Racconti calabresi
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Racconti calabresi

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Pubblicati nel 1881, i Racconti calabresi - d'ispirazione verghiana - dello scrittore cosentino Nicola Misasi danno voce alla cultura e all'anima calabrese di fine Ottocento, dotati come sono di fluidità di scrittura e di affabulazione coinvolgente. Benedetto Croce ebbe a scrivere che Nicola Misasi «narrava bene, con quella particolarità ed evidenza che nasce dall'adesione dell'anima alle cose narrate». In questa edizione il testo è stato prudentemente revisionato e attualizzato nella forma.

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Lo stendardo di San Rocco

In verità non aveva torto chi diceva, che Stella, la figliola di Massaro Giovanni, era la più bella ragazza del villaggio; mai sotto tovagliola di tela si era delineato volto più leggiadro, avevano sorriso labbra più rosse, avevano raggiato occhi più neri; mai corpetto azzurro di contadina aveva stretto seno più tornito e vita più snella, e mai gonna rossa a mille pieghe aveva nascosto forme più ben fatte. E non era soltanto la più bella, ma anche la più ricca ragazza da marito, e molti galantuomini che vestivano giamberga non avevano di patrimonio quanto ella aveva di collane, di orecchini, di anella. Massaro Giovanni, ricco come era, non aveva smesso i calzoni corti, la giacca di fustagno e le grosse scarpe dalle suole ferrate, ed era rimasto pur sempre contadino nel lavoro, nell’abitudine e nella parsimonia. Però non aveva voluto che la figliola andasse a lavorare nei campi, a sarchiare, a mietere, a battere il grano, o a raccogliere le castagne; sicché era cresciuta con un non so che di signorile nella persona delicata, e il cibo abbondante, le vesti calde e l’agiatezza della casa paterna avevano contribuito a fare di lei la più vezzosa fanciulla del villaggio.
E perché bella e anche perché ricca, molti mosconi le ronzavano intorno. La notte, nella stradicciola sotto le finestre di lei, era un continuo strimpellare di chitarre, un continuo vociare di canzoni: si diceva financo che il figliolo del sindaco ne fosse matto, ma a chi gliene tenne parola massaro Giovanni aveva risposto: — Meglio pancia piena e tovagliola di tela, che stomaco digiuno e cappellino di velluto.
Ed alludeva, in dire ciò, alle cattive condizioni finanziarie del sindaco, le cui figliole spendevano e spandevano in abiti, in nastri, in fronzoli e in cappellini, mentre per più giorni dell’anno la pentola non bolliva sul focolare; e a chi gli veniva consigliando di pensare al lustro che a lui, contadino, sarebbe venuto da un parentado con signori, massaro Giovanni rispondeva: — Il marito di mia figlia deve avere polsi da domare un toro e schiena da sollevare un carro. Io son massaro e mia figlia ha da sposare un massaro. Del resto il marito glie l’ho bell’e trovato, è inutile consumare più oltre i ciottoli della via e assordare l’aria con canzoni. Ci vogliono altro che canzoni per beccarsi la dote e la figliola!
E infatti, ci aveva pensato al marito. Un suo cugino, ricco quanto lui, e più di lui forse, per una eredità di fresco conseguita, aveva un figliolo, tornato da poco dall’esercito ove aveva servito nei bersaglieri e si era congedato col grado di caporale. Quando tornò al villaggio col suo berretto rosso, col suo abito azzurro cupo, attillato alla persona robusta e ben fatta, con le mostre rosse sulle maniche, con quei due baffettini a punta e quell’aria di saputo e quel piglio altero un po’ sprezzante, attenuato da un sorriso di affettuosa protezione, ben presto divenne il giovinetto più ammirato dalle ragazze, per la sua bella e forte figura di bersagliere, cui accrescevano grazia la disinvoltura di modi e di linguaggio, e quel suo accento forestiero quando diceva: “Ciao, bimbe” tra una boccata e l’altra di fumo del suo lungo virginia; dai giovani, perché egli ne sapeva tante, ne contava tante ed era forte come un toro e destro come un giocoliere. Un giorno nella piazzetta innanzi la chiesa, aveva dato un saggio di ginnastica e di scherma col bastone, e i contadini erano rimasti a bocca aperta nel vederlo correre, arrampicarsi, saltare, che pareva, come essi dicevano un gatto indiavolato; fare mulinelli, calare giù colpi, fare finte, accucciarsi, distendersi con tanta grazia e con tanto vigore; sicché, quando si seppe che la figliola di massaro Giovanni era fidanzata a Peppino il bersagliere, nessuno trovò a ridire, e i più ostinati a consumare i ciottoli della via e ad assordare, la notte, l’aria con canzoni, smisero dalle loro pretese, tanto più che Peppino il bersagliere aveva pugni solidi ed era tacco da farsi rispettare.
Però, fra i giovani del villaggio, uno, un tal Ligiuzzo, boscaiolo, pareva covasse un odio sordo contro il bersagliere. I motivi, si pettegolava nel paesello, erano due: uno palese, l’altro, il vero, nascosto. Ligiuzzo e Peppino erano un po’ parenti e tutti e due i nipoti di un tal Ciccotto, che morendo aveva lasciato il suo avere, circa mille ducati, una ricchezza, al padre di Peppino. Massaro Cola, il padre di Ligiuzzo, contadino litigioso, cocciuto e nella sua giovinezza molto manesco e accattabrighe, si era messo in testa che il cugino avesse falsificato il testamento di Ciccotto, e qui una causa innanzi ai tribunali, andata molto per le lunghe, e infine massaro Cola ebbe torto e dovette pagare le spese e risarcire i danni: una rovina. Fu costretto a vendere la masseria, il castagneto, l’orto, i buoi, e non gli rimase che la casa, sicché per la sua cocciutaggine si ridusse povero in canna. Immaginate quindi quale odio covassero quel vecchio e quel giovane per coloro che erano stati causa della loro rovina.
Era questo il motivo palese; ma ce ne era un altro occulto. Ligiuzzo, che era un bel pezzo di giovane, crebbe insieme alla figliola di massaro Giovanni, e avevano fatto l’amore sin da quando, bambini, si rincorrevano per l’orto o sedevano fra i cespugli sgranocchiando le spighe del granturco. Poi, massaro Giovanni, cugino del padre di Peppino il bersagliere, nell’affare del testamento era stato citato come testimone e aveva dato torto a massaro Cola, che se l’era avuto a male e aveva proibito al figliolo di porre piede in casa di quel Giuda venduto di massaro Giovanni; e questi aveva dichiarato alla figliola che l’avrebbe data in moglie al diavolo, ma non al figlio di quel calunniatore senza vergogna di massaro Cola, e, forse, per dispetto, combinò il matrimonio con Peppino il bersagliere, con gran dolore della giovinetta, perduta d’amore per Ligiuzzo. I due giovani avevano continuato nel loro affetto, che contrariato, si era accresciuto a mille doppi, quantunque disperassero, perché, troppo vive erano state le offese, e anche perché Ligiuzzo era troppo povero per superare gli ostacoli che impedivano la loro unione.
La gelosia e l’odio per Peppino il bersagliere battagliavano sordamente nel cuore di Ligiuzzo, e già nel paesello si prevedeva che quell’affare lì sarebbe finito male. Se Peppino era forte e coraggioso, Ligiuzzo non gli cedeva nulla, all’occorrenza se le avrebbe saputo vendicarsi le corna o cacciarsi le mosche dal naso. Si temeva che nella ricorrenza della festa di San Rocco, patrone del villaggio, i due rivali — che nei giorni di lavoro come erano dall’alba al tramonto nei campi, non avevano occasione d’incontrarsi — si sarebbero trovati a fronte, in un giorno che a onore e gloria del santo, il vino si tracanna a barile e la pancia piena di cibo fa corrivi al sangue. Di più si diceva che Peppino il bersagliere aveva detto che anche lui avrebbe incantato allo stendardo, il quale da anni e anni era stato portato da massaro Cola per dodici tomoli di grano, e nessuno aveva mai osato di offrire di più, nessuno, nemmeno quando massaro Cola aveva ceduto il suo diritto al figliolo Ligiuzzo. Ciò sarebbe stato un grave sfregio, e ognuno sa quanto sangue hanno fatto scorrere nei paeselli del Calabrese, i così detti incanti, che consistono nell’offrire un prezzo, in danaro o in derrate, per aver il diritto di portare, nelle processioni, la statua del santo, lo stendardo o la croce; dritto che appartiene a chi offre di più, ma che talvolta è ereditario in una famiglia. Il sindaco, cui erano giunte quelle voci, impensierito, invece di due aveva fatto venire quattro carabinieri, che, fin dalla vigilia, andavano in giro per il paesello, con la rivoltella al fianco e le manette nello zaino.
Così stavano le cose, la vigilia di San Rocco.
Dopo le cerimonie religiose che precedono la festa, i contadini erano tornati nelle case e, disposto il tutto per la solennità del domani, si erano coricati.
Il paesello dormiva. Ligiuzzo, scavalcata la siepe che divide dalla strada maestra l’orto di massaro Giovanni, si appressò alla scaletta che mette capo al ballatoio e diede un fischio acuto e sottile, poi stette in ascolto. Nell’ombra, la sua forte figura di montanaro spiccava come scolpita. Fischiò di nuovo, rodendosi dalla impazienza, poi tese le orecchie, aguzzò gli occhi, ché gli era parso di vedere aprirsi la porticina del ballatoio e di sentire il cigolio dei cardini.
Infatti, prima la testa, poi la persona di una donna si sporse fuori la balaustrata di legno, e una voce sommessa si udì: — Sei tu, Ligiuzzo?
— Sì, scendi.
— Aspetta ancora un poco. Mamma stanotte non so che abbia; si volta e si rivolta sul letto. Aspetta che si addormenti.
La porticina si rinchiuse; il giovane rimase immobile col braccio sui gradini della scaletta e gli occhi fisi nel vuoto a sé dinnanzi. Sul dorso dei monti lontani volavano lievi fiammelle che sparivano per riapparire più in là. Giù nella vallata, in fondo alla strada maestra, con sordo murmure scorreva il fiume fra il gracidio delle ranocchie. Lontano, latrava un cane da pastore; lieve un pispiglio si udiva fra gli alberi dell’orto, poi silenzio. Dalla campagna, turgida di umori, un’aria calda si elevava con profumi acri di erbe e di frutta.
La porticina si tornò ad aprire; una figura di donna apparve esitante nel vano della porta che si rinchiuse pian pianino; poi, sostando a ogni gradino, quella figura si diede a scendere la scaletta. Ligiuzzo l’aspettava trepidante con le braccia tese e soffocando il respiro.
Quando l’ebbe vicino, dicendole con voce commossa come un mormorio: — Credevo che non venissi stanotte.
— E perché? — domandò lei, tuttora tremante.
— Perché quando son solo, lontano da te, a me pare che tu non mi voglia più bene, e allora ho certi impeti di gelosia...
— Senti, Ligiuzzo,― interruppe lei, — tu con tali sospetti logori l’anima tua e non sai quanto male fai a me. Ma di che puoi dubitare? Di me? E non vedi che sono qui, sola, affrontando ogni rischio? E poi te l’ho giurato in chiesa, ai piedi del nostro glorioso protettore San Rocco, di esser tua... e ti pare che vorrei perdere la salute dell’anima col venire meno al mio giuramento?
— Ah, sì, tu dunque mi ami perché lo hai giurato a San Rocco! — disse lui con un sorriso di amarezza.
— Come sei cattivo, ora, tu! non eri così un tempo; son le disgrazie che ti hanno fatto così e che hanno inasprito il tuo carattere... Ma infine che vuoi che faccia? Lo so bene quel che vorresti da me... vorresti che io non lo vedessi più quel giovinastro che mi hanno destinato a marito. Ma gli posso chiudere la porta in faccia se mio padre se lo tira in casa a pranzo, a merenda, a cena, e mamma si diverte tanto nel sentirlo discorrere? o che la casa e mia? o che sono io la padrona? Pure non gli risparmio gli sgarbi, le cattive parole, e lo sa Dio quante me ne tocca sentire, poi, da tata e da mamma! Davvero, sei proprio ingiusto con me e anche ingrato, sì, ingrato!
E con la cocca del grembiule si asciugava le lacrime che silenziose le scorrevano giù per le gote.
— Sì, — rispose lui, che fisso in un pensiero non si era accorto del pianto di lei; — sì, dici bene tu, ma se sapessi che tormenti soffro quando lo so vicino a te, e me lo immagino seduto a te dappresso, nel focolare, a mensa, e ti parla e ti sorride e ti guarda e ti carezza con lo sguardo e ti considera già come cosa sua... suoi quei tuoi occhi, sua quella tua bocca, suo il tuo corpo, tutto suo... e forse, malcreato come egli è, ardisce... Se tu sapessi, quando son solo, sulla montagna, costretto a vangare la terra per pochi soldi e talvolta anche quella che mi appartenne... quando vedo quella casetta ove crebbi, quegli alberi che tata piantò nell’istesso giorno del mio nascimento, quei buoi che or fa un anno erano miei, che nacquero nella mia stalla, e che quando mi incontrano pare che mi guardino coi loro occhioni come se volessero dirmi tante cose... se tu sapessi che tormenti allora! E tutto ciò per colpa di quel falsario di massaro Peppe, di quel ladro! Se tu vedessi tata, poveretto, come è ridotto.... dicono che la colpa è sua, che non doveva litigare; ma, per la Madonna! ci rubavano il sangue nostro, e dovevamo anche stare muti e reverenti? E poi chi poteva mai credere che tuo padre ci facesse una testimonianza contraria e che si trovassero di tali giudici da darci torto? Ma infine, mi sarei rassegnato; povero, morto di fame; ma se tu avessi diviso il mio pane di castagne e la mia scodella di cavoli, non ci avrei pensato più e sarei vissuto contento. Ma no, il padre mi ha tolto i mille ducati di zio Ciccotto, ci ha fatto vendere il castagneto, l’orto, la masseria, i buoi... e il figliolo mi toglie la fidanzata, e quando mi vede mette di sghembo il suo berretto rosso, s’arriccia i baffi e mi ride sul muso! Io glielo farei in mezzo al petto un buco rosso, ma verrà, verrà il mio giorno... Per Gesù Cristo, io sono stato sempre un buon figliolo, e tu lo sai, non ho fatto male neanche a una mosca; il maestro, quando andavo a scuola, mi voleva un bene dell’anima, perché ero studioso, educato e imparavo presto e bene; ci rispettava, ci stimava ognuno, perché un piatto di minestra, un tozzo di pane, un bicchiere di vino non fu mai negato a nessuno... e intanto, noi nella miseria, e quegli usurai, che prestano con l’interesse a carlino, quelli lì ricchi, contenti…, Per lo Signore, Stella, certe volte il sangue mi monta alla testa; un giorno o l’altro finirà male, finirà male, come è certo Dio!
Ella lo ascoltava con gli occhi bassi e lacrimosi. Quando tacque, gli si strinse al petto, dicendo con accento tra il corrucciato e il supplichevole: — No, Ligiuzzo, no, questo non lo devi pensare, non lo devi dire, e non le devi nemmeno esagerare le cose, né credere che massaro Peppe e il figliolo vogliano attaccare briga con te, che anzi ne hanno parlato sempre con stima in casa mia. Di tuo padre non dico; e invero, poi, litigioso lo è, e la lingua l’ha bene affilata. Tutti dicono che nell’affare del testamento ebbe torto, e per lui massaro Peppe stette tra ventinove e trenta per andare in galera come falsario. Quale colpa ha lui se si difese e se suo padre, incaponito, si fece mangiare vivo dagli avvocati? Siamo giusti.
Egli saltò su, svincolandosi dalle braccia di lei: — Ah, proruppe, — tu li difendi! ah, tu dai ragione a quegli infami che non onoro nemmeno del nome di briganti, perché questi rischiano la pelle benedetti siano! Ed è questo il tuo affetto? è questa la tua fede? son queste le tue promesse? Già, sicuro, ad albero caduto, accetta accetta, dice il proverbio; ma io, vedi, io te lo scanno quel figlio di mala femmina... Mettilo bene in mente, tu con lui non ci andrai alla chiesa, ché se bisogna vi accoltellerò anche innanzi al Santissimo Sacramento!
— Ma che ho detto, Madonna mia? ma che ti salta in testa? ―gli veniva dicendo la giovinetta fra i singhiozzi e le lacrime. — Vedi come l’odio ti fa ingiusto? te la pigli anche con me, e davvero non me lo merito il tuo sdegno, no, non me lo merito... Vedi, son qui, fa’ di me quel che vuoi, ma non rimproverarmi più. Se tu sapessi quanto ne soffro per te, quanto ne soffro.... e il tuo sdegno per giunta! Proprio la Madonna mi vuol punire dei miei peccati, mi vuol punire!
E singhiozzava con la testa fra le mani. Egli la contemplò a lungo, rabbonendosi a poco a poco; poi le sollevò la testa, le asciugò gli occhi, dicendole con voce carezzevole: — Via su, perdonami non pianger più, perdonami, ti dico! Tu poi non sai tutto, se sapessi tutto mi daresti ragione. Domani è San Rocco, e mio padre ebbe sempre l’onore di portare lo stendardo nella processione. È una devozione di famiglia, e quando eravamo ricchi, al ricolto, i primi dodici tomoli di grano si mettevano da parte per la nostra offerta nel dì degli incanti. L’anno scorso, in cui tata cedette a me il suo diritto, Dio sa come li raggranellammo...: Quest’anno, vuoi che ti dica tutto? tata che vecchio, logoro dalle afflizioni, tata ha lavorato come un cane quest’anno, si è privato di tutto, del fuoco, della minestra, del pane, per mettere da parte i dodici tomoli che occorrono domani, capisci? e l’ho visto io, quel povero vecchio, andare digiuno a letto per non togliere neanche un acino a quei dodici tomoli! E domani quello lì oserà soperchiarci con le sue ricchezze male acquistate che gli permetteranno di offrire chi sa quanto... E non sarà un’infamia questa, di’, non sarà un’infamia! Per la Madonna del Carmine che ci protegge e mi ascolta, domani gli darò tanti colpi di coltello per quanti acini di grano avrà offerto di più quel cane rognoso.
Ella cercava di calmarlo.
— Ma no — gli diceva — ma no, non lo credo capace di tanto, non oserà.
— Oserà, oserà, vedrai. Egli, perché finora sopportammo in pace le sue e le ingiurie di suo padre, ci crede più vigliacchi di una pecora; ma domani troverà lupi con le zanne aguzze, e se lo mangeranno vivo, te lo giuro su questa croce.
E baciò su le dita incrociate. Ella allora si alzò risoluta; lo prese per il braccio e gli disse: — Senti, Ligiuzzo, è tardi e debbo risalire, che mamma e tata possono svegliarsi e allora povera me; ma io ti fo una promessa, a patto che tu me ne faccia un’altra. Ti prometto che se il figlio di massaro Peppe domani oserà mancare di riguardo a te e a tuo padre, e vincerà nell’incanto, domani notte, alla stessa ora, io sarò qui e ti seguirò ove tu vorrai; ma tu giurami che sopporterai in pace l’offesa, giuralo, che anche io son pronta a giurare.
Egli restò perplesso.
— Tu esiti — continuò lei, — ma sei tu, dunque, che non mi ami. Infine che importa a te dello stendardo, quando io in cambio ti offro tutta me stessa? È una devozione, ma San Rocco lo sa che tu e tuo padre avete fatto del vostro meglio, e non ve ne terrà in colpa. Giura dunque.
— Ma — balbettò lui — e mio padre? A lui non posso dire del patto che mi obbligherebbe a sopportare le offese con rassegnazione, ché quel vecchio, io lo conosco, sarebbe di tutto capace.
— Tuo padre col tempo si persuaderà e sarà anche soddisfatto, della vendetta; se quello lì ti toglie lo stendardo, tu gli porti via quella che gli destinano in moglie. A San Rocco penseremo poi: ai dodici tomoli aggiungeremo altri dodici, altri venti, se occorre, e li regaleremo al santo glorioso che non ci avrà perduto con lo aspettare. Dunque giuri?
Lui, combattuto da sentimenti diversi, esitava ancora; ella lo accarezzava, lo baciava, stringendoselo al petto che egli sentiva morbido e caldo sul suo; inebriato da quelle carezze che gli accendevano il sangue, balbettò: — Sì, lo giuro, sull’anima di mamma, che benedetta sia.
— Ebbene dunque va’: buona notte, a domani.
E si diede a salire la scaletta; quando fu su ballatoio, mandò un bacio all’amante che l’aveva seguita con gli occhi, poi aprì la porta ed entrò pian pianino in casa.
Egli rimase buon tratto appoggiato ai gradini della...

Table of contents

  1. Copertina
  2. RACCONTI CALABRESI
  3. Indice
  4. Intro
  5. Maria Monaco
  6. Francesco il mendico
  7. Capanna di carbonaio
  8. Leggenda montanara
  9. Andrea
  10. In carcere
  11. Mentre piove
  12. Vallone di Rovito
  13. Lo stendardo di San Rocco
  14. Un marito che si vendica
  15. Ringraziamenti