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Fenomenologia dell'impercezione - Logica del punto cieco, volume I
Malafede, farisaismo, falsa coscienza e denegazione in Maurice Merleau-Ponty
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Fenomenologia dell'impercezione - Logica del punto cieco, volume I
Malafede, farisaismo, falsa coscienza e denegazione in Maurice Merleau-Ponty
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Sebbene l'interrogazione fenomenologica dei presupposti fondamentali e sottaciuti della filosofia possa rappresentare per quest'ultima l'occasione di un progresso teorico radicale, la stessa fenomenologia si è fondata su delle presupposizioni che fungono da interdetto originario, un punto cieco sul quale per essa è impossibile ritornare con un'attitudine investigativa appropriata. Anzi, la fenomenologia funziona appunto in quanto nasconde a se stessa il principio della sua messa in pratica.
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Information
Topic
FilosofiaSubtopic
Storia e teoria della filosofiaI
LA PERCEZIONE
La visione, contesa dalla brulicante dispersione di volumi e profili che, rivaleggiando, se ne disputano l’interesse, rimuove il vedente a profitto del visibile – in una rimozione bastevole a che, «mentre percepisco […] il tavolo, io non possa cogliermi nell’atto di percepirlo»1. Io «vedo che là c’è il tavolo, e non una prospettiva o un’apparenza del tavolo»2. Non ci sono dei simulacra errabondi come gli εἴδωλα di Epicuro, effluvi di particelle vaganti che si staccano dagli oggetti acciocché, con la frapposizione di queste impalpabili pellicole, io recepisca di quegli oggetti medesimi le molte guise ed effigi. Tali mediazioni sancirebbero la vicendevole estraneità delle mie percezioni e delle cose percepite, ed enfatizzerebbero le attività anch’esse mediatrici degli organi sensoriali, nostri intercessori privilegiati con la realtà. Ma «perloppiù l’esistenza personale rimuove l’organismo»3. Una rimozione talmente inveterata da potersi chiamare «rimozione organica»4, per via del diretto coinvolgimento della corporeità in cui si radica: l’organismo funzionante, in salute, rimuove se stesso in quanto in salute. «Il corpo è Selbstvergessenheit, precisamente perché funziona»5. La salute non si conosce fintanto che è salute. È nella malattia o nell’usura dell’età che il corpo si segnala, con varie gradazioni d’invadenza, come ausiliario o mediatore tra me e gli oggetti: «io so soltanto che esso può impedirmi di percepire, che non posso percepire senza il suo permesso»6. Il corpo è il “ce sans quoi”, l’ἄνευ οὗ οὐκ della percezione. Ne divengo conscio non per quel che mi concede, ma per quello di cui mi priva. Perciò il suo funzionamento si rivela nella disfunzione, e quello della percezione nell’impercezione – o, a esser precisi, nella «negintuizione [négintuition]»7 dell’impercezione, col significato che ci apprestiamo a chiarire. «Poiché una ferita agli occhi è sufficiente a sopprimere la vista, ci accorgiamo di vedere attraverso il corpo. Poiché una malattia basta a modificare il mondo fenomenico, ci accorgiamo che il corpo è uno schermo [écran] tra noi e le cose»8. Noi non vediamo la vista, ma possiamo vedere per negintuizione la soppressione della vista. Perché si ha un acuirsi dell’esperienza della corporeità nelle sue privazioni? Valgono per la salute i verdetti che, onorando la logica del punto cieco, i filosofi consacrano d’abitudine alla felicità o all’innocenza: quando le possediamo, riserviamo loro la minor ponderazione, poiché vi siamo sprofondati, e per conoscerle dovremmo separarcene, smarrendole. «Noi non sappiamo quel che siamo se non dopo averlo perduto»9. La notizia della felicità non ci raggiunge da felici, ma quando rimpiangiamo di non esserlo. Non ci si sa innocenti, essendolo, e ci si sa innocenti colpevolmente.
Per questo «la coscienza ingenua non immagina che il corpo o le ‘rappresentazioni’ mentali siano come uno schermo [écran] tra sé e la realtà»10. E tuttavia «non c’è visione senza schermo [écran]»11, in quanto l’occhio, che è il mezzo per vedere, è anche d’intoppo al vedere. «La luce non rischiarerebbe niente se niente le facesse da schermo [écran]»12, e l’occhio, che pure s’abbevera ad essa, l’abbuia, filtrandola nella propria camera oscura. Però quello schermo, normalmente, è schermo a se stesso, e «abbiamo visto come riesca naturale [naturel] alla coscienza ignorarsi, proprio perché è coscienza delle cose». Anche nella riduzione fenomenologica, che è «inversione del movimento naturale [naturel] della coscienza», dove la percezione è costituzione del mondo, la percezione «accede alle cose stesse» e, nuovamente, come nella coscienza ingenua, «percepisco le cose direttamente senza che il mio corpo faccia da schermo [écran] fra loro e me»13. Ora, «ognuno vede esclusivamente secondo il suo punto di vista», ma quel che non vede è il suo punto di vista, e «la sua situazione, il suo corpo, i suoi pensieri non fanno da schermo [écran] tra lui e il mondo»14, né nell’atteggiamento naturale né in quello fenomenologicamente ridotto. L’emancipazione dall’ingenuità persistente nella fenomenologia avverrà allora non tanto con una riflessione che è appercezione, percezione di grado superiore, o intuizione dell’intuizione, quanto con l’intuizione della privazione dell’intuizione, appropriatamente chiamata da Merleau-Ponty “negintuizione”. Se «‘l’intuizione dell’intuizione’», per parlare come il giovane Hegel, è «riflessione»15, la negintuizione, come intuizione dell’assenza di intuizione, è riflessione sull’assenza di riflessione, «riflessione-su-un-irriflesso [réflexion-sur-un-irréflechi]»16, oppure una «superriflessione [surréflexion]»17.
Concordemente alla logica del punto cieco, lo schermo che è il corpo è schermato a se medesimo, e «la visione […] si cela a se stessa nella cosa vista»18. Per questo la visione non poteva dotarsi del cogito, oppure proporsi quale «una certa modalità del pensiero, o presenza a sé». Essa sarà invece «il mezzo che mi è dato per essere assente da me stesso»19. Enunciato lapidario, quello appena citato – giocato qual è in schietta contrapposizione alla tradizione illustre e secolare che concepisce «l’anima come un essere completamente presente a se stesso senza distanza»20. Lo sguardo possiederebbe dunque la virtù miracolosa di «aprire all’anima ciò che non è anima»21. Ma l’occhio e lo spirito sono antitetici come Merleau-Ponty, a una scorsa sommaria, darebbe a intendere? “Presenza a sé” e “assenza da sé” sono opponibili quali determinazioni antagoniste, divaricate da una perpetua inimicizia, o il loro è un dualismo pretestuoso, stipulato per convenienze espositive?
La scelta fra trascendenza (assenza da sé) e immanenza (presenza a sé) è riassumibile sarcasticamente in un grottesco dilemma: o l’anima, fuoriuscendo dalle pupille, va a bighellonare tra le cose, intrattenendosi presso di loro, o le cose passano nell’anima, traslocandovi di peso. La coscienza si reca a passeggio gironzolando fra i suoi oggetti, oppure ne è traversata e se ne lascia ingombrare22. La fenomenologia, però, non deve scegliere. Le contese tra realismo e idealismo, empirismo e intellettualismo, o materialismo e mentalismo, si bilanciano nell’“equilibrio” di una medietà suprema: come i dicibili (λεκτά) degli Stoici non risiedono né nelle parole, né negli oggetti cui esse si riferiscono, ma sono l’esser detti dei secondi da parte delle prime, i noemi (νοήματα) di Husserl non sono né nell’intelletto, né nella cosa, ma sono l’essere avuto intenzionalmente di mira dell’una da parte dell’altro.
Se l’oggetto intenzionale percettivo o noema di percezione si dimostra un superbo compromesso tra i dualismi succitati, e il negoziato fenomenologico va a buon fine, è perché il noema esibisce prospetticamente la cosa stessa – fatta eccezione per la sua esistenza. Che ciò comporti una minorazione o un annichilamento della cosa, è un timore ingiustificato. Nella riduzione fenomenologica, noi aboliamo l’essere del mondo. Allora, si avanzerà un prevedibile reclamo: tolta al mondo l’esistenza, del mondo stesso, nella sua straripante e inesauribile opulenza, che mai può rimanere? Tutto. E senza la più piccola modifica. Non c’è bisogno che il mondo esista affinché esso sia fenomenologicamente come è. A torto si sosterrebbe che, avendo negato l’esistenza di una cosa, se ne siano negati insieme tutti i suoi predicati, perché con questo non si è resa quella cosa contraddittoria o impossibile. Chiedere di pensare al mondo, ma senza la sua esistenza, non è come chiedere di pensare a un triangolo, ma senza i suoi tre angoli. Il triangolo privato dei tre angoli si annienta, ma il mondo privato dell’esistenza no. L’ipotetica soppressione dell’esistenza di una cosa non è la soppressione della cosa. La riduzione fenomenologica sconfessa l’analiticità dell’esistenza, per la quale, togliendo il Sein al Sosein, il that al what, togliamo anche...
Table of contents
- Copertina
- Circa l’autore
- Frontespizio
- Copyright
- Indice
- Introduzione
- I. La percezione
- II. Il linguaggio
- III. Il pensiero
- Bibliografia