All’inizio di Une femme est une femme (1961) di Jean-Luc Godard, dopo la sequenza dei titoli di testa Angela (Anna Karina) entra in un bar, dove chiede un “cafè crème, très blanc”; sorride divertita nel sentire un altro avventore che ordina invece un caffè verde; nell’attesa sceglie un disco nel juke-box, poi si accorge di essere in ritardo, così lascia a metà il suo caffè troppo caldo e, dopo aver fatto un occhiolino direttamente in camera, esce. La vediamo camminare agile per le vie di un quartiere parigino, inquadrata dall’alto. Supera rapida un’edicola che esibisce l’insegna “France Soir”, poi ci ripensa e torna indietro, varcandone la soglia e soffermandosi davanti allo scaffale delle Actualités. Poco distante, l’edicolante Emile (Jean-Claude Brialy) sta proponendo a due ragazzini dei libri di fiabe dalla copertina coloratissima, mentre Angela sfoglia distrattamente le pagine di una rivista per future mamme, “J’attends un enfant”. I due si guardano, lei si nasconde per un istante dietro le pagine di un’altra rivista, mentre lui, a fronte della proposta della Bella addormentata nel bosco, si sente chiedere dai due giovani acquirenti qualcosa di più sexy. Usciti i ragazzini, Angela ed Emile scambiano alcune battute da cui capiamo che sono una coppia reduce da un litigio, in realtà già risolto. Lei prende una cartolina e fa una considerazione malinconica, poi i due si congedano gioiosamente: Emile rimane a lavorare nell’edicola, mentre Angela raggiunge il locale di spogliarelli dove si esibisce cantando in un numero di striptease.
Une femme est une femme è il primo film a colori di Godard (e anche il suo primo film in presa diretta e in formato panoramico Cinemascope). Le numerose analisi non hanno certo mancato di sottolineare come si manifestino già qui, in nuce, i caratteri essenziali dell’uso del colore da parte del cineasta franco-svizzero, uno dei più grandi coloristi della storia del cinema, almeno nei cosiddetti “anni Karina” (dal 1960 al 1967): la scelta di tinte decise e primarie, preferibilmente la palette “patriottica” blu-bianco-rosso, distese in “plaghe di colore” piatte e squillanti1. Nell’incipit di questo film, infatti, Angela è un punto rosso che catalizza inevitabilmente l’attenzione fin dal suo ingresso in campo: un ombrello rosso fa capolino dall’estremità destra dell’inquadratura, e subito dopo le sue gambe fasciate in collant rossi sotto l’impermeabile bianco si muovono rapide sullo sfondo di uno spazio urbano dai toni spenti. Quando invece l’azione si sposta all’interno dell’edicola, in particolare nelle inquadrature che ritraggono Emile, il rapporto cromatico tra figura e sfondo tende a ribaltarsi: mentre Emile è pressoché “incolore”, grigio, marrone e blu, lo sfondo alle sue spalle richiama l’attenzione per il suo carattere variopinto. Sono le copertine di riviste, rotocalchi e magazine (distinguiamo chiaramente la copertina di “Le cinéma chez soi”, una rivista per cineamatori), di libri e di fumetti a sedurre inevitabilmente lo sguardo. Non torneremo più all’edicola nel seguito del film, ma richiami visivi a quegli stessi prodotti compariranno nell’appartamento di Emile e Angela: sulle pareti domestiche completamente spoglie, sono affisse – unici francobolli colorati in campo bianco – alcune copertine di “Sport et vie”. Non sono oggetti monocromi, come la lampada rossa, la bicicletta gialla o altri che ricorrono nel film, ma superfici policrome che Godard usa come “materia prima”, come “prelievi dal reale”2per dipingere il suo film, per scrivere sulla tela bianca dell’inquadratura. Come spesso avviene nel suo cinema, i colori infatti provengono anche dall’ambiente circostante, dai materiali visivi che lo circondano e che egli inserisce, innesta nelle sue pellicole in forma di citazioni “letterali”, di “readymade”: film, fumetti, pubblicità, opere d’arte già riprodotte per una circolazione di massa e, in particolare in Une femme est une femme, pagine di riviste e copertine di volumi distribuiti in edicola. Nonostante Godard sia certo riconosciuto come uno dei campioni della cosiddetta autonomia del colore, ovvero “l’ideale separazione della tinta dall’oggetto che la porta a manifestazione”3, in questi casi è invece fondamentale che quei colori siano ben “attaccati” a quegli oggetti – i prodotti editoriali della nuova modernità industriale – e a quel dispositivo di esibizione della merce che è l’edicola, luogo cardine – eppure ancora in parte inesplorato – per la propagazione sociale delle “nuove” immagini sintetiche e analogiche a colori.
Allo scopo di ricostruire una storia socio-culturale del passaggio al colore riprodotto nello scenario mediale e dei modi di usare le tecnologie del colore è infatti indispensabile prendere in considerazione la stampa periodica illustrata, in quanto si tratta di uno dei primi luoghi di circolazione di immagini – spesso senza nome e senza firma – a colori.
1. Un giardino fiorito
Se il film di Godard si è prestato per introdurre il campo d’indagine di questo capitolo, spostiamoci ora in Italia. Anche qui l’edicola si offre a partire dagli anni Trenta e con forza crescente tra gli anni Cinquanta e i Sessanta come un punto di osservazione strategico per il processo di rinnovamento visivo che stiamo provando a ricostruire, la potente sorgente d’innesco – a seconda dei casi – di un’esplosione cromatica ad ampio raggio oppure, più spesso, di una silenziosa e graduale infiltrazione del colore sul b/n. I rotocalchi, in particolare, già oggetto di molti studi, a partire dagli anni Trenta costituiscono uno dei prodotti di punta del consumo popolare e incidono profondamente sulla cultura visiva nazionale, rappresentando una miniera preziosa anche per rintracciare i segni della transizione a un nuovo regime cromatico4.
Anche nella scena di C’eravamo tanto amati (Ettore Scola, 1974) in cui si passa dal “passato” al “futuro”, quella dell’ellissi temporale che dall’Italia in b/n della ricostruzione postbellica traghetta i personaggi nel mondo a colori del boom economico, c’è un’edicola: tra i flani della “Gazzetta dello Sport” e di “Settimo giorno” si nasconde Gianni (Vittorio Gassman), che spia, non visto, la “cacciata” di Luciana (Stefania Sandrelli) dalla pensione Friuli, dove aveva tentato il suicidio per amor suo. Assistita da Antonio (Nino Manfredi) e da Nicola (Stefano Satta Flores), Luciana carica la valigia su una camionetta, che subito parte, sgombrando la piccola piazza da cui si dirama un quadrivio: Antonio e Nicola si allontanano in due direzioni diverse, e a quel punto anche Gianni lascia la sua postazione e si avvia per una terza via. Un lento movimento di macchina stringe sul centro della piazza, lasciando fuori campo l’edicola e fissandosi, come è noto, sul progressivo colorarsi del disegno a gessetti tracciato sul selciato da un madonnaro: a questo punto l’inquadratura vira senza soluzione di continuità dal b/n al colore. Dopo questa transizione, un brusco stacco di montaggio ci porta direttamente nel pieno dell’inaugurazione di un nuovo cantiere – parato con bandiere tricolori – del palazzinaro Romolo Catenacci (Aldo Fabrizi), di cui Gianni è ora diventato il genero. Non vediamo quindi più l’edicola, ma pure possiamo ben immaginare che il viraggio dall’acromia ai colori l’abbia investita con esiti particolarmente evidenti, tramutandola in una “vetrina” variopinta, in un “giardino fiorito fiammante” delle tinte e delle sfumature più diverse:
Altrettanto rituale come la nicchia costruita un tempo per ornamento e protezione di immagini sacre, l’edicola appare come la vetrina multicolore dove, oltre che con i quotidiani, soprattutto con settimanali, mensili, fumetti d’ogni genere, riviste specializzate, dispense, si dispiegano pubblicizzandosi modelli di comportamento e valori conformi alle condizioni e ai miti della società di massa. […] I fascicoli dalle copertine lucide e patinate, attraenti e invitanti nei colori morbidi o vivaci, spesso avvolti nel cellofan come merce troppo preziosa per poter essere toccata da chiunque, sono elementi di richiamo in mezzo ai grigi e ai neri dei quotidiani [corsivi miei].5
Anche Giovanni Fiorentino offre una descrizione molto vivida dell’aspetto di una tipica edicola nel corso degli anni Cinquanta in Italia, suggerendo una precisa gerarchia per quanto riguarda l’appeal visivo dei prodotti che vi vengono esposti:
Proviamo a guardare un’edicola in una città italiana degli anni Cinquanta, così come testimoniano le fotografie giornalistiche che ne documentano l’evoluzione […]. I quotidiani sono incolonnati in uno spazio circoscritto e concentrato: lo spazio principale – quindi il colpo d’occhio per tutti – è occupato in maniera predominante dalle prime pagine di settimanali illustrati, ai quali vengono affiancati i periodici femminili e i fotoromanzi, che presentano copertine dalle stesse caratteristiche visive, in un mosaico dove predominano i ritratti e, in alternativa, figurano mezzibusti, o coppie particolarmente note del mondo dello spettacolo.
Lo scarto tra il quotidiano e il periodico è prima di tutto nella centralità dell’immagine, nella discontinuità del fotocolore […]. E poi arriva all’occhio e tra le mani una qualità tattile oltre che visiva completamente diversa: la carta patinata e lucida della stampa a rotocalco [corsivo mio].6
Tra i pochi contributi che fanno cenno alla veste cromatica dei prodotti esposti e venduti nelle edicole, questi due estratti marcano una netta differenza, dal punto di vista dell’aspetto cromatico, tra stampa quotidiana e stampa settimanale: il colore sembra essere destinato soprattutto ai settimanali, mentre il quotidiano si lega ancora ai grigi e ai neri della stampa tipografica, e così le rare immagini che vi vengono stampate a corredo delle notizie.
Ma come si è arrivati a quell’assetto e quell’aspetto dell’edicola in Italia? Perché il colore sembra essere riservato ai settimanali? La risposta va cercata nella storia dell’industria culturale italiana: nel nostro Paese il quotidiano è un prodotto editoriale profondamente ancorato a una cultura elitaria. La stampa quotidiana si rivolge originariamente – agli albori della modernità industriale, nella seconda metà del XIX secolo – alla porzione minoritaria della popolazione in grado di leggere e ciò è evidente guardando alla forma estetica dei principali quotidiani nazionali, quali il “Corriere della Sera” (fondato a Milano nel 1876), “Il Secolo XIX” (fondato a Genova nel 1886), “Il Mattino” (fondato a Napoli nel 1892) o “La Stampa” (già “Gazzetta Piemontese”, fondato a Torino nel 1894): dal punto di vista della confezione, della veste grafica, il primato accordato alla parola è pressoché assoluto. A causa di una storica debolezza strutturale del settore (una domanda non in grado di controbilanciare l’offerta sul piano delle vendite), la maggior parte dei quotidiani italiani è inoltre sostenuta e sovvenzionata – fin dalle sue origini ottocentesche – dall’alta borghesia industriale e da alcune banche, di cui perciò esprime inevitabilmente gli interessi, e questi soggetti a loro volta sono in grado di esercitare pressioni sul mondo politico. La mutua dipendenza tra stampa, economia e politica ha così finito col rendere “fragile” e autoreferenziale il sistema dell’informazione giornalistica7.
In concomitanza con il processo di modernizzazione e di industrializzazione che investe la cultura italiana a cavallo tra XIX e XX secolo, tuttavia, anche la stampa quotidiana è interessata da alcune cruciali innovazioni sul piano linguistico, estetico e tecnologico, finalizzate a incrementarne la competitività e le tirature: dal punto di vista dei contenuti, nel tentativo di ampliare il proprio bacino di lettori pescando tra i ceti più popolari, vengono introdotte nuove rubriche (ad esempio di costume e spettacolo) e, soprattutto, alla produzione del giornale quotidiano le maggiori testate affiancano la pubblicazione di alcuni strategici supplementi settimanali. La grande novità di questi supplementi è il netto rilievo accordato all’immagine rispetto alla parola nel confezionamento dei contenuti. È questo il nuovo linguaggio che caratterizza una rivista come “La Domenica del Corriere”, il cui primo numero esce l’8 gennaio 1899 e la cui novità è consegnata in modo deciso proprio al colore:
Ciò che risulta lampante, confrontando il nuovo supplemento con l’affermato quotidiano, è la presenza vivace del colore, che non aveva precedenti negli altri giornali illustrati, ad eccezione de L’Illustrazione Italiana [settimanale fondato a Milano da Emilio Treves nel 1873], che aveva edita qualche cromolitografia fuori testo. Si trattava in realtà di sporadici diversivi alla linea iconografica abitualmente seguita dalle riviste, che impiegavano esclusivamente il bianco e nero. […]
In verità più che di illustrazioni a colori si sarebbe dovuto parlare di illustraz...