Nell’espressione psichiatrica corrente il termine borderline viene utilizzato per indicare due possibili situazioni cliniche. Si può chiamare borderline un paziente con sintomatologia grave che ha una organizzazione psichica che si colloca tra nevrosi e psicosi, quindi si colloca nel centro del continuum nevrosi-psicosi dello schema disegnato a pagina 18. Quindi è una diagnosi strutturale di un paziente che presenta sia aree psicotiche che aree nevrotiche, sia aree edipiche che aree pre-edipiche, sia conflitti che deficit.
Di questa preliminare diagnosi di struttura occorre tener conto per scegliere il tipo di terapia da adottare. Ben sapendo che le aree edipiche, nevrotiche, conflittuali rispondono in genere bene alla psicoterapia psicoanalitica, mentre le aree psicotiche, pre-edipiche necessitano di un setting modificato e spesso di un intervento integrato.
Il termine borderline però indica soprattutto un disturbo di personalità ben preciso, con caratteristiche specifiche, descritto e studiato da molti autori, in particolare da Otto Kernberg.
Nel lontano 1959 Melitta Schmideberg ha scritto sul Manuale di Psichiatria di Silvano Arieti il capitolo Casi limite dove viene fatta per la prima volta una descrizione esaustiva di questo disturbo. È in questo lavoro che il paziente borderline viene per la prima volta definito stabile nella sua instabilità, definizione che poi sarà concordemente accolta nel descrivere questa patologia.
Forse non tutti sanno che Melitta Schmideberg era la figlia primogenita di Melania Klein. Schmideberg è il cognome del marito. Psichiatra e psicoanalista, manifestò costante opposizione teorica nei confronti della madre, schierandosi con Anna Freud contro la corrente kleiniana; nell’ambito di queste controversie chiese polemicamente alla madre:“Dov’è il padre nella tua opera?”. Pare che la Klein non abbia mai risposto alle contestazioni della figlia.
Questa presa di posizione indica la forte indipendenza di pensiero di Melitta ed anche la sua particolare posizione sulla terapia dei ‘casi limite’, molto diversa da quella di tanti altri psicoanalisti che in seguito si sarebbero occupati di borderline, come appunto Kernberg, Kohut e molti altri. Quando nel 1960 rientrò in Europa dagli USA, dove si era da tempo trasferita, Melitta diede le dimissioni dalla associazione psicoanalitica inglese.
Le due parole chiave del paziente borderline sono impulsività e instabilità.
Il borderline resta sostanzialmente lo stesso per tutta la vita, senza guarire ma nemmeno senza diventare psicotico, salvo crisi transitorie dovute a stress, a farmaci, alcool o droghe.
Il borderline presenta tutti i sintomi della nevrosi (la patologia è stata chiamata a volte anche nevrosi polisintomatica) come ansia, depressione, fobie, ma soprattutto disturbi del comportamento e caratteristiche personologiche caratterizzate da agiti aggressivi con una continua oscillazione tra stati mentali ed emotivi opposti (scissione).
I pazienti lamentano mancanza di sensazioni normali, percezione dolorosa e alterata del corpo, sensazione di vuoto interno e incapacità di adattarsi all’ambiente e di relazionarsi con gli altri.
Hanno una personalità non integrata e caratterizzata da discontrollo degli impulsi. Nelle relazioni interpersonali mancano di capacità di identificazione e di empatia.
Questo doloroso sentimento di vuoto viene combattuto con l’abuso di tabacco, cibo, droghe o alcool, con una sessualità compulsiva o con comportamenti rischiosi o antisociali.
Un altro aspetto che li differenzia dai soggetti nevrotici è che non si limitano a soffrire loro, ma con il loro comportamento fanno soffrire gli altri, quelli con cui hanno a che fare, la famiglia, l’ambiente di lavoro.
Sono portati all’isolamento, a provare ostilità profonda e a scoppi di collera a seguito di frustrazioni anche banali. Possono essere molto intelligenti e particolarmente portati in alcune conoscenze o abilità. Ma la loro scarsa capacità di adattamento nei confronti delle regole e delle necessità degli altri li porta spesso a non poter realizzare positivamente queste capacità. Alcuni non riescono a trovare lavoro e stanno a letto tutto il giorno, vittime del senso di vuoto e della depressione. Altri, se trovano lavoro, tendono a perderlo o continuano a cambiarlo. Sono profondamente infelici, non riuscendo a godere di nulla.
Alcuni utilizzano l’odio in modo sistematico come difesa dal crollo psichico: ipercriticismo e aggressività verso tutti consentono di mantenere una distanza di sicurezza dalla relazione umana, vissuta come mortifera.
Alle crisi di rabbia e di ostilità non segue poi la capacità di pacificarsi, di dimenticare, di perdonare. Alcuni sono soggetti a rischio suicidario. Altri, non tollerando le regole e le leggi, diventano antisociali e commettono reati.
Tutta questa sintomatologia si può declinare in vari gradi di maggiore o minore gravità. Nel migliore dei casi le relazioni si declinano nell’ambito di un’ambivalenza scissa.
Dal punto di vista terapeutico Melitta Schmideberg ritiene che il setting psicoanalitico tradizionale non sia adatto per questi pazienti, per il rischio che la neutralità-astinenza-passività dell’analista induca in loro un transfert psicotico, quindi maggior sofferenza o gravi agiti comportamentali. L’analisi ortodossa è pertanto a suo parere controindicata o inefficace.
Lo psicoterapeuta deve essere viceversa molto attivo e diretto verso l’Io e la realtà.
Dunque l’autrice propone un modello di intervento più supportivo che interpretativo. Il terapeuta deve rafforzare le difese meno negative in modo clinicamente finalistico. Occorre operare a favore di un rafforzamento dell’Io, di un miglioramento delle relazioni con gli altri, del giudizio di realtà e della consapevolezza delle conseguenze delle loro azioni. Bisogna lavorare per socializzarli e aiutarli a sviluppare l’autocontrollo. Il terapeuta non deve essere astinente, non deve aver paura di essere se stesso, spontaneo, di esprimere opinioni e di mostrare iniziativa. Il terapeuta deve essere attivo, parlare, fare domande perché il borderline non tollera il silenzio. Importanti sono anche i contatti con i familiari e l’intervento su di loro. La terapia con psicofarmaci è poco efficace, come io stesso ho potuto verificare su tanti pazienti di questo tipo che ho avuto in cura.
Altri analisti non sono dello stesso avviso e credono che, sia pur apportando modificazioni al setting, si possa fare anche con questi pazienti una terapia analitica utilizzando il transfert.
Tra questi Kernberg, che ha fatto un’importante descrizione delle difese primitive utilizzate da questi soggetti, e li ha divisi in tre gradi di gravità: borderline di basso livello (i più gravi, confinanti con la psicosi), di medio livello e di alto livello (i meno gravi, confinanti con la nevrosi).
Uno dei problemi che si incontrano nel curare questi soggetti è costituito dalla difficoltà di tollerare il proprio controtransfert, perché è difficile non provare sentimenti negativi verso questo tipo di pazienti.
Un educatore professionale molto esperto e preparato che ho invitato a parlare ai miei incontri di Psiche e Ricerca, si è così espresso circa la possibilità di diagnosticare un paziente borderline: “Quando si fa un primo colloquio a un paziente, se alla fine del colloquio ti viene voglia di dargli un calcio nel… sedere… quello è un borderline”.
Una diagnosi, diciamo, di tipo… controtransferale.
Questa battuta indica la grossa difficoltà emotiva del terapeuta nel curare i borderline.
Sono pazienti, dice Correale, cui è mancata la “tenerezza” nel rapporto primario e che pertanto non sono in grado di provare questo sentimento nelle loro relazioni attuali, anche se, a maggior ragione, ne hanno molto bisogno (Correale e Vigorelli, 2007).
La possibilità di identificarsi con questi difficili pazienti, diciamo l’empatia terapeutica, dipende anche molto, credo, dalle caratteristiche personologiche del terapeuta.
Ora presenterò due casi clinici da me trattati: un trattamento con incontri di tipo supportivo e con psicofarmaci, non dissimile da quello indicato da Melitta Schmideberg, e un trattamento di psicoterapia psicoanalitica propriamente detto, alla fine del quale preciserò meglio quali sono le posizioni teoriche e le strategie terapeutiche proposte dai vari autori. In entrambi i casi clinici il mio controtransfert è stato direi sufficientemente buono, tollerante, tranne che in transitori momenti di esasperazione per la notoria ripetitività senza tregua del comportamento patologico del paziente borderline: stabile nella sua instabilità.
Rosa è una graziosa ragazza di ventidue anni quando giunge da me, due anni fa, accompagnata dalla madre. Verso la fine del liceo classico aveva avuto una crisi di tipo bulimico, per la quale era stata ricoverata qualche mese in un reparto per Disturbi alimentari ad indirizzo cognitivo-comportamentale.
Dimessa con diagnosi di ‘disturbo alimentare grave in disturbo di personalità borderline’, è stata affidata per il prosieguo delle cure al Centro Psicosociale, dove l’hanno messa in terapia con Litio e una fiala al mese di neurolettico depot.
Rosa ha poi avuto un cambiamento sintomatologico, passando dalla bulimia all’anoressia (di solito succede il contrario) e calando notevolmente di peso. Rosa inoltre presenta attacchi acuti di ansietà panica che la inducono a correre al Pronto Soccorso, accompagnata da familiari o anche da sola; qui le praticano una flebo o un’iniezione di benzodiazepina, così la crisi d’ansia viene superata.
Rosa è figlia unica di due genitori che si sono separati quando lei aveva dieci mesi. Poi è stata un pò con l’una e un pò con l’altro, ma soprattutto affidata alle cure dei nonni materni.
Quando inizio a vederla in studio, Rosa vive in casa con la madre con cui è in perenne conflitto. La madre dice che Rosa non fa niente in casa e lascia tutte le sue cose in disordine; e, esasperata, chiede che venga messa in Comunità. Rosa si appoggia molto su Roby, un signore anziano che fa volontariato in paese e che ha una grande pazienza con lei: è lui che accorre a ogni sua chiamata e la accompagna in Pronto Soccorso.
Io provvedo a cambiarle gli psicofarmaci: le do un discreto dosaggio di amisulpride e un dosaggio medio-alto di benzodiazepine, terapia con cui cessano quasi completamente gli attacchi di panico e le corse in P.S.
Rosa, al di là di queste disregolazioni emotive e comportamentali, fa anche delle cose buone: dà lezioni di italiano e latino ai ragazzi delle medie, aiuta nell’oratorio del piccolo paese, partecipa all’attività amministrativa del paese dove è stata eletta consigliere comunale. Ma queste buone iniziative durano poco.
Ha un ragazzo, Gigi, con cui sembra star bene. Anche Gigi ha una pazienza infinita con lei.
Rosa è da tempo in psicoterapia con la dott.ssa X a una seduta alla settimana.
A un certo punto, a causa dei continui litigi con la madre, si trasferisce a casa del padre. Costui viene descritto come soggetto poco affidabile, gioca alle macchinette, dove Rosa deve spesso andare a prelevarlo, e non ha un lavoro suo; dipende economicamente dal proprio padre, nonno di Rosa, che è un imprendiotore della zona.
Rosa alterna giorni di discreto benessere ad altri in cui è depressa, mutacica, sta tutto il tempo a letto o si trascina per la casa: è il prototipo della discontinuità.
A un certo punto fa domanda di servizio civile presso un Comune limitrofo. Viene presa e viene impiegata come aiuto educatrice al nido, cioè deve occuparsi di neonati. Io e la dott.ssa X temiamo che sia un compito al di sopra delle sue possibilità. In realtà ‘tiene’ bene per tre mesi, illudendo anche noi, poi riprende a star male ed è costretta ad abbandonare l’incarico.
La dott.ssa X è esasperata (a proposito di controtransfert difficile) e mi confida che non se la sente più di seguirla.
Riesco allora a convincere Rosa ad andare da un’altra psicoterapeuta ad indirizzo psicoanalitico.
Ma l’impatto con la nuova terapeuta è pessimo e dopo poche sedute Rosa interrompe il rapporto.
E incomincia a fare le bizze anche con me: riprende a fare corse al P.S. e mi chiede di essere ricoverata urgentemente. Le propongo un ricovero alla Clinica A, ma lei vuole andare alla Clinica B, che non conosco. Al braccio di ferro che ne consegue, Rosa abbandona anche me.
Intanto, nel frattempo, Rosa viene assunta da un fruttivendolo ambulante, un ragazzo giovane e aitante di cui subito si invaghisce e con cui ha una breve storia, facendo di conseguenza infuriare Gigi.
Ma Gigi ha una pazienza infinita, la perdona e la ospita ancora in casa sua.
Io non vedo più la ragazza per un paio di mesi. Intanto Rosa è tornata a farsi seguire dal CPS.
A un certo punto mi chiama la madre, disperata, e mi chiede di riprenderla in cura; Rosa, nella sua perenne discontinuità, accetta.
Intanto la ragazza è stata indirizzata ad una équipe ad orientamento comportamentistico di una città vicina che le propone di fare una terapia di gruppo, cosa che io approvo; nel contempo il suo ragazzo l’ha indirizzata ad un’altra nuova psicoterapeuta, ad indirizzo sistemico. Io nel frattempo ho ripreso a vederla regolarmente, talvolta insieme al ragazzo. Prendo contatti con l’équipe dove farà il gruppo. E così si va avanti: terapeuti nuovi e….si spera…vita nuova.
Si ritorna da capo, sperando che questo nuovo intervento integrato sia più efficace dei precedenti.
Rosa si è appena fatta fare un tatuaggio sul braccio raffigurante un bambino piccolo che cammina tenuto per mano da un uomo adulto. Dice che l’uomo adulto è suo nonno materno cui lei era molto affezionata.
Questo tatuaggio mi fa toccare con mano improvvisamente quanto Rosa sia ancora piccola e fragile, una bambina appunto, molto più di quanto appaia superficialmente all’osservatore, e chissà quanto tempo e quante ulteriori fatiche serviranno per farla crescere…
Rosa è un caso di personalità borderline caratterizzata da scissioni, discontinuità, idealizzazioni, agiti contraddittori; e mette a dura prova il controtransfert di tutti i curanti che incontra sulla sua strada.
Stabile nella sua instabilità.
Gloria, una psicoterapia psicoanalitica interrotta a metà
Gloria ha ventotto anni, è laureata in psicologia ed è iscritta a una scuola di specialità per diventare psicoterapeuta psicoanalitica. È coniugata con Mauro e ha un figlio, Matteo, di due anni. Mi appare come una bionda ragazzona dagli occhi chiari, col viso sorridente, in evidente stato di sovrappeso. Un sovrappeso peggiorato dopo la gravidanza e la nascita di Matteo. Mi contatta al Servizio per i Disturbi Alimentari, poi opta per lo studio privato. La sua prima richiesta è quella di aiutarla a dimagrire e di occuparmi del suo stato depressivo che da qualche tempo le rende difficile la vita. Quando si sente angosciata e depressa fa delle abbuffate di cibo seguite da vomito.
Mi parla inoltre di una grave malattia internistica che ha ereditato dal nonno e dal padre, il rene policistico. Una patologia che, quando si manifesta, cosa che avviene in età adulta, progredisce lentamente ma inesorabilmente fino all’ insufficienza renale.
Il nonno ne morì. Il padre è stato per anni in dialisi poi è stato trapiantato ed ora conduce una vita abbastanza soddisfacente. Questo è uno dei punti cruciali nella vita di Gloria; la malattia le è già stata diagnosticata e per ora il rene è in fase di compenso; l’unico sintomo già presente è l’ipertensione, che tiene in cura farmacologica; teme ovviamente per il futuro, sia per sé sia per Matteo, per il quale, dice, vi è il cinquanta per cento di probabilità che contragga la malattia. Insomma sulla sua vita pende questa spada di Damocle: per il momento le cose vanno bene, ma non si sa per quanto.
Mi racconta poi delle sue crisi depressive in cui sta giornate intere in pigiama sul div...