PRIMO CAPITOLO
MONDI PARALLELI: INTERPRETARE L’ALTRO
Noi giapponesi, fin dall’antichità, siamo
in un certo senso degli uomini naturali.
Vale a dire che non vogliamo in alcun modo signoreggiare sulla natura, mentre invece vorremmo vivere e morire quanto più è possibile in un modo conforme alla natura.1
Premessa
Il presente capitolo intende promuovere una ricostruzione di immagini che due modelli socio-culturali e letterari, per nulla autoreferenziali, prendono a proiettare a partire dall’età contemporanea, in Occidente, e dal periodo Meiji (1868) in Giappone. Scandagliando tali images, si percepiscono soluzioni di continuità collegate alle asperità che i due sistemi-Paese si trovano ad affrontare: una percezione distorta del sé e della posizione che occupano nello scacchiere globale, molteplici problemi relazionali nella vita di comunità. Ancorati a tradizioni e a una visione del mondo radicata in un immaginario collettivo celebrato da secoli di tradizione filosofica in Germania e di riflessione sul rapporto tra uomo e natura in Giappone, l’universo germanicus e japponicus catturano l’attenzione del ricercatore per la complessità dei sistemi politici e sociali che vanno elaborando negli ultimi due secoli della storia globale. Accade così che le divergenze linguistiche vengono appianate e superate, cedendo spazi di espressione a un caleidoscopio di immagini terse. Alcune splendono di nitore proprio, latrici di umanità e di pienezza di spirito. Altre testimoniano la complessità del trovare il proprio posto nell’età della globalizzazione. L’operazione di interpretazione e ricostruzione di Sé e dell’Altro trae linfa vitale dalla scrittura, primo referente chiamato ad analizzare il reale in forma analitica, auspicando il superamento del limes tracciato da tradizioni letterarie millenarie. Il gioco di rifrazione, generato da specchi che riflettono il proprio mondo, non produce un effetto automatico di livellamento o la ricerca di soluzioni contigue al proprio sistema culturale. La rifrazione ha il merito di inaugurare un confronto dialettico, in grado di avvalorare istanze e modelli radicati nel proprio sistema culturale, senza sconfinare nell’esotismo o nell’auto-rappresentazione. Le immagini aprono a esiti potenzialmente assai eterogenei.
L’umanità che la scrittura ritrae effonde luce propria, restituendo un messaggio in grado di compendiare “realtà oniriche, tradizioni e una riconoscibilità evidente nella sola ambientazione”2. In altri casi, l’immagine si carica del compito dettato dalla mìmesis aristotelica: ritrarre il reale secondo un principio di unità indivisibile.
Le esperienze di scrittura che la presente trattazione passerà in rassegna denunciano le brutture cui la coscienza individuale e collettiva si trovano esposte nel XX secolo. Il dolore, che le immagini tentano di restituire, trova espressione attraverso un codice universale. Le barriere linguistiche cadono, quando a occupare la scena è l’uomo con i suoi tormenti esistenziali.
Interpretare l’Altro, muovendo dalla conoscenza che lo scambio reciproco può offrire, segna il punto di partenza di ogni tentativo volto a scandagliare le altrui culture e tradizioni. Non vi è mezzo più idoneo della “rappresentazione”3 per predisporre la scrittura alla conoscenza dell’Altro, aprendo uno squarcio all’interno di mondi paralleli. La rappresentazione consente alla narrativa di indagare la natura dei fenomeni, le storture, inquadrando e descrivendo il malessere. La scrittura dischiude il suo potenziale al lettore, offrendo una chiave di lettura e di analisi del mondo coevo. Il velo di Maya cade grazie a questa operazione, statuendo come, al di là della complessità dei codici linguistici e di scrittura, l’uomo è uno. Nelle sue qualità e nelle contraddizioni.
1. Tensioni nazionale
1.1. Il caso del Giappone
Nelle culture di espressione germanica e nipponica la questione identitaria riveste un significato duplice. Da una parte, è esplicativo di un dissidio generato dalla formazione “tardiva” di un concetto di Nazione. La Germania, per secoli suddivisa in tante realtà statuali disgregate, perviene all’unità nazionale – Einheit – dopo il 1989, in esito alla caduta del muro di Berlino. Non molto diversa la situazione nipponica. Dopo circa tre secoli di isolamento dovuto al governo del clan Tokugawa (1603–1868), il Giappone rimane arroccato a una pericolosa enclave culturale e sociale. Avvitato su se stesso, l’Arcipelago ignora le dinamiche collegate al progressismo e alla rivoluzione culturale avvicendatesi nel vecchio continente a partire dal XVIII secolo.
Uno scambio materiale di beni e servizi tra Paesi e continenti geograficamente lontani prende l’abbrivio solo nel tardo Ottocento, includendo fra le merci in transazione anche i libri e le traduzioni. Le correnti letterarie e filosofiche penetrano il Giappone lentamente, preparando il terreno al confronto e alla ricezione dello straniero. In questa fase risalta il ruolo svolto dagli intellettuali e la volontà di trascendere i confini tracciati dal limes spaziale. Lo scambio e l’interazione sono ben lungi dalla mercificazione culturale, cui si assisterà nel secondo Novecento. D’altra parte, esistono delle spiegazioni alla base del ritrovato senso di condivisione culturale: i circuiti della comunicazione internazionale vedono il Giappone tagliato fuori fino alla metà dell’Ottocento. Jonathan Zwicker ha ricostruito l’evoluzione che l’industria culturale registra nel Giappone del XIX secolo, pervenendo alla conclusione che il primo contatto che l’Arcipelago è in grado di instaurare con l’Occidente avviene grazie agli oggetti, non alle ideologie4. Le “cose” veicolano la conoscenza dell’Altro e avvicinano il genere umano, mentre l’interesse – codificato in forma teorica – nei confronti di sistemi culturali non autoctoni rimane inizialmente assai modesto. Per secoli, l’immagine dell’Altro è coperta da stigma, al punto da ingene-rare timori e tensioni. Varcare la frontiera e superare il limes spaziale che separa dall’Altro viene percepita come un’operazione insidiosa. La propaganda dello shogunato è, del resto, massiccia e incisiva, dipingendo l’occidentale come uomo arrogante e irrispettoso delle tradizioni autoctone. A ciò si aggiunga la componente etnica, che pure gioca una parte rilevante nella pratica di stigmatizzazione dell’Altro. A partire dalla metà del XIX secolo, l’americano, con i suoi tentativi di invasione dell’Arcipelago, diviene il nemico dichiarato, inviso all’establishment quanto al popolo giapponese. Particolarmente contestata è la superbia con cui tenta di invadere un territorio straniero. A questo atto di forza, percepito in tutta la sua arroganza e sgradevolezza, va ad aggiungersi un fatto molto grave per la morale pubblica. Lo straniero non ha onta di dissacrare un principio cardine nella cosmologia giapponese: la centralità dell’Arcipelago.
L’invasione e la conseguente apertura al mondo esterno diviene, tuttavia, un fatto improcrastinabile. Pur con tutte le tensioni e i moti rivoltosi che si susseguono in province diverse del Giappone, l’apertura ha luogo ufficialmente nel 1868. A questa data viene fatta risalire la caduta ufficiale del governo shogunale e l’inizio di un governo più democratico del Paese. L’alienazione e il repentino cambiamento nella gestione delle attività politiche e culturali generano un senso di spaesamento e fomentano la contestazione presso i ceti maggiormente interessati dal processo di occidentalizzazione. La prima “categoria” a essere soppressa, perché non più in linea con il processo di democratizzazione in atto, è quella dei samurai. Anche la gestione politica è costretta a sottoporsi a un riformismo accelerato, allineandosi con le costituzioni dei Paesi dell’Europa occidentale.
In pochi anni, l’Arcipelago è spinto a cambiare volto, da pressioni centripete e dall’estero. Da più parti si guarda al Giappone, Paese arretrato e retrogrado. È in atto un processo, dirà Miyake Toshio, di trascrizione dell’identità nipponica secondo gli schemi e i canoni occidentali5. Da qui le basi di un “orientalismo” che travisa il senso e l’identità di una cultura millenaria. Il primo processo di trascrizione prende forma nel segno della deformazione, una “mostrificazione” causata dal confronto forzato con l’Altro da sé. L’identità nipponica viene definita in base a ciò che non è occidentale. Nipponico diviene antitesi del logico, del razionale, della speculazione filosofica, di una visione egocentrica del mondo. Se l’Io definisce per l’occidentale il campo di azione dell’individuo rispetto al mondo circostante, in Oriente viene epurato di tutti gli attributi addotti dalla speculazione filosofica collegata al problema della conoscenza a partire da Platone (idea perfetta) e Aristotele (essere immanente). In Giappone, è la natura che concorre a definire l’Io. Le stesse coordinate spazio-temporali prescindono da una “regolamentazione” soggettiva. L’Io partecipa al mondo, rinunciando a plasmarlo “a propria immagine e somiglianza”.
Il primo incontro tra sistemi di pensiero diversi gli uni dagli altri si accompagna a un effetto di alienazione ovvero di estraniamento. Il tempo contribuirà a favorire l’avvicinamento e il confronto. Il tempo, unitamente allo scambio di prodotti culturali. Difatti, la reazione nipponica passa dall’ostilità dichiarata – negli anni successivi al crollo del governo shogunale – a una conciliazione formalmente amichevole. Una parte del nuovo establishment comprende che l’apporto occidentale potrà rispondere al bisogno di innovazione che l’Arcipelago avverte dopo secoli di chiusura. Donde un mutamento radicale di prospettiva agli inizi del XX secolo.
Il Giappone, pur non intendendo rinunziare alle proprie specificità culturali, trae insegnamenti dall’emulazione dei manufatti e dei prodotti di provenienza occidentale. Emulare avrebbe significato crescita accelerata e recupero del disavanzo rispetto alle economie più sviluppate. In ragione di tali considerazioni, si diffondono slogan come fukoku kyohei – “Paese ricco ed esercito forte” – o wakon yosai, “spirito giapponese, conoscenza (tecnica) occidentale”6. È in germe un processo di transizione in un Paese e in un popolo che gradualmente soccombe alla violenza del progresso.
Le reazioni sono contrastanti. L’evoluzione migliora la vita e aiuta il popolo giapponese a fare passi da gigante nei settori più disparati. Le formule del wakon yosai 7 varate dai primi governi cominciano a produrre risultati soddisfacenti. Nascono imprese, cooperative agricole a conduzione familiare. Dall’altra parte, il germe del progresso comincia a generare tensioni nazionali. Le società del benessere che abbracciano il capitalismo sono chiamate ad affrontare l’altra faccia della medaglia: estensione del latifondo, sperequazione nella distribuzione della ricchezza e squilibri politici generati dalla gestione congiunta pubblico-privata di servizi nazionali.
In meno di mezzo secolo, il Giappone ha barattato la verginità culturale e il proprio sistema di governo con una forma di gestione della collettività sostanzialmente estranea all’etichetta regionalista della prima maniera. Il regionalismo farà la sua ricomparsa qualche anno dopo, distinguendosi a causa di un’impronta diversa. La sobrietà è messa al bando in favore del nazionalismo rampante. È in questo frangente storico che prende ad acuirsi il divario tra una prospettiva autoindotta di orientalismo, più comunemente nota come “auto-orientalismo” (Miyake) e forme identitarie eterodirette8. Nell’un caso, a predominare è l’omogeneità del popolo nipponico, la cui identità viene definita a partire da una esaltazione dei suoi tratti più lineari. Le ambiguità e le contraddizioni sociali sono passate al setaccio, mediante un processo di normalizzazione teso a livellare i nodi più problematici e occultare le torsioni del costituendo Io nipponico.
La causa di una opposizione binaria via via più stridente tra essere e dover essere viene imputata alla definizione della propria identità a partire da un principio di (auto-)esclusione: definirsi in base a ciò che non si è. Dalla prospettiva occidentale, è giapponese ciò che non può essere ricondotto alla geografia del West, l’Occidente9. Tale classificazione finisce per rivendicare spazi di sovranità su una prospettiva identitaria definita dal proprio interno. Su tale complesso nodo si è espresso ampiamente Iwabuchi Kōichi10. Per lo studioso, l’affermarsi di due macro-identità culturali di riferimento – l’Occidente e il Giappone – ha costretto il discorso sull’identità in spazi delimitati...