II
IL SILENZIO DEL MONACO BUDDHISTA
Se, come afferma Dōgen Kigen (1200-1253), il grande maestro dello Zen capostipite della scuola Sōtō in Giappone, “pratica e realizzazione sono una sola e stessa cosa” (shushō ichinyo 修証一如), ovvero pratica e risultato coincidono dal momento che la pratica è già manifestazione del risultato della pratica stessa, occorre avvicinarci più nello specifico alla pratica del monaco che cammina sulla Via del Buddha per ascoltare le declinazioni pratiche del “nobile silenzio”. Ancora una volta, lo facciamo attraverso la lettura di alcuni passaggi di testi importanti, fondativi, a cominciare dal seguente:
Se un individuo, che pur ha abbandonato la casa per condurre la vita ascetica senza dimora, risulta però verboso, compiacente alla violenza, animalesco [cioè privo di riserbo e rimorso], allora la vita di costui diviene viepiù miserabile e accresce la sua impurità.1
Fin da questa prima citazione è chiaro che gli accenni al silenzio nella letteratura canonica del buddhismo antico (il cosiddetto Theravāda, la “dottrina degli anziani”) sono nella forma di aforismi, e il silenzio non è fatto oggetto di una tematizzazione esplicita, come già scrivevo all’inizio, né di una trattazione sistematica. Tuttavia è frequente nei testi canonici in lingua pāli trovare l’espressione “amanti del silenzio (appasadda)”, per descrivere sia il Buddha sia i monaci suoi seguaci, e alcuni passi ritraggono i discepoli del Sublime proprio come tali amanti della quiete:
Questi onorevoli signori [cioè i discepoli di Buddha] sono amanti del silenzio, abituati al silenzio, lodatori del silenzio. […] Questi sublimi vissero al margine di profonde foreste, furono di poche parole, di poche sentenze, circondati da solitudine, indisturbati dagli uomini, ammirati per la loro solitudine.2
Sandaka il pellegrino vide venire da lungi l’onorevole Ānanda e, avendolo visto, ammonì la propria comitiva: “Siate meno chiassosi, amici; non fate chiasso, amici! Ecco che viene un discepolo dell’asceta Gotama [Gautama], l’asceta Ānanda. Ora, di quei discepoli dell’asceta Gotama che si trattengono in Kosambī [Kausāmbī], uno è anche questo, l’asceta Ānanda. Questi onorevoli però non amano il chiasso, sono educati alla quiete, lodano la quiete: può darsi che, vedendo un’assemblea tranquilla, egli pensi di venire qui”. Quindi quei pellegrini stettero zitti.3
Inoltre, il silenzio del bhikṣu (mendicante itinerante, cioè il monaco buddhista) e della bhikṣuṇī (monaca buddhista) è una disciplina relativa al perseguimento di altro più importante, o al buon utilizzo di una o dell’altra delle facoltà dell’uomo. Come vedremo, il silenzio è raccomandato, sì, ma a volte non è fine a se stesso. Il silenzio conduce alle soglie del vuoto.
Nel Vinayapiṭaka, la sezione del canone buddhista che concerne il vinaya, cioè la “disciplina” ovvero le regole monastiche, ci sono dieci precetti la cui trasgressione comporta l’espulsione dalla comunità, ma tra queste non figura un’eventuale trasgressione ripetuta del silenzio. Nemmeno nelle regole del Prātimokṣa (227 per i monaci e 251 per le monache), contenute nella prima parte del Vinayapiṭaka e che hanno costituito nella storia le regole monastiche di riferimento per molte comunità buddhiste, sono presenti eventuali riferimenti espliciti a una vera e propria disciplina del silenzio. Si segnalano piuttosto diversi richiami circa la qualità della parola, bandendo un linguaggio offensivo nei confronti dei singoli fratelli e nocivo per l’armonia della comunità. A proposito del comportamento da tenere durante l’uscita dal monastero per la questua, le regole raccomandano un comportamento implicitamente silenzioso, cioè discreto esteriormente e interiormente: occhi bassi, non discorsi ad alta voce o risa, mente attenta.
L’unica menzione specifica della pratica del silenzio all’interno del Vinayapiṭaka presenta il Buddha che addirittura rimprovera i discepoli per aver scelto il silenzio come pratica durante un ritiro nella stagione delle piogge (vassa), rimprovero mosso sulla base di una duplice motivazione: così facendo, i suoi monaci imitavano impropriamente altri asceti contemporanei e, soprattutto, non adempievano una pratica che comportava l’uso della parola per l’edificazione vicendevole, la cerimonia chiamata pavāranā, in cui ciascun monaco, al termine del ritiro, invita gli altri monaci a confessare se lo ritengono colpevole di qualche trasgressione4.
Leggiamo un altro antico discorso, utile per introdurci alle diverse dimensioni del silenzio del bhikṣu:
Il monaco, dopo aver ricevuto – nel momento
conveniente – il cibo offerto in elemosina
ed essere tornato in solitudine, sieda appartato.
Ponendo mente a fattori interiori,
egli deve evitare che la sua mente si rivolga all’esterno,
essendosi ben raccolto.
Se poi costui si trovasse a conversare con un discepolo,
con una qualsiasi altra persona o con un monaco,
parli egli del sommo Dhamma (Dharma),
non calunniando né biasimando alcuno.5
Mi pare che in questo testo troviamo sintetizzate tutte le declinazioni del silenzio nel contesto della prassi monastica buddhista, e di cui offriremo una breve descrizione qui di seguito: il silenzio come dimensione della vita di rinuncia e di distacco (espresso in questi versi dall’itineranza motivata dall’elemosina), il silenzio di colui che siede in solitudine ovvero il silenzio interiore della mente non dispersa, concentrata, accuratamente raccolta in sé, e il silenzio come discernimento della parola.
Silenzio e rinuncia
Il silenzio del monaco buddhista rientra nella dottrina dell’anātman (non sé), del radicale abbandono di sé, una forma in cui si traduce anche quel radicale abbandono della famiglia che Buddha e i suoi discepoli scelsero come via che conduce alla liberazione. Il monaco, dunque, è essenzialmente colui che rinuncia alla famiglia, alla vita sociale, e nel distacco dal mondo cerca la liberazione dall’attaccamento ad essi e al proprio io, attaccamento riconosciuto dal buddhismo come la fonte del dolore. La Via buddhista, e dunque il cammino del monaco e della monaca che percorrono questa Via, è essenzialmente il cammino del distacco: “distacco da ogni cosa, perfino dai pensieri, dalle immagini, dalle speranze e paure. Infine, bisogna distaccarsi da se stesso. Il cammino del distacco condurrà a un grande silenzio interiore che genera una integrazione psichica straordinaria, per mezzo della quale si potrebbe raggiungere una vera saggezza”6.
Questa dimensione di rinuncia era già ben chiara nell’ascetismo induista, nel cui alveo nasce il monachesimo buddhista: il silenzio è uno dei principali precetti a cui deve attenersi il saṃnyāsin, il “rinunciante” indù, che non a caso è spesso qualificato come muni, “asceta silenzioso”7. Come il Buddha è descritto nelle fonti antiche come un “abituato al silenzio”, un “amante della quiete”, eccetera, così l’intero suo messaggio mira a rendere silenziosi, a mettere a tacere i desideri, gli attaccamenti, la “sete” o “brama” di esistenza, secondo il linguaggio buddhista. Così infatti afferma la seconda nobile ...