I nuovi luoghi di ritrovo
Collegati in video via skype con tua figlia quando è lontana, ma posa lo smartphone e guardala negli occhi se è nella tua stessa stanza.
Howard Rheingold (Perché la rete ci rende intelligenti)
Bar sotto casa, edicole (la Gazzetta dello Sport come scusa per commentare e confrontarsi con altri lettori tutti presi nel loro ruolo di allenatori), caffè, pizzerie, piazze e birrerie per anni hanno risposto a bisogni reali, uno su tutti quello urgente e immediato di contatto. Un bisogno descritto in modo esemplare dall’etnologo francese Marc Augè nel suo libro “Un etnologo al bistrot” (edito in Italia da Cortina Editore): “”…è sufficiente frequentare al mattino qualche [bistrot] o brasserie parigina per rendersi conto che i tanti che vi si attardano al banco, fin dalle prime ore, vengono a cercare innanzitutto un po’ di compagnia […] e il cameriere lo sa bene”, interagendo con loro in allegria, con cordialità e gentilezza. Il cameriere attento, anche se cinese, sa quanto sia grande e urgente il bisogno di gesti gentili, di sguardi amichevoli e di compagnia, degli avventori del suo bar. Li conosce uno a uno, sa se e quanti torneranno soli soletti a casa o si immergeranno nel traffico cittadino, per raggiungere un posto di lavoro o per accompagnare i figli a scuola. Il cameriere agisce dietro un bancone, centro di gravità, scrive Augè, di ogni bar o bistrot. Un bancone solido, di acciaio, ciclopico, ma anche lo spazio pubblico e sociale nel quale prendono vita conversazioni che spesso non hanno bisogno di parole per essere efficaci, piacevoli, gentili o coinvolgenti.
Oggi molti di questi luoghi sono scomparsi o hanno perso la rilevanza passata. Nei bar i banconi sono diventati prue di navi senza equipaggio o si sono liquefatti nei display colorati di una miriade di smartphone e nelle loro rappresentazioni iconiche e metaforiche dentro i social network. Le edicole sono in via di estinzione perché quasi nessuno, sicuramente non i più giovani Nativi Digitali e tantomeno i pentastellati, legge più il quotidiano cartaceo. I caffè sotto casa sono sempre pieni ma di persone intente a chattare e messaggiare, prima ancora che ad alimentarsi o a relazionarsi (per averne un esempio basta mettersi in fila per entrare nel nuovo Starbukcs di Milano, utile anche per interrogarsi su quali siano le motivazioni a farlo visto che dovremmo essere orgogliosi di essere la patria del caffè oltre che di Illy e Lavazza). Le pizzerie, insieme ai ristoranti, sono spesso luoghi rumorosi, non per le chiacchiere e le conversazioni ma per la presenza di grandi schermi televisivi che trasmettono partite, grandi fratelli e amenità simili, ma anche per il ronzio statico di dispositivi sempre in uso ai tavoli, spesso usati come baby-sitter per bambini di ogni età. Infine i Bistrot francesi così come molti bar italiani sembrano diventati case di riposo e di sollievo per persone anziane che non demordono dalle loro abitudini, perché oneste nel riconoscere il proprio bisogno di socialità unitamente alla necessità di rompere il senso di solitudine esistenziale in cui spesso si trovano a vivere. Anche per non essere state capaci di aggiornarsi tecnologicamente, dotandosi di nuovi strumenti come uno smartphone.
Tutti i luoghi appena menzionati sono stati sostituiti da luoghi nuovi, liquidi, senza territorio e senza tempo ma globalizzati (l’intero pianeta disponibile all’istante), virtuali e digitali. Affermatisi con nomi diversi come Facebook, Twitter, Instagram, Pinterest, Linkedin, WhatsApp, ecc. sono tutti meta incessante di un pellegrinaggio costante e quotidiano (in media si accede a uno spazio digitale 250 volte al giorno e si interagisce con il tatto con la superficie di un display fino a quasi 3000 volte). I nuovi luoghi, che quasi tutti si trovano a frequentare (i possessori di uno smartphone sono più di due miliardi) hanno le loro convenzioni e forme rituali di socialità. Rispondono in modo perfetto al bisogno diffuso e umano di sentirsi parte di una comunità, anche se con i suoi membri si hanno solo relazioni superficiali e conversazioni in forma breve di cinguettio o SMS. Svegliarsi con un messaggino WhatsApp è diventato utile tanto quanto il buongiorno del cameriere al bar o la chiamata sorridente della mamma o del partner per la colazione pronta. Più che il contenuto conta il pensiero, il gesto e l’invio.
Le chiacchiere da bar che hanno dimostrato la loro rilevanza politica in anni passati, oggi sono conversazioni virtuali la cui valenza politica è diventata esponenzialmente più grande. La loro rilevanza è grande anche nello sviluppo di relazioni umane che oggi trovano forme diverse e potenzialmente più ricche di espressione in universi paralleli vissuti tutti come reali. È in questi mondi che si va alla ricerca di rapporti superficiali ed è in questi mondi che si sperimenta in tutta la sua urgenza e necessità il bisogno di andare oltre la superficie, soprattutto di quella delle parole.
La fuga dai nuovi mondi virtuali non è una scelta facilmente perseguibile, tanto siamo immersi in realtà che ci hanno incantato e intrappolato anche con la nostra complicità. Inutile anche scegliere il ritiro e l’isolamento in un mondo reale che ha ormai cambiato la sua realtà, ibridata tecnologicamente e pensata per impedire qualsiasi uscita dal mondo (basti pensare a sensori, droni, videocamere, ecc.). Gli stiliti moderni che decidono di disconnettersi e non farsi trovare, sono anacoreti malinconici, alla ricerca di spiritualità e interiorità, che con la meditazione e la contemplazione sperano di ritrovare la serenità e il silenzio perduti, con il rischio di ritrovarsi ancora più soli per le minori opportunità di incontro, confronto e dialogo. Ma anche di non contribuire a soddisfare (partecipare, espressione di grande gentilezza) al bisogno grande di contatto, scambio, conversazione che si manifesta là dove le persone si sono oggi insediate e stanno abitando.
I nuovi luoghi abitati della Rete sono luoghi nonluoghi, assimilabili a quelli descritti da Marc Augè nel suo libro Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità. Nonluoghi come gli shopping center, le stazioni ferroviarie e gli aeroporti, le grandi catene alberghiere e le vie dello shopping. Luoghi tutti contraddistinti dall’anonimato (inteso come identità nascoste, anche multiple, ma sempre provvisorie e anonimizzate, anche attraverso un profilo digitale – “in rete nessuno sa che sei un cane!”), sempre più popolati da una massa indefinita di individui e da moltitudini (insieme di singolarità) di persone tra loro simili ma sempre più isolate e sole. Sono abitati per molto tempo ma senza trasformarsi in residenza fissa (sul tema suggeriamo la lettura del bellissmo libro di Josè Saramago La caverna). L’anonimato che li caratterizza è paradossalmente negato dalla necessità di poter fornire una propria identità in forma di Carta di Fedeltà o VIP, profilo digitale o identità online, passaporto o carta di credito.
Valorizzando la componente di nonluogo dei social network nell’accezione di Augè, è possibile comprendere ciò che li caratterizza come nuovi spazi di ritrovo sociale in termini antropologici e sociali. Dotato di strumenti che lo pongono costantemente in contatto con le molteplici realtà dei mondi frequentati, l’uomo digitale che li abita è decentrato rispetto a sé stesso e sempre più spesso impegnato in attività individuali che lo allontanano dai luoghi fisici abituali e dalle loro coordinate spazio-temporali, ma anche cognitive ed emotive. Anche se Augè ricorda che nonluoghi e luoghi non esistono in assoluto, ma solo nella simbolizzazione che ne viene fatta, è pur sempre possibile osservarli direttamente per evidenziare come vengono abitati e vissuti così come per evidenziarne le diversità e specificità.
Il luogo è legato alla tradizione, il nonluogo alla società e rappresenta l’epoca corrente, non è un caso che secondo Augè; “i social network sono la quintessenza dei nonluoghi”. Luoghi caratterizzati dalla precarietà, dall’instabilità, dalla solitudine, dal semplice attraversamento e passaggio e dall’individualismo, luoghi che però determinano a loro modo la relazione, seppure con personalità virtuali che possono essere semplici espressione dell’inconscio o di desiderio, e che in alcuni casi sono farlocche e menzognere. A differenziare il nonluogo fisico, ad esempio un centro commerciale, da uno virtuale è la socialità teorica di quest’ultimo resa possibile dalla interconnessione della rete dei contatti. Una socialità che però esclude il corpo, lo sguardo e il tatto, si esprime fondamentalmente a parole, attraverso simboli e icone, oggetti grafici usati per rappresentare le emozioni e cascate ininterrotte di interazioni comunicazionali. Questa socialità è vista da molti come spazio di opportunità e di uguaglianza nella quale tutti sono costruttori di senso, attori partecipi e protagonisti di una intelligenza collettiva (Pierre Levy) o connettiva (Derrick DeKerckove). Per altri al contrario, nonostante le molte informazioni disponibili e le opportunità di conoscenza, questi spazi stanno favorendo l’ignoranza collettiva, compresa quella del linguaggio, della relazione e delle emozioni.
Chi condivide il pensiero di Levy e di De Kerckove sottolinea il fatto che grazie alle nuove tecnologie aumentano le relazioni tra la gente. Secondo Levy “Il telefono è stato inventato contemporaneamente all’automobile, e non ha rimpiazzato il trasporto fisico. Quanto più si è sviluppato il telefono, tanto più si è sviluppata la macchina.” Al contrario chi guarda alle nuove tecnologie come potenziali strumenti di ignoranza collettiva e perdita di conoscenza, come Paul Virilio (il suo pensiero è molto articolato, qui ne operiamo una forzatura e semplificazione), nega che Internet sia un mezzo di comunicazione come un altro, che sia realmente capace di aumentare contatti, connessioni e scambi di ogni genere. E mette in guardia contro l’avvento di una umanità sottomessa all’autoritarismo e alla pervasività della tecnologia. L’attenzione è quasi sempre rivolta all’informazione come elemento costitutivo dei nuovi mondi tecnologici, molto meno agli effetti che essi stanno avendo sulla vita delle persone e sugli incidenti che ne possono derivare. Ad esempio nel prevalere del segno e della visibilità sulla sostanza, nel gioco mediatico continuo nel quale si è coinvolti e complici, nella perdita di capacità relazionali emotive, fisiche, affettive e umane (se si sposa la velocità e l’istantaneità della tecnologia si dimentica il significato della lentezza che caratterizza molte relazioni umane).
I nuovi luoghi nonluoghi dei social network sono spazi della trasparenza assoluta (Byung-Chul Han – La società della trasparenza) nei quali tutti pensano di essere uguali, anche se uguali non sono. Spazi nei quali, denudandosi, si regala interamente sé stessi ai proprietari delle piattaforme che le offrono in forma gratuita, ma con l’obiettivo di raccogliere dati e informazioni utili ai loro obiettivi commerciali e di profitto. È una trasparenza che cambia molte delle esperienze umane, processi sociali e relazioni. Le cambia perché uccide tutto ciò che nella vita reale, proprio per non essere trasparente, è alla base delle relazioni vere che si intrattengono con sé stessi (chi è veramente trasparente a sé stesso?) e con gli altri (molte relazioni vivono principalmente sul non detto, sull’ambiguità e sulla non trasparenza).
La trasparenza assoluta uccide la sorpresa, la curiosità, l’attrattività, l’approfondimento, il pathos che sempre accompagna la ricerca nella relazione di qualcosa di nuovo, l’ebbrezza che si sperimenta nel ridurre le distanze che separano due persone fisiche tra loro, portandole dallo sguardo erotizzante degli occhi, all’innamoramento e all’amore. L’eccessiva trasparenza impedisce anche la gentilezza che nasce e tiene conto di ciò che non appare e non è esposto al pubblico. Dal bisogno di riservatezza e pudore, dal piacere di uscire fuori dal cono di luce per godere dell’intimità delle zone d’ombra, poco illuminate e che obbligano alla lentezza e ad andare a tentoni.
I nuovi luoghi sociali dei social network e della rete hanno la forma di un unico grande acquario universale. Un acquario ingannatore per la sua trasparenza ma dal perimetro rigido e definito che ha assunto la forma del globo terrestre. Per le sue dimensioni ci lascia credere di vivere liberamente in spazi autonomi, profondi e completamente liberi. Un unico grande acquario dalla forma sferica, senza divisioni interne ma anche senza alcun esterno (tutto vi è compreso), vista la sua globalità e pervasività spaziale. I pesci-utenti (pesci-utonti) che lo popolano non sono fatti per vivere rinchiusi ma l’abitudine a esserlo li ha cambiati dentro, facendo perdere loro la nozione di dove si trovano e condizionando la loro percezione di felicità, di amore e di libertà.
Nel globo-acquario tutti sono interconnessi, si connettono e comunicano tra di loro, collaborano alla realizzazione di comunità e reti di contatti e così facendo esercitano un controllo che nasce dal bisogno individuale di trovare risposte alle proprie angosce e solitudini, attraverso la frequentazione e la rappresentazione di sé stessi in Rete. Alla costante ricerca del significato della propria vita, grazie alla disponibilità dei nuovi mezzi digitali, si cercano risposte esponendo se stessi online, abbandonando la propria sfera privata e intima, esponendola senza pudore alla vista di tutti. La socialità del mondo-acquario non serve a far crescere fiducia e a rafforzare relazioni ma a ottimizzare rapporti di produzione nei quali l’utente consumatore è destinatario-vittima costante di messaggi e inviti a consumare e acquistare nuovi beni di consumo.
Gli internauti stanno perdendo memoria e conoscono sempre meno il mondo che li circonda, al di fuori dell’acquario in cui vivono. Per vedere oltre dovrebbero diventare coscienti dei confini rigidi, vitrei e falsamente trasparenti del contenitore in cui sono immersi, decidere di romperli per immergersi nella realtà vera e fattuale, in modo da acquistare maggiore consapevolezza del proprio Sé, del proprio essere umani, delle contraddizioni che li caratterizzano persistendo nella ricerca della propria personalità e individualità. La motivazione a rompere il vetro dell’acquario non nasce dalla volontà di fuga, ma dal desiderio di conoscenza, dalla tensione etica che caratterizza la ricerca di senso e di verità. È un desiderio che non si manifesta spontaneamente perché conoscere implica un processo di indagine faticoso, che richiede tempo, tanta curiosità, grandi disponibilità e volontà a mettersi in discussione, ponendosi domande le cui risposte potrebbero anche non piacere.
Le tecnologie usate sono diventate così pervasive da caratterizzare tutti gli ambiti esperienziali e condizionare pratiche e modi di pensare, individuali e collettivi. L’esperienza tecnologica può portare alla passività, alla delega e alla complicità oppure suggerire l’osservazione attenta, l’apprendimento continuo, la riflessione, il riconoscimento delle proprie vulnerabilità, lo sguardo critico ed eccentrico, la sperimentazione di processi decisionali attivi con scelte non scontate e poco conformiste. Il primo passo è prendere coscienza della falsità di molte narrazioni agiografiche e mitologiche che celebrano le nuove tecnologie dell’informazione come strumenti di conoscenza, libertari e liberi. La riflessione deve avere come oggetto sia gli spazi e i contesti frequentati dei social network, della Rete e delle applicazioni Mobile, sia sé stessi nella forma dei vari avatar e alter ego digitali con cui si fa esperienza dei numerosi multiversi digitali.
Riflettere sulla propria realtà è ciò che distingue gli umani dagli altri esseri animali ma è una pratica che, quando non è esercitata, può essere dimenticata (si è anche dimenticato che a scoprire l’America sono stati i Vichinghi, forse i Cartaginesi). Perdere la capacità di ragionare e riflettere può essere l’effetto del controllo degli apparati tecnologici sui mondi digitali e dell’addomesticamento della componente cognitiva ed emotiva di chi li frequenta. Un addomesticamento che induce assuefazione, abitudine e aderenza acritica a modelli comportamentali, modi di pensare e stili di vita.
Il passaggio critico porta a un uso leggero, consapevole, felice e liberato della tecnologia. Un uso non edulcorato dall’imperativo della felicità che l’industria tecnologica sta diffondendo a piene mani, giocando sulle emozioni umane come risorse da conquistare e colonizzare. Un utilizzo non più condizionato dalla immediatezza e dalla ricerca della felicità e del benessere personale a tutti i costi, ma governato dalla lentezza e dall’approfondimento, dall’incertezza e da una felicità legata alle condizioni materiali. Un uso meno vincolato alla comunicazione continua dello smartphone e più attento alla sua pragmatica. Una pratica tecnologica meno coinvolta nella socialità solitaria e in assenza di interlocutori reali dei social network ma con maggiori contatti affettivi al di fuori degli acquari tecnologici in cui si è immersi. Una esperienza relazionale nella quale possano trovarvi residenza la gentilezza, la cortesia e la cordialità.
Un utilizzo diverso della tecnologia deve fare i conti con tutte le sue manifestazioni. Deve avere l’obiettivo di svelarne contraddizioni e falsità, comprenderne la natura e la cultura dominante. Il raggiungimento della meta finale e la strategia vincente per raggiungerla consistono nel ricorrere alle potenzialità insite nella plasticità del cervello umano che, se opportunamente stimolato e alimentato (curiosità e saggezza), ha la capacità di facilitare il cambiamento, condizionando pensiero, azioni e comportamenti. Un cervello plastico e stimolato opererebbe come il paracadute che funziona meglio quando è aperto. Lanciarsi affidandosi a questo paracadute non solo è possibile ma porterebbe, non solo metaforicamente, lontani dal liquido amniotico dell’acquario digitale, proiettando verso universi mondi più umani, anche nel loro essere tec...