TERZA PARTE IDEE PER UNA TEORIA ORTOGONALE DELL’EDUCAZIONE E SPUNTI PER UNA NUDO-DIDATTICA-PUDICA
Lo stile implicito
Quel che diciamo agli altri è molto più di quel che pensiamo di dire. Molto più di quello che avevamo intenzione di dire. Molto spesso, diciamo persino qualcosa che non volevamo dire.
Quello che effettivamente comunichiamo non corrisponde a ciò che avevamo programmato di comunicare e nemmeno a ciò che pensiamo di aver comunicato. Qualcosa sfugge sempre. Qualcosa sfugge strutturalmente. Un non detto, che parla più chiaramente delle nostre parole, ci accompagna costantemente.
Durante la nostra esperienza quotidiana progettiamo le nostre esperienze a un certo livello di dettaglio. Diciamo per esempio che andremo a trovare un nostro amico e, in tal senso, vincoliamo la nostra giornata sapendo che in quel lasso di tempo non potremo andare, per esempio, al cinema. Ma non diciamo in anticipo che parole useremo per salutarlo, che mano alzeremo per suonare il citofono, che intonazione daremo alla nostra voce, quando sorrideremo, che traiettorie seguiremo per spostarci verso casa sua ecc.
Solitamente, in una programmazione di vita normale, lasciamo tanti aspetti non progettati da definire al momento, sul posto.1 Ci limitiamo a un progetto di massima e ci concediamo di improvvisare alcune cose.
In realtà, non sarebbe nemmeno in nostro potere programmare tutto in modo da determinare univocamente il nostro comportamento, poiché non siamo macchine perfette a controllo numerico.2 Non possiamo programmare ogni movimento del nostro corpo in ogni istante. Per quanto ci sforzassimo di progettare nel dettaglio un’azione non potremmo definire univocamente la cinematica del nostro agire.
Qualcosa rimarrebbe sempre non progettato. Quando diciamo che intendiamo bere del latte, non progettiamo come metteremo i piedi per camminare, come appoggeremo la mano per aprire il frigorifero, con che inclinazione verseremo il latte, che posizione assumerà la nostra mano sinistra mentre versiamo con la destra ecc. “Bere il latte” per noi si può fare in tantissimi modi diversi e vanno tutti bene, purché alla fine, ai nostri occhi, avremo “bevuto del latte”.
Ciò che non viene definito precedentemente, viene definito sul posto. Quando sarò di fronte al frigorifero produrrò l’intenzione di alzare il mio braccio e di afferrare la maniglia. Ma non sarà un’intenzione-progetto, cioè un’intenzione prodotta a tavolino, ma semplicemente un’intenzione-sul-posto, prodotta istantaneamente3. Non avrà quindi le caratteristiche dei progetti ponderati razionalmente secondo principi razionali.
Di fronte al frigorifero potrei fermarmi e chiedermi nella mente: “Cosa è meglio che faccia ora? E come devo farlo?”, questo comporterebbe un tempo di riflessione per prendere una decisione e poi agire. In questo caso formulerei un nuovo programma rendendo l’azione “aprire il frigorifero” programmata, ma questo generalmente non accade: il movimento per aprire il frigorifero ha solo un’intenzionalità sul posto. È deciso al momento, in assenza di un progetto.
Non si può dire che sia un’azione non intenzionale, nel senso di un agire involontario, però si tratta di un’intenzione che sorge contemporaneamente all’azione, senza un programma che la precede, un’azione non programmata in anticipo.
Ci sono milioni di modi di aprire quel frigorifero, che si accordano tutti con il nostro programma intenzionale. Allo stesso modo, quando dico che ho intenzione di salutare qualcuno, ci sono mille modi di farlo. Ci sono mille modi di accarezzare qualcuno, di tenersi la mano, di comunicare un’informazione, di rimproverare, ma alla fine ognuno di noi ne esegue uno soltanto.
Chi decide come aprire il frigorifero? Chi decide quale fra le milioni di possibilità? Chi decide che tono usare? Con che ritmo scandire le parole? Che postura assumere? Come gesticolare?
Chiamiamo questa regola di selezione del comportamento sul posto (non programmato) stile implicito4 del soggetto. È il nostro stile personale implicito, che ci caratterizza persino a livello motorio, che ci fa aprire il frigorifero in un certo modo. Certo, non lo si può aprire con il naso, ma pur ammettendo di doverlo fare con la mano giusta (quella che corrisponde meglio alla posizione della maniglia) e con un movimento che si accorda con lo spazio circostante, rimarrà sempre da definire qualcosa di quel movimento, rimarranno sempre diverse possibilità tra le quali “scegliamo” (inconsapevolmente) attraverso il nostro stile implicito.
In tal senso, qualsiasi nostro comportamento è selezionato dal nostro stile. Quest’ultimo infatti può essere definito come la regola di selezione sul posto del comportamento messo in atto (inteso come cinematica effettivamente eseguita) tra tutti quelli ammessi dalle nostre intenzioni-progetto. Una volta stabilito che abbiamo intenzione di “bere del latte” in quel preciso lasso di tempo (e data una certa configurazione dello spazio, che può vincolare e orientare i nostri movimenti) rimangono infiniti modi di farlo e ne eseguiremo uno soltanto in base al nostro stile. Poiché nessuna intenzione può determinare univocamente un comportamento (cioè una precisa cinematica), ogni nostro movimento è frutto di una selezione da parte del nostro stile.
In estrema sintesi, tra tutti i comportamenti possibili attuiamo una prima selezione esplicita attraverso le nostre intenzioni-progetto e nell’insieme risultante da questa prima selezione individuiamo implicitamente l’unico che eseguiremo, attraverso una regola che chiamiamo stile implicito.
Di questa regola siamo ignari. Essa agisce in noi senza che ce ne accorgiamo. Tuttavia, proprio grazie a essa siamo immediatamente riconoscibili. I nostri programmi intenzionali studiati razionalmente possono essere i programmi di chiunque, ma il nostro modo di camminare, il tono della nostra voce, il ritmo delle parole e il loro ordine all’interno delle frasi ci descrivono nella nostra singolarità.
Presentarsi di fronte agli altri significa, dunque, sempre, mostrare il proprio stile e raccontare attraverso di esso ciò che non avevamo progettato di dire. Essere osservati significa esporsi a questa comunicazione segreta: una fuga di informazioni che avviene a nostra insaputa. Tra le righe dei nostri discorsi, nevroticamente razionali, il nostro stile parla. E parla una lingua più diretta del nostro sofisticato linguaggio progettato. Una lingua capace di trasmettere un mondo attraverso le sfumature del nostro agire. Certo! Il nostro stile racconta il nostro mondo5 meglio di quanto potremmo fare noi intenzionalmente.
Il nostro stile motorio, il nostro modo di scegliere e ordinare i termini delle frasi, la nostra gestualità, la nostra voce, il ritmo dei nostri movimenti, le loro qualità dinamiche costituiscono una finestra sul nostro mondo, una cassa di risonanza che amplifica quelle silenziose voci che popolano tutta la nostra vita, pubblica, privata, conscia e inconscia.
Così, in quelle aule non entrano banalmente dei professionisti, entrano mondi. Sulle schiene ricurve, chi varca quell’uscio porta con sé uno zaino stracolmo, non di verifiche, libri e appunti, ma di tutte le sue esperienze, da quelle di cui va fiero a quelle di cui si vergogna, dalla sua infanzia alla sera precedente.
Inutile ogni tentativo di raccontarsi come non si è, inutile ogni maschera, ogni recitazione, inutile progettarsi: il nostro stile implicito smaschererà ogni finzione raccontando l’irraccontabile, svelando i nostri segreti. Racconterà della nostra infanzia, dei nostri amori, dei nostri successi e dei nostri fallimenti, dei nostri mal di testa, delle nostre gioie…
Una battuta fatta proprio in quel momento, un’arrabbiatura scomposta, un sorriso che luccica, il tono di voce tremolante di quel giorno in cui attendevamo quella risposta tanto importante, quella postura un po’ goffa e quel modo di camminare tra i banchi…
Quanti modi ci sono di impugnare quella penna e scrivere alla lavagna? Quanti modi di salutare la classe? Quante intonazioni ci sono per quel rimprovero? Quante combinazioni di parole per esprimere quel concetto? Tra tutte le possibilità noi mettiamo in scena inconsapevolmente quella che si accorda con il nostro stile. Quella che ci caratterizza. L’espressione della nostra singolarità. E lo facciamo in modo implicito.
Il nostro stile emerge senza che ce ne accorgiamo. Svolge un lavoro sotterraneo regolando i nostri comportamenti senza chiedere il permesso ai piani alti della nostra razionalità.
Certo, è possibile agire in modo estremamente programmato, cercando di minimizzare la fuga di informazioni e studiando tutto in ogni dettaglio, ma questo reggerà solo per tempi brevi, come quelli di un colloquio di lavoro o di un primo incontro amoroso. Nel tempo, la capacità di mantenere una certa posa verrà meno e il nostro stile emergerà svelando i segreti del nostro mondo. In tal senso, non esistono comportamenti intenzionali e comportamenti non intenzionali ma ogni comportamento ha aspetti intenzionali e aspetti non intenzionali. O meglio: ogni comportamento è vincolato intenzionalmente a un certo livello di dettaglio.
Quando un docente entra in aula, dunque, avrà programmato l’ora di lezione a un certo livello di dettaglio. Più alto è questo livello, più avrà un copione rigido, riducendo lo spazio d’improvvisazione. Al contrario, meno dettagliato sarà il programma, più autonomia sarà affidata al suo stile implicito. Qualunque sia il livello di dettaglio, vi sarà sempre un margine non programmato in cui potrà emergere il suo stile singolare, il suo mondo.
Contagio e testimonianza
È proprio tale stile singolare implicito a costituire il luogo di incontro con gli altri: attraverso esso il nostro mondo entra in contatto con i mondi di chi ci incontra in modo più o meno armonico.
Tipico dei grandi educatori è sapersi sintonizzare a tale livello implicito della relazione con chi si ha di fronte, costruendo in modo non progettato una relazione intersoggettiva che dona in primo luogo all’altro la sensazione di essere-con l’educatore in una condivisione del proprio vissuto.
Il tono della voce, il modo di gesticolare, il modo di muoversi nello spazio ecc, oltre a descrivere la nostra singolarità ci rendono più o meno capaci di relazionarci agli altri, più o meno efficaci nella comunicazione.
Si tratta di caratteristiche dell’individuo che hanno probabilmente base genetica o perlomeno una formazione che risale ai primi anni di vita. È molto facile infatti riscontrare delle somiglianze di stili tra genitori e figli o tra fratelli. Tuttavia, il nostro stile implicito varia anche a seconda della qualità della nostra vita. Il nostro mondo presente, l’insieme delle nostre esperienze, riverbera in esso conferendogli luminosità o opacità. È molto facile verificare questo nella nostra esperienza: in periodi di serenità caratterizzati da un senso di realizzazione di noi stessi siamo molto più contagiosi a livello relazionale, tra le righe del nostro agire trasmettiamo un entusiasmo coinvolgente. Pur facendo le stesse cose che abbiamo sempre fatto e dicendo le cose che abbiamo sempre detto, diveniamo capaci di una sintonizzazione con gli altri molto più efficace.
Ripensando alle persone che ci hanno cambiato la vita, relazionandosi a noi da veri educatori, possiamo rintracciare stili relazionali impliciti capaci di dare senso a parole che probabilmente avevamo sentito ripetere mille volte da chiunque senza che producessero il minimo effetto su di noi.
La relazione educativa è fondata su una comunicazione che ha luogo tra le righe dei discorsi, nel non detto, nel colore delle azioni e nella loro luminosità. Tale sostrato relazionale implicito mette in contatto gli altri con il nostro mondo, raccontando ciò che siamo. La bellezza di questo racconto dipende dalla bellezza del nostro mondo e dal senso di cui esso è intriso.
Per educare bisogna essere felici.
Ecco dunque la risposta che dobbiamo ai nostri ragazzi: il senso positivo della nostra vita, la bellezza del nostro mondo che riverbera nella nostra voce e nei nostri sorrisi.
Le quattro funzioni dello stile relazionale implicito nel rapporto educativo
Nel rapporto educativo, dalla prospettiva dell’educatore, è facile notare come ci siano periodi della vita in cui si è più efficaci nella relazione e periodi in cui lo si è meno. La qualità della nostra vita traspare. Riverbera nelle sfumature del nostro agire. Ci rende più o meno capaci di essere-con-l’altro.6
Vi sono certamente soggetti più efficaci e soggetti meno efficaci nella comunicazione per doti innate o acquisite nel primo periodo di vita ma, nonostante questa predisposizione, ogni stile può divenire più o meno contagioso, più o meno capace di sintonizzarsi con l’altro trasmettendogli la sensazione di essere insieme, di essere sulla stessa lunghezza d’onda. Ma non al livello dei pensieri razionali espliciti, non nel senso di un essere d’accordo sulle scelte e sulle valutazioni, non nel senso di un essere capito, ma nel senso di una condivisione implicita dei vissuti che si realizza tramite un “linguaggio” fatto di silenzi, toni di voce, movimenti del corpo, posture, ritmi e intensità del nostro agire. Tale forma di comunicazione implicita non si esaurisce nel linguaggio del corpo, essa coinvolge tutte le nostre azioni non progettate in anticipo, coinvolge tutto ciò che noi, per così dire, improvvisiamo sul posto, senza metterlo a tema. In tal senso, ne fanno parte anche la scelta dei termini delle frasi, il loro ordine e persino l’ordine e la scelta delle proposizioni di un ragionamento, se non sono state progettate in anticipo e ripetute secondo un copione. È proprio l’assenza di copione a rendere tale livello della comunicazione impregnato del nostro stile relazionale implicito. Se, per esempio, progettiamo di comunicare alla classe che vi sarà la verifica il tal giorno, quando saremo di fronte ai ragazzi non avremo già pensato a quale parole usare, dove ci metteremo per parlare, che tono useremo, in che ordine esporremo le proposizioni, tutto ciò sarà, per così dire, improvvisato secondo il nostro stile implicito.
Essere-...