Il nucleare
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Il nucleare

una questione scientifica e filosofica dal 1945 a oggi

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Il nucleare

una questione scientifica e filosofica dal 1945 a oggi

About this book

"Dopo" i bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki del 1945, in cui l'utilizzo della bomba a fissione nucleare fu intenzionalmente distruttivo, il panorama storico, politico, sociale e culturale è radicalmente, ovvero epocalmente, cambiato. Ma un filo rosso lega il dopoguerra all'oggi: una matrice comune di inquietudine e un simile asse interrogativo sembrano rinascere.Che cosa si deve pensare della catastrofe nucleare "dopo" Hiroshima e Nagasaki? Che cosa resta di quella che dai contemporanei fu definita un'"apocalissi"? Inoltre, che dire dell'uti-lizzo civile del nucleare? Cosa rimane di Chernobyl e del "dopo" Chernobyl, di quell'incidente del 1986 che oramai è quasi solo un ricordo sinistro? Come comprendere il disastro di Fukushima del 2011, ancora più problematico perché sviluppatosi in una centrale nucleare ma generato da due catastrofi naturali, un terremoto e uno tsunami? Tali nomi e luoghi, legati in modo esplicito o implicito al "nucleare", sono da intendersi come dei momenti storici essenziali in cui i confini tra uomo e natura, tra natura e tecnica, tra ricerca e responsabilità, sono messi a nudo e di fronte ai quali gli uomini, e gli intellettuali in primis, sono chiamati a ripensare radicalmente, differentemente, i loro contenuti e confini. Questo è dunque l'obiettivo del libro qui presentato: tentare di dare "intelligibilità" a quella materia incandescente, così come alle incongruenze, alle aporie e perfino ai limiti delle catastrofi stigmatizzate, direttamente o indirettamente, dal "nucleare".

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PARTE II

IL NUCLEARE, UNA QUESTIONE FILOSOFICA

NUCLEAR POWER, A PHILOSOPHICAL ISSUE

II.1

ETICA E RESPONSABILITÀ SULLE TRACCE DI KARL JASPERS

ETHICS AND RESPONSIBILITY IN KARL JASPERS’ FOOTSTEPS

GIUSEPPE CANTILLO

LA NOSTRA EPOCA DEVE IMPARARE CHE NON TUTTO È DA FARE

“La nostra epoca deve imparare che non tutto è da fare”: quest’affermazione di Karl Jaspers all’inizio del suo libro del 1958 Die Atombombe und die Zukunft des Menschen1, originato da una conferenza tenuta alla radio nel 1956, può avere due significati. Il primo, di carattere più generalmente antropologico: non tutto – nella vita dell’uomo – si risolve nel fare; il secondo – ed è quello più rilevante per la specifica tematica del libro: non tutto quello che per l’uomo, e in particolare per l’uomo moderno e contemporaneo, è possibile fare, è da fare, cioè dev’essere fatto. Vale a dire, non tutto quello che dallo sviluppo culturale, scientifico e soprattutto tecnologico, può essere prodotto, si deve fare, se si vuole salvaguardare l’umanità dell’uomo, la sua stessa sopravvivenza, e comunque la sua essenza di soggetto razionale, aperto al mondo e agli altri, rispettoso della libertà e della dignità d’ognuno. È cioè l’ammonimento all’uomo ad autolimitare il potere che gli deriva sulla natura e sul suo stesso essere, ad autolimitare, possiamo dire nei termini attuali, le sue capacità di potenziamento, che derivano dagli sviluppi delle sue conoscenze e dalla loro applicazione tecnologica. Un ammonimento anticipato rispetto alle imprevedibili svolte dall’umano al post-umano.
Tornando al tema di Die Atombombe, Jaspers muove dalla considerazione della svolta “assiale” costituita dalla creazione e dall’impiego della bomba atomica rispetto alle altre armi: “la bomba atomica (all’idrogeno o al cobalto) – scrive Jaspers – è un evento fondamentalmente nuovo. Essa porta infatti l’umanità dinanzi alla possibilità del totale annientamento per suo stesso mezzo”2. Non più la fine del mondo o la distruzione della specie per catastrofi naturali, ma l’annientamento storico dell’umanità per una decisione umana. Hiroshima e Nagasaki ne hanno dato la prova. Scrive Otto Hahn citato da Jaspers: “per adesso questi [pericoli estremi] sono ancora spettri, ma resta il fatto che oggi o nell’immediato futuro l’umanità è realmente nella situazione di estinguersi da se stessa”3. Quel che è importante – è questo l’intento di Jaspers – è diffondere la consapevolezza della nuova forma che la situazione-limite della morte assume con la minaccia atomica e mantenerla costantemente desta. Una minaccia di distruzione dell’esistenza, a cui si intreccia l’altra minaccia egualmente mortale del totalitarismo che uccide l’esistenza degna di essere vissuta: cioè l’essenza dell’esistenza umana che è la libertà.
Ora, proprio la libertà come carattere fondamentale dell’esistenza è messa in questione da una serie di aspetti dello sviluppo tecnologico applicato alla natura umana. Sembra paradossale, perché lo sviluppo tecnologico, come lo stesso potenziamento delle facoltà umane, sembra essere un fattore di liberazione dai vincoli e dai limiti della natura, sforzandone le energie nella produzione tecnologica. Senonché l’inevitabile meccanizzazione e biologizzazione prodotte dalle tecnologie applicate specialmente al sistema neurologico finiscono per condizionare in maniera decisiva l’intero ambito della coscienza, svuotandone il senso di capacità di orientare le proprie scelte, i propri comportamenti, cioè di ridurre, fino ad annullare, la libertà. C’è di più: con la robotica si attua una esternalizzazione delle funzioni essenziali della coscienza, una completa alienazione della soggettività. È questo il prezzo del sogno tecnologico di liberarsi del limite, di liberarsi della morte, di farsi immortali. Non più uomini, ma androidi, per riprendere il tema dei romanzi di Philip Dick. Si crea l’androide, l’alter ego potenziato nelle funzioni, anche intellettuali, anche produttive, ma, a quanto pare, privo di empatia, privo di senso della comunità. Scrive Eugenio Mazzarella:
Gli androidi non sono in grado di superare il test sull’empatia, che verifica la loro appartenenza alla comunità umana: per questo devono essere “ritirati”, soppressi, quando da strumenti di lavoro, da protesi esistenziali, pretendono di emergere a soggettività, senza però essere in grado di recare in sé il DNA comunitario e patico dell’essere umano.4
È il naufragio dell’“uomo che per la sua intelligenza come calcolo si è dimenticato della vita”5. Gli androidi alla fine sognano di essere umani, così come l’uomo tecnologico ha sognato di farsi androide e con ciò di diventare immortale. L’ibridazione tecnologica dell’umanità, mentre promette grandi evoluzioni fino alla immortalità, corre il rischio di produrre la fine dell’umano. E allora l’ammonimento di Jaspers è sempre più attuale: non tutto quello che possiamo fare, dev’essere fatto, se vogliamo conservare un margine di “umanità”. Molto prima, nell’età sorgiva dell’Umanesimo, Pico della Mirandola nel De hominis dignitate aveva posto il tema drammatico della libertà e della responsabilità dell’uomo in ordine al proprio destino:
Non ti ho dato o Adamo – dice Dio – né un posto determinato, né un aspetto proprio, né alcuna prerogativa tua, perché quel posto, quell’aspetto, quelle prerogative che tu desidererai, tutto secondo il tuo voto, il tuo consiglio ottenga e conservi […]. Non ti ho fatto né celeste, né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti; tu potrai, secondo il tuo volere, rigenerarti nelle cose superiori che sono divine.6
Sta all’uomo, oggi, ancora una volta, assumersi la responsabilità di governare le sue stesse capacità, le sue stesse invenzioni, i suoi poteri, perché non si rivolgano contro se stesso, perché la fredda razionalità strumentale e il calcolo singolaristico non distruggano il territorio della solidarietà umana, della salvezza che può venirci solo dall’amore. D’altra parte è questa anche la proposta finale di Blade Runner (nella versione originale del 1982), dove Deckard, innamorato della bellissima replicante Rachel, fugge con lei in aereo lasciando presumere che l’uomo, Deckard, riuscirà a trasformare l’androide Rachel in una donna, o più precisamente che l’amore conserverà l’umanità7.
Ma è possibile parlare di umanità senza un concetto di natura umana? Ora è certamente un’idea propria della modernità che non vi sia una natura umana rigidamente e stabilmente definita. Va ribadito però che nell’orizzonte dell’essere assoluto della coscienza definito da Husserl nei §§42-44 delle Ideen I8, che è l’orizzonte originario della vita umana, si presentano strutture, funzioni, tendenze costanti con pretesa di universale validità. Mi riferisco all’aspirazione all’universalità nelle varie regioni dell’esperienza, della conoscenza, dell’agire, della fede, dell’esteticità. Ora finché si dà l’“essere assoluto della coscienza” c’è una natura umana sia pure relativamente identica a sé, o se si vuole una vita umana, che è più che bios, più che vita, “intenzionalità”, correlazione originaria io-mondo. Rispetto a questo orizzonte immanente della coscienza – almeno fino a una soglia che non alteri radicalmente i processi mentali profondi, privando l’uomo della capacità di essere se stesso: soggetto autocosciente in grado di parlare, pensare, assumere decisioni – non rilevano in modo determinante le mutazioni che riguardano l’insieme delle condizioni fisiologiche e biologiche, delle capacità corporee. Finché si può dire sì o no, finché resta un margine di coscienza e libertà, di distanza dal dato corporeo immediato, anche le più spinte fantasie del post-umano possono essere sopportate e ricondotte nei termini dell’umano, nel senso che possono essere respinte quelle tecniche che possono provocare la distruzione dell’uomo, l’annientamento della sua dignità di soggetto. Quel che conta è la consapevolezza di “ciò che l’uomo può e deve fare di se stesso”9, la disponibilità a progettare se stesso. È questa, l’intenzionalità costitutiva o anche la progettualità, l’invariante, non biologico, che caratterizza la natura umana e ne giustifica il concetto anche all’interno di una prospettiva storicistica. Il che, come ha osservato Paolo Virno ad altro proposito, cioè riguardo alla concezione di Foucault della natura umana come “indicatore epistemologico”10, non vuol dire certo che non si debba pensare a “una base biologica” concomitante con questo invariante. Ma concomitanza non è determinazione, condizionamento; non c’è rischio di riduzionismo, e in questo senso si può affermare che c’è un ampio margine di modificabilità della vita organica che non altera quell’invariante. Il momento in cui accadesse un’alterazione assoluta saremmo veramente giunti alla “morte dell’uomo”. Questo avverrebbe, se si avverasse la prospettiva post-umanista più estrema che è giunta non solo a considerare la tecnologia un’irrinunciabile occasione per potenziare l’umano in direzione di un dominio dell’uomo, come corpo, sull’ambiente (pensiamo ad esempio alla corrente iper-umanista) ma addirittura a progettare un “abbandono” del corpo. Lasciando sullo sfondo questa ipotesi estrema [emblematica è quella avanzata da H. Moravec del Mind-uploading, cioè di un trasferimento della funzione cerebrale su un supporto macchinico per svilupparne le enormi potenzialità senza i vincoli strutturali del cervello11], va tenuto in conto il paradigma di fondo che caratterizza il pensiero post-umanista: quello per cui l’uomo, presentando tantissimi prerequisiti funzionali, può evolvere in più direzioni (ne è un esempio la plasticità del cervello) ed è quindi aperto a molteplici possibilità evolutive che sono ulteriormente amplificate da quelle offerte dalla tecnica. Questo però non credo che possa portare a trascendere davvero la dimensione dell’“umano”, dal momento che è sempre l’uomo l...

Table of contents

  1. Copertina
  2. Circa l’autore
  3. Frontespizio
  4. Copyright
  5. Indice
  6. Introduzione
  7. Parte I: Il nucleare, una questione scientifica nuclear power, a scientific issue
  8. Parte II: Il nucleare, una questione filosofica nuclear power, a philosophical issue
  9. Parte III: Il nucleare, una questione ancora attuale nuclear power, a still relevant issue
  10. Autori - Contributors
  11. Jaspersiana