assunzione continua, progressiva e inconscia, in dosi non solo omeopatiche, di un veleno, di un virus, che ci ammala, anche mortalmente (per le “patologie interiori”, cfr. infra, t. VIII). I virus non sono solo biologici. Anzi. Abbiamo introiettato l’universal bogey10 dentro e fuori di noi: risvegliamoci!
III. La testa dell’oppresso diventa spesso l’abitazione dell’oppressore (Gandhi). Parafrasando qualcuno, dovremmo dire: “Non temo il neoliberismo/il neoliberista in sé, ma temo il neoliberismo/il neoliberista che c’è in me”. E che io non vedo.
Spiega in modo perentorio Freire:
Uno degli elementi fondamentali nel processo di mediazione oppressi/oppressori è la prescrizione. Ogni prescrizione è l’imposizione di una scelta, esercitata da una coscienza su un’altra. Perciò il significato della prescrizione è alienante, perché trasforma la coscienza di colui che la riceve in una coscienza-ospite dell’oppressore. Il comportamento degli oppressi è una specie di comportamento “prescritto”. Si struttura su criteri estranei, che sono quelli degli oppressori.
Gli oppressi, che introiettano l’ombra degli oppressori e seguono i loro criteri, hanno paura della libertà, perché essa, comportando l’espulsione di quest’ombra, esigerebbe che il vuoto da lei lasciato fosse riempito con un altro “contenuto”, quello della loro autonomia, o della loro responsabilità, senza la quale non sarebbero liberi. La libertà, che è una conquista e non un’elargizione, esige una ricerca permanente.11
[Gli oppressi] subiscono un dualismo che si installa nell’intimo del loro essere. Scoprono che, non essendo liberi, non arrivano a “essere” autenticamente. Vorrebbero “essere”, ma hanno paura. Sono se stessi e a un tempo sono l’altro, che si è introiettato in loro, come coscienza oppressiva. La trama della loro lotta si delinea tra l’essere se stessi o l’essere duplici. Tra l’espellere o no l’oppressore che sta “dentro” di loro. Tra il superare l’alienazione o rimanere alienati. Tra seguire prescrizioni o fare delle scelte. Tra essere spettatori o attori. Tra agire o avere l’illusione di agire, mentre sono gli oppressori che agiscono. Tra il “parlare” o non avere voce, castrati nel loro potere di creare e ricreare, nel loro potere di trasformare il mondo.12
[Una delle strutture di dominio] è il dualismo esistenziale degli oppressi, che “ospitando” l’oppressore di cui introiettano l’ombra, sono allo stesso tempo se stessi e l’altro. Ne viene quasi sempre che, finché non arrivano a localizzare l’oppressore concretamente, come anche ad avere una “coscienza per sé”, assumono atteggi...

Table of contents

  1. Copertina
  2. Circa L’autore
  3. Frontespizio
  4. Copyright
  5. Indice
  6. Dedica
  7. Prologo
  8. Dieci tesi sul capitalocene, sulla fine di un’epoca e sulla liberazione
  9. Alcune pratiche di liberazione
  10. Appendice I. Le dieci tesi per la liberazione
  11. Appendice II. Ancora sull’io capitalocenico che si insinua…
  12. Bibliografia essenziale
  13. Ringraziamenti
  14. Fondazione Arbor