I.
LA NOZIONE DI “BUONA MORTE” NEL MONDO ANTICO DALL’ANTICHITÀ CLASSICA ALLA TARDA ETÀ IMPERIALE
Precisazione etimologica della parola eutanasia e il concetto di suicidio nell’antichità
Prima di analizzare il concetto di eutanasia, occorre soffermarsi sull’origine della parola “morte” richiamandosi in particolare allo studio dei singoli fonemi del Sanscrito che, per il profondo valore simbolico veicolato dagli stessi, consente di creare forti relazioni linguistiche tra numerose parole di origine indoeuropea.
La parola latina mors conserva l’antico fonema m del Sanscrito indicante il “limite”, la “misura”, da cui deriva la radice *am veicolante l’idea di “star male” e “ammalarsi”. Il legame tra il limite e l’avviarsi ad esso costituisce il percorso che conduce a mr cioè al “raggiungimento del limite” e, per esteso, al “morire1”.
Diversa appare la storia etimologica del termine greco θάνατος (morte) che non presenta la radice come il corrispondente termine latino.
Da un punto di vista antropologico e secondo quanto sostenuto dagli studi di Adriano Favole e Gianluca Ligi, “l’evento morte pone radicalmente in crisi il senso delle ‘finzioni’ culturali con cui pensiamo e organizziamo il mondo2”.
A tale proposito, si ritiene opportuno riprendere le tesi sostenuta dal filosofo tedesco Martin Heidegger (1889-1976) poi integrata dallo studioso francese Maurice Merleau-Ponty (1908-1961). Identificando l’essenza dell’essere umano quale essere-nel mondo (in-der-Welt-sein) primariamente “spaziale”, il filosofo tedesco individua una stretta connessione tra gli esseri umani e i luoghi dello spazio.
Tale nesso caratterizza lo studio anche di Merleau-Ponty che, riprendendo e integrando la tesi di Heidegger, arriva a contrapporre al corpo vivo quale paradigma di “presenza” nel mondo l’evento morte quale forma più radicale dell’“assenza”, scomparsa di un Esserci (Dasein) che provoca una dolorosa crisi della presenza3.
Il termine eutanasia ha le sue radici nel termine greco εὐθανασία composto dal prefisso εὔ indicante “bene”, “buono” e θάνατος indicante la “morte”.
Il mito greco personificava la Morte (Thanatos) facendola discendere per partenogenesi dalla Notte (Nyx) e legandola da un rapporto di fratellanza gemellare al dio del Sonno (Ypnos)4.
Tale legame di parentela tra la Morte e il Sonno presenta, alla luce di riflessioni moderne, una notevole valenza antropologica proprio in virtù del fatto che già gli antichi riconoscevano una somiglianza tra la condizione del dormiente e quella del defunto.
Oggi si ritiene comunemente che l’eutanasia corrisponda alla richiesta che un soggetto rivolge ad una terza persona, in genere di professione medica, per farsi aiutare a morire, qualora la vita del soggetto stesso sia diventata non più degna di essere vissuta5.
Il soggetto richiederebbe dunque aiuto ad un terzo – medico – che gli permetta di “abbandonare la vita” nel modo più dignitoso possibile e senza sofferenza.
In riferimento al mondo antico e prima di passare all’analisi specifica dei testi, occorre fare due precisazioni di rilievo:
1) il mondo antico, lungo l’arco dei secoli sui quali ho focalizzato la mia attenzione, intende l’eutanasia come “morte valorosa” che un soggetto trova in battaglia combattendo pro patria et sua fama (klèos).
2) l’analisi relativa alla frequenza del termine eutanasia all’interno dei testi ha rivelato un numero ridotto di occorrenze che sono state interpretate perlopiù come definito nel punto precedente.
Sed contra i testi antichi rivelano una maggior presenza del concetto di suicidio e talvolta di auto-tanasia.
A tale proposito, il testo di Anton Van Hoof offre interessanti riflessioni in merito, individuando su un campione di 923 casi, tre principali cause di suicidio: la disperazione, la necessità e il pudore.
È d’uopo considerare che la causa di un suicidio compiuto è spesso il frutto dell’interpretazione e della spiegazione da parte dell’osservatore, il quale, dopo l’accaduto, impone la propria struttura logica del fenomeno6.
La disperazione rappresenta la causa di suicidio che coinvolge principalmente “gli assediati”, i comandanti e i politici perdenti, cospiratori smascherati, gli impostori e i peccatori7.
La necessità si distingue dal pudore nella misura in cui nel primo si tratta di un suicidio “forzato” cioè ordinato da un potente, mentre nel secondo il suicidio è compiuto per vergogna o onta prima di un imminente udienza8.
Il pudore, da ultimo, si riferisce per la maggior parte delle occorrenze, a suicidi compiuti da donne, divenute modelli esemplari di fedeltà e lealtà nei confronti del marito, imperatore o comandante di legione, ucciso in battaglia o da un avversario politico9.
Due sono le principali caratteristiche che connotano il suicidio nell’antichità: la libertà dell’individuo che si manifesta nell’atto del darsi la morte da parte del soggetto e la presenza costante di un pubblico che guarda con ammirazione il soggetto, artista filosofico o credente, dimostrare il proprio disprezzo della morte10.
I due aspetti si compenetrano a vicenda poiché l’individuo nell’antichità esiste solo in funzione del gruppo a cui appartiene e anzi è “totalement absorbé dans le groupe”, causa per la quale, secondo Emile Durkheim, gli anziani abbandonano la vita, le mogli accompagnano il proprio marito e i servi il proprio padrone a morte11.
Il Giuramento d’Ippocrate e il divieto di attuare pratiche eutanasiche
Tra i testi più famosi di etica medica il Giuramento d’Ippocrate occupa una posizione di rilievo.
Di sostrato orfico-pitagorico e inserito all’interno di una cultura orale-aurale12, il Giuramento rappresenta il primo tentativo di apertura della sapienza medica greca da una tradizione familiare a patrimonio di un’intera ecumene13.
Il confronto tra il Giuramento d’Ippocrate, il Giuramento indiano e un “Giuramento” cinese rivela, nonostante l’intervallo temporale che caratterizza i tre testi, la condivisione di aspetti comuni quali, in particolare: 1) la protezione della vita 2) l’importanza della fiducia 3) la tutela della riservatezza cioè della sacralità della vita e dell’applicabilità della professione14.
Il Giuramento ippocratico si pronuncia sulla necessità di un atteggiamento idoneo nella relazione medico-paziente che, per la sua natura asimmetrica, vede uno sbilanciamento di potere tra le due parti in gioco. La considerazione della vulnerabilità del paziente, in particolare l’integrità della donna, porta all’elaborazione di “un solenne giuramento composto da quattrocento parole, la cui brevità fa pensare che il giuramento stesso fosse destinato alla memorizzazione quale guida costante attraverso la quale orientare il proprio comportamento15”.
Sette paragrafi all’interno del Giuramento greco fanno riferimento all’insegnamento della techne, l’arte medica.
Ciò che colpisce, a tale proposito, è il legame stretto, familiare che si instaura tra il maestro medico, portatore della techne, e l’allievo.
In esse “non si tratta di un codice morale, di divieti o precetti ma di assicurazioni o meglio promesse garantite sotto giuramento, formulate tutte alla prima persona singolare. Colui che giura promette a turno di fare o omettere qualcosa16”.
Il passo nel quale il medico rifiuta di somministrare al paziente qualsiasi farmaco mortale, neppure dietro richiesta di quest’ultimo, è stato interpretato per lungo tempo quale condanna dell’eutanasia da parte del medico e astensione del medesimo dall’attuare questa pratica.
A tale proposito, si considera di particolare rilievo la recente tesi sostenuta da Giulia Ecca, secondo la quale “il passo in questione alluderebbe, piuttosto che al suicidio assistito, al fatto che spesso sui medici ricadevano accuse di omicidio”. Le accuse di omicidio nei confronti di medici erano frequenti nell’antichità e provenivano, nella maggior parte dei casi, dalla famiglia di un paziente deceduto la quale riteneva il medico responsabile del decesso attraverso la terapia adottata17.
Il passo “neanche se ...