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Giotto
Madonna in Maestà di Ognissanti
La Madonna in Maestà, detta di Ognissanti, fu commissionata a Giotto di Bondone dai frati Umiliati intorno al 1310, per la chiesa di Ognissanti a Firenze. Si tratta di un’imponente pala d’altare di più di tre metri di altezza per due di larghezza, oggi situata agli Uffizi. Giotto eseguì il dipinto nel primo decennio del Trecento, negli stessi anni in cui fu realizzato il ciclo di affreschi della Cappella degli Scrovegni, universalmente riconosciuto come vertice della sua produzione pittorica. Pur essendo dunque un’opera matura la Madonna in Maestà conserva le tracce del travagliato processo di sintesi che la pittura dell’epoca doveva affrontare, offrendo lo spunto per introdurre gli elementi essenziali della nostra analisi che ritroveremo nei capolavori considerati.
La Maestà di Giotto si allinea con le pale simili realizzate da Cimabue e Duccio, dalle quali sembra aver tratto ispirazione. Le accomuna la visione frontale della Madonna col Bambino, ingigantiti secondo le tradizionali proporzioni gerarchiche, rispetto ad angeli e santi disposti simmetricamente ai lati del trono. Il supporto della tavola a fondo oro è caratterizzato dal taglio a tetto del lato superiore e dalla cornice modanata e decorata, che costituisce parte integrata al dipinto.
La Maestà di Giotto, come le tre opere affini, richiama un’iconografia religiosa che discende dalla tradizione del primo medioevo. La disposizione centrale del trono, collocato con precisione degli equilibri all’interno dello spazio, l’ordine rigorosamente simmetrico delle figure ai lati, così come l’uso diffuso dell’oro, le particolari combinazioni cromatiche, sono tutti elementi che da secoli caratterizzano la pittura bizantina, qui contaminata da diverse influenze.
All’origine dell’arte bizantina, in particolare dell’icona, vi è l’esigenza di dare forma concreta alla visione del sacro, aprendo una finestra sul mondo trascendente, contemporaneamente superando l’ascetismo esoterico del simbolismo paleocristiano e scansando il naturalismo classico che indugia sulle apparenze del mondo sensibile. Pavel Florenskij, monaco ortodosso e geniale filosofo russo, vissuto tra Ottocento e Novecento, fa risalire l’origine dell’icona bizantina all’arte funeraria egizia, pratica esoterica con cui si rappresentava il volto del defunto, non nella fisionomia apparente della persona fenomenica, ma nella sua presenza vitale. La maschera funebre doveva essere infatti la forza stessa del suo essere eterno, che potesse guidare lo spirito del defunto a ricongiungersi al corpo. Gli artisti egizi enfatizzavano in questa pratica l’aspetto magico dell’immagine intensificando le tensioni di energia, sprigionate dai rapporti ritmici delle forme e dei colori, fino a raggiungere una consistenza e luminosità interna che trasfigura gli elementi raffigurati in un ineffabile splendore. Ciò spiega l’uso costante della simmetria, che oltre ad assumere una forma canonica con un significato simbolico, è modo sicuro per disporre gli elementi dell’immagine in equilibrio e garantire la precisione ritmica dei rapporti. Così come l’oro, colore anomalo per le proprietà riflettenti del metallo, oltre ad essere simbolo della luce divina, è energia luminosa che intensifica la forza risplendente dell’immagine.
Giotto, formatosi alla bottega di Cimabue, assimila il rigore schematico della tradizione bizantina, ma già influenzato dallo stile romanico e gotico. L’artista, oltre a ciò, darà un’impronta particolare alla sua opera grazie alle influenze della scuola romana, nella quale si stavano riprendendo alcuni elementi classici. La rappresentazione sacra acquisisce una maggiore libertà e, con una progressiva riacquisizione del naturalismo, è calata in un mondo umano più vicino alla quotidianità, con connotazioni realistiche e storiche più determinate.
Nella Madonna in Maestà questi aspetti diversi, non ancora completamente amalgamati, sono evidenti nella descrizione accurata delle figure e degli accessori, che tuttavia si inseriscono sorprendentemente in un’immagine statica e solenne, dove l’equilibrio simmetrico della composizione geometrizzata, unendosi alla forza riflettente dell’oro, ha un effetto irradiante.
La figura dominante della Madonna, al centro dell’immagine, volge lo sguardo di fronte a sé. Sulle sue ginocchia Gesù benedicente appare sospeso in assenza di gravità, con gli occhi persi nel vuoto stringe nella mano il rotolo di pergamena, il così detto chirografo, simbolo del debito, il peccato originale, “cambiale” che Cristo è venuto a saldare per il riscatto dell’umanità. Ai lati del trono santi incoronati si accalcano intorno privi di pathos, mentre gli angeli avvolti in preziosi paludamenti, volgono lo sguardo adorante alla sacra Maestà, reggendo la pisside, contenente ostie consacrate, la corona e i vasi con gigli e rose, simboli mariani. Il trono, caratterizzato da rigore geometrico, su cui giocano raffinate decorazioni, fissa nel dipinto una rigida struttura ortogonale, articolata in angoli netti e affilati. La struttura geometrizzata del trono instaura una forte sinergia ritmica con la cornice, rapporti di linee verticali, orizzontali e oblique, che comprimono lo spazio con una magica intensità.
A questa struttura ritmica di rapporti lineari fa da contrappunto il gioco dei cerchi delle aureole, in un insieme variato che completa l’ossatura della composizione. Giotto organizza il ritmo dei cerchi inscrivendo nella grande volta del trono le aureole della Madonna e del Bambino con semplicità e assoluta precisione degli equilibri. Queste tensioni circolari sono richiamate in basso dalle aureole dei quattro angeli, mentre quelle dei santi raggruppati simmetricamente ai lati, pur intensificando il medesimo ritmo circolare, ne costituiscono una variante dinamica. Vi è qui un sapiente gioco di sovrapposizioni dove i contorni dei cerchi delle aureole si perdono l’uno nell’altro, simulando la sovrapposizione grazie all’automatismo completante dell’occhio.
In questo gioco di richiami circolari e curvilinei si inscrivono le teste dei personaggi, sulle quali è opportuno soffermarsi per rilevare alcune problematiche formali che Giotto ha dovuto affrontare.
A prima vista notiamo immediatamente la differenza sostanziale tra il volto di Maria e quelli di angeli e santi. Di dimensione nettamente maggiore, il volto di Maria ricorda per sintesi stilistica i volti bizantini delle icone, mentre quelli dei santi e dello stesso Gesù appaiono più definiti, mettendo in evidenza tipi ed espressioni diverse. Si tratta di un naturalismo all’epoca del tutto anomalo, che solo nel Quattrocento, dopo Masaccio, verrà assunto diffusamente nella pittura, volgendo al gusto tipico dell’umanesimo, e successivamente al classicismo rinascimentale, al quale si richiamano invece le fisionomie degli angeli, influenze della scuola romana.
Leonardo nel suo Trattato della pittura condannerà l’uso frequente di raffigurare nello stesso dipinto personaggi diversi servendosi del medesimo modello. Vissuto nel Rinascimento gli era probabilmente difficile comprendere come per i pittori medievali fosse essenziale mantenere la tensione risplendente dell’immagine, per cui le fisionomie dei personaggi, pur in una iniziale ricerca naturalistica, prendevano vita dall’accordo ritmico tra loro e nell’insieme dell’opera, e non da un’aderenza alla visione reale. Tensione tra esigenze espressive opposte che contraddistingue l’opera che stiamo analizzando.
Nella Madonna in Maestà infatti si nota il travagliato processo dell’arte dell’epoca, in cui si cercava di unificare esigenze esistenziali e spirituali, immanenza e trascendenza. Il compromesso tra la semplificazione ritmica e una rappresentazione più aderente al vero è realizzato da Giotto differenziando i volti di santi e angeli in una forma realistica, ma ripetendo anche le stesse fisionomie simmetricamente ai lati, in modo che i contorni simili possano consonare facilmente, privilegiando la tensione ritmica, ulteriormente rafforzata dalla netta circolarità delle aureole.
Tuttavia il volto della Madonna, per via delle proporzioni canoniche ingigantite, non si accorda facilmente con gli altri volti, decisamente più piccoli, rischiando di risultare avulso. Giotto risolve il problema accordando i tratti di questo grande volto con i ritmi delle volute dei panneggi e con quelli più rigidi del trono, infondendovi con questa geometrizzazione la ieraticità astratta dei volti bizantini, tuttavia pregna di una nuova sensibilità, chiamata pulcritudo giottesca. Un genere particolare di bellezza in cui si fondono astrazione e grazia umana, evidente nelle soluzioni plastiche e cromatiche dell’incarnato, nel sorriso appena accennato, da cui si intravedono i denti.
La figura di Gesù, composta con un naturalismo più rozzo rispetto alle figure laterali di angeli e santi, armonizza lo scarto stilistico tra queste e la figura della Madonna. La testa del Bambino, pur ingigantita nelle proporzioni, risulta delle medesime dimensioni delle teste dei santi, ponendosi con esse in accordo, mentre la disposizione frontale e la semplificazione dei lineamenti favorisce la consonanza col volto della Vergine. In un caso e nell’altro si tratta di accordi difettosi, per cui la testa di Gesù risulta la parte più incongrua nel rigore ritmico dell’insieme; ma è grazie a questa testa dipinta così forzatamente, cercando di tenere insieme esigenze contrastanti, che il volto astratto della Madonna trova una certa armonia con le fisionomie naturalistiche di angeli e santi.
Tornando alla struttura generale del dipinto troviamo un altro accorgimento armonizzante tra elementi contrastanti. I panneggi delle vesti, il cui andamento di pieghe verticali si accorda al rigore rigido delle strutture del trono e della cornice, assume progressive inclinazioni curvilinee. Si formano così, nelle pieghe sottostanti le maniche degli angeli in piedi e in quelle delle falde più esterne delle tuniche degli angeli inginocchiati, angoli smussati da cui si diramano grandi pieghe a “V”, che richiamano la grande piega centrale del manto della Madonna. Il progressivo passaggio dall’andamento rettilineo a quello curvo unifica i due ritmi principali dell’intera struttura dell’opera (verticali e circolari) moderandone l’eccessiva rigidità.
La morbidezza con cui sono simulati i rilievi delle pieghe dei panneggi offre lo spunto per introdurre altro elemento importante della pittura in genere. Come abbiamo già avuto modo di osservare, l’arte raggiunge efficacia estetica unificando elementi che nell’esperienza consueta tendiamo a percepire separatamente: ordine e caos, tensione astratta dei ritmi e disegno naturalistico; aggiungiamo ora ciò che chiameremo duro e morbido.
Il trono della Madonna in Maestà è realizzato con un rigore geometrico dove i piani nella costruzione prospettica risultano nettamente definiti; così come le aureole e il manto di Maria si stagliano sugli elementi attigui in deciso e rigido contrasto. Tutto ciò ha un impatto sull’osservatore di una certa asprezza; è l’aspetto duro del quadro, quello destinato a dare incisività ed energia all’immagine. I panneggi delle tuniche dei personaggi rappresentano invece l’aspetto morbido, grazie all’accurata modulazione delle sfumature che torniscono i rilievi. Aspetti diversi che si coordinano tra loro attraverso le consonanze ritmiche delle linee parallele che ordinano la struttura compositiva.
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