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Accade che eventi non previsti, a cui la vita ci pone di fronte, si ritaglino un ruolo non trascurabile, delineandosi come opportunità per riconsiderare la condizione di discontinuità e di distanza tra gli esseri umani. Come emerge dalle ferite dell'emergenza sanitaria, sociale ed educativa, occorre prendere atto di una faglia in noi che in genere rimane nascosta, ma che in quanto tale va attraversata per approssimarsi sempre più a noi stessi e all'altro. In questa direzione si pone la rifl essione pedagogica sulla relazione d'aiuto proposta da Marisa Musaio per educatori, consulenti pedagogici e operatori socioeducativi, delineando la specifi cità di una professione che intreccia relazione e costruzione di prossimità.
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Information
PER UNA PEDAGOGIA DELLA RELAZIONE D’AIUTO
Si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite1
1. PEDAGOGIA, EMERGENZE E LAVORO EDUCATIVO
L’emergenza sanitaria, sociale ed economica ha causato un intreccio problematico che tocca le diverse parti del mondo e fa avvertire in maniera allargata le proprie conseguenze:
La comunità di cui dobbiamo preoccuparci non è quella del nostro quartiere o della nostra città. Non è una regione e neppure l’Italia o l’Europa. La comunità, nel contagio, è la totalità degli esseri umani.2
L’emergenza riposiziona priorità e finalità anche in relazione al ruolo centrale che l’educazione può ritagliarsi per il futuro di persone e comunità. Nel promuovere potenzialità, l’educazione potrà rintracciare il suo ruolo guida per la ricostruzione del tessuto umano e relazionale. In questa prospettiva, seppur mossa da ragioni emergenziali, occorre non abbassare il livello della riflessione, anche culturale, per rilanciare ed ampliare una sensibilità verso le dimensioni e i vissuti dell’umano che è propria della pedagogia, insieme ad una profondità e ad una ricchezza di analisi da riscoprire e da finalizzare per rispondere alle molteplici richieste di aiuto.
Ambito di riflessione scientifico, teorico e pratico, non neutro perché connotato da impegno etico e valoriale, la pedagogia registra una continua intersezione tra gli ambiti soggettivi e quelli oggettivi, tra l’ambito personale, relazionale e sociale. Interpellata tanto dalle indagini e dalla conoscenza delle problematicità3, quanto dall’intervenire sul piano dell’azione, essa dovrà cercare di contestualizzare sempre più le proprie riflessioni in riferimento alle nuove emergenze in considerazione del quadro di precarietà generale.
In relazione ai presupposti di una pedagogia generale, la riflessione e le prassi relazionali di aiuto sono orientate a perseguire almeno due finalità di fondo:
1) l’accompagnamento e la trasformazione delle persone nonostante le difficoltà che si trovano ad affrontare;
2) l’armonizzazione dei processi educativi e formativi con le effettive esigenze di persone e comunità, anche in vista di poter consolidare competenze utili tanto alla risoluzione di problemi quanto alla conservazione e alla promozione di stili e modelli di vita in armonia con le dimensioni proprie dell’umano.
Quando l’intera umanità è attraversata dalle medesime sofferenze, da angosce, necessità di sopravvivenza e di resistenza, sapere cosa fare e come fare diviene prioritario per il bene di tutti.
In tale prospettiva risulta sterile avviare considerazioni che non si propongano fra i loro obiettivi di attivare uno sguardo su quanto stia accadendo nel mondo, pur nella considerazione della diversità e della particolarità dei contesti, consapevoli che il tempo attuale vede crescere l’interdipendenza e la confluenza sul piano del medesimo senso di debolezza e di fragilità degli esseri umani, a partire da condizioni planetarie di malattia e di esigenze di cura.
In relazione ad esperienze di tale portata l’educatore e i professionisti socioeducativi si riconoscono ancor più fragili tra i fragili.
Nella sua ricognizione intorno al profilo dell’educatore, Sergio Tramma ha posto in evidenza come sia una figura costitutivamente incerta, a volte sfuggente, costantemente in via di definizione, quasi restia ad ogni tentativo di stabilizzazione, come a rispecchiare una “debolezza” strutturale ma al tempo stesso salutare perché costituisce l’intrinseca forza dell’educatore, per via della sua posizione di costante apertura alle possibilità rispetto sia al proprio modo di essere e di operare, sia alla ricognizione continua e ininterrotta che viene svolgendo intorno all’agire educativo, al proprio orizzonte di finalità e all’indagine permanente a riguardo delle esperienze di vita dei soggetti destinatari e co-costruttori della propria azione educativa4.
Il ruolo da educatore non protegge da ciò che si incontra, anzi, espone, e in questo nostro esporci siamo chiamati a rilevare come la relazione educativa “lavori” non esternamente ma dentro ognuno di noi, inizialmente quasi inconsapevolmente, e poi via via in maniera sempre più manifesta. A rivelarlo sono le espressioni più ricorrenti che traspaiono dal linguaggio utilizzato dagli educatori all’interno della documentazione di servizio e nella condivisione dei momenti di équipe e di supervisione pedagogica: “Durante il mio lavoro tocco da vicino, sia professionalmente sia umanamente, la disperazione”, … “avverti in maniera palpabile la tua impotenza di fronte a dolori così grandi che fanno paura”, riporta un’educatrice mentre narra delle difficoltà connesse al proprio lavoro. A queste parole fanno eco anche altre: “Questa esperienza ha fatto nascere in me molti dubbi, durante questo periodo mi sono spesso domandata quale fosse realmente il mio ruolo”. Si tratta, come possiamo constatare, di annotazioni e narrazioni relativamente alle attività svolte sul campo, che sembrano rispecchiare in alcuni casi un registro descrittivo, più rassicurante e strutturato, in altri più incline all’esercizio dell’autonarrazione come forma di autoaiuto che rispecchia incertezza e in alcuni casi anche malessere rispetto alla propria attività, oppure il coinvolgimento e l’empatia rispetto alle difficoltà dell’altro, che si intrecciano con le domande intorno al proprio ruolo educativo, alla propria identità e al come procedere.
È come se la precarietà dell’umano si riflettesse nell’interrogarsi dell’educatore intorno al proprio ruolo, all’essere soggetti “toccati” dal limite mentre lo si incontra nell’altro, mentre si è chiamati a riconoscerlo e al tempo stesso a rintracciare quelle possibilità che dall’interno delle storie personali possano aiutare a porre i tasselli per trasformare storie di disagio in storie di risalita e ripartenza.
Anche nelle situazioni più estreme l’essere dà prova della sua capacità di riuscire a superarsi, trascendersi. Come esseri che non nasciamo perfetti ma perfettibili, suscettibili di migliorarci continuamente, come afferma Maria Zambrano, gli esseri umani esistono nascendo, continuando a nascere per via del loro divenire sempre aperto, che richiede costantemente l’incontro con altri e interiorizzare quanto avviene nell’incontro:
Diventiamo noi stessi attraverso le relazioni e, nelle situazioni più adeguate alla nostra umanità, […] in una tessitura, in un intreccio per l’essere di ciascuno si modifica, si affina, si trasfigura, apprende nuove modalità e assume forme inedite.5
In un’epoca di accresciuta presenza del rischio, che si scosta dalla sicurezza e dalla serenità, il profilo incerto e debole dell’educatore fa tutt’uno con la condizione di un’umanità in stato d’attesa e in cerca d’aiuto, per compiere quel percorso di trasformazione che in molti casi fa davvero la differenza. E se il termine fragile è ormai d’uso frequente nelle nostre conversazioni, in ambiti diversi e con attribuzioni di significato che spaziano dal riferimento agli stati e vissuti della persona, alle condizioni oggettive di disagio, alle situazioni che infrangono un equilibrio, e nelle quali possiamo trovarci tutti coinvolti, le ragioni che delineano i quadri d’emergenza sociale che mettono maggiormente alla prova, hanno attinenza con condizioni di deprivazione e di povertà, di svantaggio economico, culturale e sociale, di violenza subita, di conflitto e separazione affettiva, di trauma e di lutto, di esposizione ad eventi stressanti, tanto sul piano della salute fisica e psicologica, quanto in relazione alle prospettive per un’integrale promozione e formazione della persona.
Ma più che assumere una prospettiva descrittiva che limita ad una enumerazione delle emergenze, l’educatore cerca di intravedere in una fragilità pluridimensionale le possibilità con cui ogni soggetto possa accedere alla rielaborazione dei propri disagi, cadute, ritardi, affrontarli, superarli e farne motivo di un’elaborazione che concorra alla formazione di identità future più serene.
Ponendosi tra considerazioni inerenti alla precarietà dell’umano e rilevazioni sulle sue diverse manifestazioni, il professionista dell’educazione si trova ad interrogarsi e a doversi continuamente formare per essere capace di ascoltare innumerevoli storie di fragilità. Tra queste, rientrano anche quelle vissute dallo stesso educatore, il quale, mentre opera, non può restare indifferente, risultando coinvolto e dovendo acquisire le competenze per saper attivare percorsi di aiuto.
A motivo di queste rilevazioni la pedagogia, come scienza, teoria e prassi che ha il suo oggetto di studio nella persona e nelle sue potenzialità educabili, registra l’esigenza di riattualizzare fondamenti e paradigmi al fine di ri-orientare la formazione di coloro che dovranno rispondere alle crescenti fragilità del presente: da quelle esistenziali a quelle specifiche, da quelle esteriori a quelle interiori, dalle fragilità evolutive a quelle connesse alla marginalità, precarietà e povertà, da quelle personali a quelle relazioni e sociali, a quelle veicolate da traumi e ferite, situate in un quadro contemporaneo che fa registrare la transizione della civiltà dal paradigma dell’uomo cosiddetto forte ad un profilo di soggetto debole.
L’interrogarsi sul tema della debolezza apre alla necessità di rileggere la condizione umana in rapporto al significato della civiltà e a come incarniamo in essa la nostra presenza. A tal proposito ci assiste il rimando al punto di vista di Freud nell’opera L’avvenire di un’illusione, quando evidenzia come la vita sia difficile da sopportare per via delle rinunce imposte dalla civiltà, della sofferenza che ci deriva dagli altri, dalla natura, dal destino, dall’angoscia della morte6, come se un insieme di minacce gravassero sull’uomo tanto da indurlo a difendersi per scongiurare di ritrovarsi completamente impotente, anche se tale condizione attiva al tempo stesso il suo desiderio di sicurezza rispetto ai pericoli sia esterni sia interiori, come accade per l’ambivalenza con cui viviamo la relazione con l’altro: desiderato e respinto al tempo stesso, ricercato e allontanato, pur sempre l’altro rimane “esperienza primaria”, “momento fondativo” che risuona in noi e che risulta necessario per costruire un terreno comune di convivenza. Invocato nell’intensità dei nostri desideri ed auspici, per il bisogno di riconoscermi attraverso l’altro, per il “bisogno di riparazione dell’immagine di sé”, l’altro è possibilità dell’incontro con se stessi, e sollecitazione di esigenze vissute come centrali e al tempo stesso ambivalenti: pensiamo al desiderio di affetto, di amore, di realizzare un progetto di vita insieme e di famiglia, di avere dei figli. Diventiamo così consapevoli che non possiamo essere noi stessi senza vivere questa ambivalenza tra ricerca e relazione d...
Table of contents
- Copertina
- Circa l’autore
- Frontespizio
- Copyright
- Sommario
- Introduzione
- I. Forme di discontinuità dell’umano
- II. Forme di distanza
- III. La resistenza del professionista d’aiuto
- IV. Per una pedagogia della relazione d’aiuto
- Bibliografia
- Indice dei nomi